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L’incommensurabilità del sacro e l’incondizionatezza del

Nel documento «La scoperta dell altro come essere-sé» (pagine 125-129)

4. F ELICITÀ E BENEVOLENZA . L’ ETICA FILOSOFICA

4.1 La prassi morale come amor benevolentiae

4.1.2 L’incommensurabilità del sacro e l’incondizionatezza del

Il sacro è l’incommensurabile, ciò che non può essere dedotto o fondato in maniera funzionale, il ‘bene’ inteso come predicato univoco. Il presupposto di ciò è che un essere sia uscito dalla centratura su di sé caratteristica della pura vita, per la quale tutto che gli si fa incontro possiede una familiarità soltanto in quanto funzione per un soggetto che, in quanto privo di familiarità con se stesso, resta nascosto. Soltanto uscendo da questa posizione, in questa metanoia, l’io si rende visibile come quella realtà fondamentale che fonda ogni ‘valore’381.

In base alle parole del nostro autore, il superamento di qualsivoglia funzionalismo e l’incontro con il bene assoluto si danno solamente là dove l’uomo fuoriesce dal proprio egocentrismo e abbandona la dimensione istintuale et quidem entra proprio in quella dimensione di accoglienza in cui inabita l’amor benevolentiae. Difatti, ogni manifestazione di benevolenza nella nostra quotidianità, sia nella misura in cui ne siamo i propiziatori sia nel momento in cui essa è ingiunta dall’altro in quanto suoi beneficiari, proprio come qualsiasi incontro con la realtà in sé dell’altro, nel suo libero dar-si, per noi costituisce, ab origine, un’esperienza del sacro, dell’assoluto.

La modalità con cui ci relazioniamo a questa dimensione incondizionata e

380 Cfr.R.SPAEMANN,Natura e ragione, cit., 75-76: «Il fatto che l’uomo sia prezioso in sé, non soltanto per l’uomo, rende la sua vita qualcosa di sacro e questa è la sola ragione che può dare alla nozione di dignità umana quella dimensione ontologica senza della quale non è possibile concepire quello che questa parola significa. La parola “dignità” indica qualcosa di sacro: essa è in definitiva una parola religiosa o metafisica».

381 R.SPAEMANN,Felicità e benevolenza, 125.

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indeducibile è per il nostro autore quella di un’adesione totale, un’adesione cioè senza condizioni al fondamento incondizionato della realtà; non solo dunque un’adesione controvoglia, che non sarebbe un’adesione reale dal momento che verrebbe compiuta come prezzo per qualche cosa altra et quidem per qualcosa di finito. L’adesione senza condizioni ha il carattere del «ringraziamento, del ringraziamento per ciò che si mostra nella sua pura assolutezza, per ciò che nel linguaggio delle religioni di origine biblica si chiama ‘gloria’382».

Pertanto, il mostrarsi di ciò che non possiede alcuna condizione, dell’assoluto, consiste nell’essere di quell’ente finito nel quale l’idea dell’essere assoluto si fonde con il ringraziamento. L’ente che pensa quest’idea (l’essere assoluto), cioè la vita cosciente, riceve egli stesso quella assolutezza, quella ‘sostanzialità383’ attraverso la quale diviene imago di ciò che riverisce e, oltremodo, diviene abile a riconoscere quella medesima immagine in tutti gli altri individui. Il rispetto, dunque, o ‘riverenza384’, nel senso latino del lemma, è l’attitudine volontaria di tali soggetti. Nondimeno, una siffatta attitudine alla riverenza acquisisce una valenza negativa, nel senso che essa riduce l’intervento egocentrato del soggetto a beneficio del puro e semplice lasciar-essere dell’altro nella sua piena irriducibilità a essere-altro da sé.

In sostanza, poiché rispetto di sé, quest’attitudine vieta di ridurre il proprio essere a un’apparenza e di assoggettarlo all’istinto. Al contrario, essa propizia di considerare il proprio io come raffigurazione dell’incondizionato et quidem come qualcosa di definitivamente sottratto all’arbitrio personale: «i doveri nei confronti di se stessi non sono tali da permetterci di dispensarci da essi385». L’essere persona, la vita cosciente, è quindi manifestazione di quell’assoluto che solo il soggetto è in grado di comprendere, poiché, nell’istante in cui lo coglie, egli è già al di là della realtà relativa, ove si trova come essere naturale, e partecipa della realtà in sé. Il soggetto, allora, fa la scoperta di quella sostanzialità che si dà a fondamento di ogni oggettualità e la riconosce nel suo carattere

382 Ib., 126.

383 Cfr. Ib., 126.

384 Cfr. Ib., 126.

385 Ib., 127.

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incondizionato in sé e in tutti gli altri uomini, imponendosi, altresì, il dovere di rispettarla e la proibizione di disporne in modo arbitrario come mero mezzo o materialità.

La scoperta dell’altro come sostanzialità reale e incondizionata che precede e fonda ogni aspetto esteriore e qualitativo che posso conoscere direttamente attraverso il mio sguardo o la mia percezione, mi mostra l’altro come unica e irripetibile manifestazione dell’assoluto et quidem come portatore di un significato incommensurabile, che egli non assume dal mio punto di vista o in virtù del fatto che è per me, ma che appartiene in se stesso, universalmente. Ciò vale anche nei confronti di me stesso: il sentimento di rispetto dinanzi all’assoluto e la capacità di riflessione sulla mia natura come su quella dell’altro mi permette di comprendere che anch’io non sono solo un organismo guidato istintivamente verso l’autoconservazione, né sono solamente ‘l’altro dell’altro’386; anche in me esiste, difatti, un fine ultimo, incondizionato, che fa della mia vita un bene inviolabile e che si mostra all’altro nel momento in cui lui mi guarda con gli occhi della benevolenza, dell’accoglienza disinteressata. In altre parole, nel momento in cui un uomo abbandona il proprio sguardo oggettivante nei confronti dell’altro, per trascendere nella dimensione dell’essere in sé, tanto la sua realtà quanto quella dell’altro si aprono nello spazio della libertà e divengono vicendevolmente visibili. L’amore che si rivolge all’altro quando si accetta di vederlo nella sua spontaneità infinita e libera è, pertanto, lo stesso che rivolgiamo a noi stessi; anche noi, difatti, rimaniamo celati al nostro stesso sguardo, non ci comprendiamo e non ci conosciamo sino a che non ritroviamo nell’esperienza della ragione quella distanza da noi che ci permette di riconoscerci come un soggetto dotato di una dignità in sé e meritevole di un rispetto incondizionato da parte di tutti gli altri esseri umani.

In tal senso, Spaemann vuole sottolineare che l’amore che proviamo nei confronti di noi stessi rispecchia un atteggiamento di benevolenza, di “riconoscimento della realtà al di là dell’oggettività”387, un dischiuderci a noi stessi senza per questo porci al di sopra degli altri o

386 Ib., 122.

387 T.BUCHHEIM R.SCHÖNBERGER W.SCHWEIDLER (a cura di), Die Normativität des Wirklichen. Für Robert Spaemann zum 70. Geburstag, Klett-Cotta, Stuttgart 2002, 10.

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indirizzare ogni nostro atto alla considerazione solipsistica del nostro ‘io’:

«al re la mia vita ma non il mio onore388», è l’espressione che ci suggerisce il nostro autore per accompagnarci nella comprensione della sua idea di amore di sé. L’onore di una persona, la sua dignità, è ciò che ognuno di noi percepisce come la cosa più intima di sé, ciò che lo caratterizza come soggetto ancor prima di qualsiasi qualità fisica o mentale, in virtù della dimensione infinita ed extra-temporale che proietta l’uomo oltre la condizionatezza propria della sua esistenza meramente materiale. Nella stessa direzione va, parimenti, l’invito cristiano: “ama il tuo prossimo come te stesso”, che esprime l’apertura benevolente verso l’altro e, simul,

“implica quell’amore di sé nel quale la persona diventa reale a se stessa”389. A questo punto, ci si potrebbe domandare: è sempre dall’amore di sé che si muove il primo passo verso l’amore dell’altro oppure è la realtà propria che si svela in quanto tale grazie e in seguito al disvelamento di quella altrui? Spaemann non dichiara la priorità dell’una realtà sull’altra.

Nella comprensione della struttura teleologica delle forme di vita non coscienti o degli enti inanimati l’uomo procede attraverso un ragionamento analogico, tracciando un rapporto di somiglianza tra sé e gli altri enti (antropomorfismo o anche solo biomorfismo, per intendere l’analogia generale con cui si considerano i non viventi a partire dai viventi). Quando, però, si tratta di aprirsi alla realtà in sé di ogni essere umano, tale processo di analogia non ha luogo, poiché la realtà dell’altro mi si svela spontaneamente in tutta la sua alterità, che non dipende da me, né può essere compresa come tale a procedere da un confronto con la mia realtà. Io posso riconoscere, grazie alla facoltà riflessiva, riconoscere la mia sostanzialità incondizionata a partire da me stesso, ad esempio dalla constatazione del mio rapporto ‘ragionevole’ con la mia parte istintiva, ma da questo primo passo non segue la comprensione della realtà dell’altro nei termini “se io sono reale, allora anche l’altro è reale”390. Di converso, come asserisce Spaemann, potrebbe accadere «che sia l’amore per il prossimo il percorso lungo il quale avviene il destarsi del proprio io. Il significato della mia vita per un’altra persona può diventare per me il motivo per prendere

388 R.SPAEMANN, Felicità e benevolenza, 127.

389 Ib., 127.

390 Cfr. Ib., 128.

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sul serio me stesso391». Anche in questo caso, tuttavia, non si parla di analogia tra la realtà dell’altro e la mia, ma di due esperienze concrete di accoglienza della realtà, entrambe vissute personalmente, non derivate logicamente l’una dall’altra, la seconda dalla prima.

Ebbene, abbiamo sin qui cercato di argomentare, seppur per sommi capi, come nell’etica spaemanniana esperire la realtà dell’altro non vuol dire immediatamente esperire la mia, ma piuttosto percepire nell’altro quel carattere assoluto di cui, simul, sento di appartenere anch’io per il solo fatto di percepirlo, e di lì desiderare di rivolgere a me stesso il medesimo sguardo libero che ho rivolto all’altro da me, lasciandomi investire dal mostrarsi-dischiuso del mio essere sé. Per il nostro autore, quindi, una volta trascesa la prospettiva ‘oggettivistica’ del soggetto, ci si muove ormai nello spazio dell’accoglienza, ossia del già più volte menzionato sein-lassen, il lasciar-essere, ove ogni realtà è libera di mostrar-si nella sua vera ‘natura’.

Dopo quanto argomentato sin qui, cerchiamo adesso di riprendere e ripensare in maniera critico-sistematica questo passaggio narrativo-teoretico cruciale dell’etica filosofica spaemanniana, ove il nostro autore sembra quasi dar-ci una sintesi eloquente di quell’amor benevolentiae che è

‘bene-volenza’, ossia il luogo dove la realtà dell’altro si mostra per come è in se stessa, cioè come una ‘luce amabile’:

La vita (dell’uomo) è desta quando la ragione (pratica) non è più uno strumento al servizio dell’istinto ma diventa forma della vita. Essa allora cessa di contrapporsi astrattamente alla vita, diviene concreta, si riempie di forze vive, si trasforma in fantasia creativa e volere deciso: bene-volenza. In essa la realtà (dell’altro) si mostra per come è in se stessa, cioè come luce amabile392.

Nel documento «La scoperta dell altro come essere-sé» (pagine 125-129)