di Andrea Dossena*
* Prometeia Spa
1 Il concetto di decoupling fa riferimento alla possibilità che un sistema economico (in questo caso,
quello del continente asiatico) possa svincolare (disaccoppiare) il proprio ciclo economico da quello del resto del mondo. In questa particolare fase storica, il riferimento è alla possibilità che i paesi avanzati, dopo una fase di moderato recupero avviatasi nella seconda parte del 2009, pos-sano andare incontro a una nuova interruzione della crescita economica (il cosiddetto double dip), mentre l’area asiatica, grazie alla propria domanda interna, prosegua invece nella fase ciclica espansiva.
2 Tutte le elaborazioni sono state condotte a partire dalla banca dati Fipice.
3 I paesi considerati nell’analisi sono: Cina, Corea del Sud, Filippine, Giappone, Hong Kong, India,
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dell’area: Taiwan e Giappone (con oltre 110 miliardi di dollari nel 2010), mentre in deficit risultano, oltre al caso particolare di Hong Kong (in passivo di oltre 200 miliardi di dollari), solamente India e Thailandia. Da segnalare il saldo quasi nullo della Cina (con un attivo di “soli” 6 miliardi di dollari, contro uno di oltre 300 nei confronti del resto del mondo), determinato dal miglioramento della componente manufatti a fronte di un peggioramento marcato di quella relativa alle materie prime (in rosso per oltre 15 miliardi di dollari).
Rispetto alla composizione settoriale media del loro export verso il resto del mondo (Tavola 1), emerge nelle vendite destinate al continente asiatico un maggior peso delle materie prime per un elevato numero di paesi: oltre ai già citati India, Indonesia, Thailandia, Malesia e Australia, infatti, anche, seppur con un peso complessivo più contenuto, Filippine e Corea.
Quest’ultimo paese, insieme a Hong Kong e al Giappone, vede soprattutto un significativo maggior peso dei beni intermedi per l’industria, mentre non emergono particolari differenze tra il peso dei beni strumentali nell’export intra-area e in quello verso il resto del mondo. Tali risultati portano a un generale sottodimensionamento dei beni di consumo (tra i quali sono inclusi anche le auto e l’elettronica) nelle esportazioni dei singoli paesi verso l’area asiatica (tranne che per Singapore), particolarmente marcato per India, Indonesia e Giappone.
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Tavola 1 - Composizione settoriale dell'import-export dei paesi asiatici (1)
(pesi percentuali)
Scambi intra-area Scambi con il resto del mondo
Materie Beni Beni Beni Materie Beni Beni Beni
prime intermedi strumentali di consumo prime intermedi strumentali di consumo ESPORTAZIONI
Cina 6,1 21,4 18,3 54,2 2,4 21,7 16,2 59,6
Corea del Sud 12,9 29,3 23,5 34,3 3,8 18,9 33,5 43,8
Giappone 4,7 31,1 30,4 33,8 2,4 13,1 29,2 55,4 Hong Kong 8,9 18,2 19,7 53,2 8,6 12,1 12,8 66,5 India 64,9 16,2 4,2 14,6 23,4 25,7 8,3 42,5 Indonesia 57,3 15,7 5,9 21,1 22,5 20,2 5,7 51,6 Malesia 23,1 16,1 6,7 54,1 6,2 14,3 8,7 70,7 Filippine 14,6 8,8 8,1 68,5 6,7 8,2 12,4 72,7 Singapore 9,6 13,4 14,9 62,1 14,2 13,7 15,5 56,7 Taiwan 4,9 24,1 19,6 51,4 1,4 22,6 18,1 57,9 Thailandia 15,6 20,6 15,2 48,6 6,6 16,2 12,9 64,2 Australia 76,1 6,7 2,1 15,0 42,6 15,8 9,1 32,5 Totale Asia (2) 12,4 22,5 18,9 46,3 5,3 18,6 19,5 56,7 IMPORTAZIONI Cina 9,8 26,1 25,2 38,9 43,4 17,8 21,4 17,4
Corea del Sud 14,8 31,2 16,8 37,3 55,5 14,2 14,5 15,8
Giappone 20,5 19,3 13,1 47,2 61,3 11,1 10,4 17,2 Hong Kong 6,6 14,2 16,1 63,1 20,2 15,4 20,9 43,5 India 17,4 27,3 19,8 35,5 53,0 21,8 14,5 10,7 Indonesia 12,5 32,1 22,6 32,7 42,0 23,5 14,6 20,0 Malesia 8,2 18,8 17,4 55,6 20,1 16,4 20,1 43,3 Filippine 11,0 24,4 17,1 47,6 20,0 13,3 14,1 52,6 Singapore 20,4 11,6 16,4 51,6 44,0 11,2 24,5 20,3 Taiwan 10,1 30,1 20,6 39,2 54,2 16,9 12,1 16,8 Thailandia 7,4 32,3 21,6 38,6 44,7 18,8 12,1 24,4 Australia 21,5 18,3 13,7 46,5 14,4 24,1 27,0 34,5 Totale Asia (2) 12,4 22,5 18,9 46,3 48,7 15,8 16,3 19,2 (1) Media 2007-2008. (2) Esclusa Australia Fonte: banca dati Fipice
Se dal lato della specializzazione esportativa emergono quindi le materie prime e i beni intermedi, dal lato delle importazioni il peso maggiore dei flussi intra-area si ha per i beni di consumo, più rilevanti in tutti i paesi (escluse le Filippine) rispetto al loro peso sulle importazioni dal resto del mondo, seguiti dagli intermedi per l’industria (soprattutto per Corea, Taiwan e Thailandia). Un significativo maggior peso dei beni strumentali nelle importazioni intra-area rispetto a quelle complessive si ha invece solamente per Indonesia, Taiwan e Thailandia, mentre è marcatamente inferiore per Singapore.
Questi risultati sottolineano, in prima battuta, la fragilità dell’area asiatica rispetto all’approvvigionamento di materie prime, accomunandola in questo agli altri grandi sistemi economici mondiali (Europa e Nord America) e contribuendo ad alimentare le tensioni internazionali per ottenere approvvigionamenti sicuri nel tempo e adeguati alle crescenti necessità interne. Risulta altresì evidente come sempre più i paesi dell’area dovranno investire nello sviluppo di sistemi agricoli moderni e di un potenziale energetico meno dipendente dall’estero, un percorso già realizzato con successo nei beni intermedi, nei quali l’area nel suo complesso è già oggi esportatrice mondiale netta.
Un altro aspetto rilevante riguarda i settori dei beni di consumo, nei quali nonostante la consistente crescita dei redditi medi il mercato continua a essere dominato da produzioni locali (oltre il 70 per cento delle
importazioni), più accessibili alla maggioranza della popolazione rispetto ai prodotti europei e americani e limitando, per ora, il ruolo dei paesi asiatici come mercato di sbocco delle merci prodotte nei paesi extra-area. Con riferimento alle due principali economie dell’area emergono due percorsi opposti, legati al ruolo di baricentro economico che la Cina ha velocemente assunto. Sia questo paese che il Giappone evidenziano infatti nei confronti delle altre economie continentali un attivo commerciale
manifatturiero, ma mentre per la Cina questo è irrisorio rispetto al suo attivo commerciale nei confronti del resto del mondo (e concentrato nei soli beni di consumo), per il Giappone esso ne rappresenta una quota superiore al 35 per cento, quasi interamente ascrivibile ai beni intermedi e strumentali. Semplificando al massimo, il modello di sviluppo sembra essere quello di una Cina che funge da interfaccia commerciale con la domanda mondiale, alimentandosi con le materie prime, i semilavorati e la tecnologia prodotti dagli altri paesi dell’area (e, secondariamente, dal resto del mondo).
Le evidenze nel 2009
Come ha impattato la crisi, che ha coinvolto con intensità diversa le economie dell’area, sui processi di regionalizzazione degli scambi e sul ruolo cinese di porta dell’Asia verso il mondo? Stanno emergendo segnali in merito a un cambiamento del modello di sviluppo asiatico,
prevalentemente sotto la spinta delle misure di stimolo alla domanda interna in molte economie dell’area?
I risultati del 2009, sebbene non sufficienti a validare ipotesi complessive su modifiche strutturali all’orientamento intra-asiatico dei sistemi economici continentali, tenderebbero a non sostenere l’ipotesi del decoupling.
A fronte di un calo delle importazioni complessive asiatiche di manufatti attorno al 16 per cento, quelle di prodotti intra-area hanno fatto meglio solamente per mezzo punto percentuale, quasi interamente ascrivibile agli scambi di beni intermedi. Segnali un po’ diversi emergono dall’analisi dei
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flussi di esportazione: quelli diretti verso il resto del mondo, complice la crisi di domanda mondiale, hanno infatti fatto registrare una variazione negativa prossima al 20 per cento, mentre quelle intra-area si sono fermate a un -15 per cento. È però analizzando il ruolo avuto dalla Cina in questi risultati che emergono le ragioni per scartare, per il momento, l’ipotesi di un decoupling delle economie asiatiche nell’immediato.
Nonostante gli ingenti interventi volti a sostenere la domanda interna, infatti, le autorità cinesi hanno continuato a “spingere” le vendite all’estero del paese, cercando di sfruttare le poche opportunità presenti sui mercati internazionali, opportunità che erano per lo più nei mercati a lei vicini. In un solo anno, la quota detenuta dalle esportazioni cinesi sui flussi intra-asiatici è infatti aumentata di quasi un punto e mezzo percentuale (dal 26,3 per cento al 27,7 per cento), ma ancora più significativo è stato l’incremento del peso delle esportazioni cinesi su quelle asiatiche rivolte al resto del mondo: oltre 3 punti percentuali, dal 39,1 per cento al 42,7 per cento, rafforzando sempre più il ruolo cinese di interfaccia unica tra il continente e il resto del mondo.
L’economia cinese continua quindi a caratterizzarsi come una straordinaria macchina da export, che per evitare che il suo immenso potenziale produttivo generasse, per colpa del crollo della domanda sui mercati europei e
nordamericani, un rischioso surplus d’offerta ha messo in atto strategie commerciali particolarmente aggressive per battere, in primo luogo, la concorrenza degli altri paesi asiatici (anch’essi in larga parte caratterizzati da bassi costi di produzione) sui mercati mondiali e, secondariamente, per cercare di penetrarne con maggior intensità i mercati interni. Questo è avvenuto principalmente nei settori di specializzazione, quelli cioè legati al consumo, ma soprattutto sul fronte extra-asiatico è da registrare un importante segnale in ottica futura: il peso delle esportazioni cinesi di beni strumentali è infatti arrivato a rappresentare il 35 per cento delle vendite asiatiche.
Non si può inoltre nemmeno affermare che le altre economie continentali abbiano potuto beneficiare della maggior tenuta cinese: il peso delle loro esportazioni sugli acquisti dall’estero del gigante asiatico, infatti, ha mostrato un leggero arretramento, diffuso a tutti i settori manifatturieri ma con intensità maggiore nei beni intermedi. È infatti probabile che la Cina, molto vorace di materie prime e semilavorati di base, abbia approfittato della minor concorrenza degli approvvigionatori delle economie avanzate per rifornirsi dai paesi specializzati in questo comparto (America Latina, Africa, Australia), cercando di stringere alleanze strategiche per garantirsi anche in futuro rifornimenti più sicuri.
Oltre ai dati quantitativi, anche altri segnali indicano la volontà cinese di continuare a proporsi come fabbrica per il resto del mondo, come la recente campagna promozionale Made with China, tesa a rivalutare le produzioni cinesi dal punto di vista qualitativo, evidenziando le partnership, anche tecnologiche, con le maggiori imprese internazionali.
In sintesi, la crescente integrazione asiatica non appare ancora in grado di sostenere uno sviluppo endogeno diffuso e costante. Gli interessi e la forza della Cina sono infatti troppo predominanti per consentire alle altre economie di svincolarsi dal canale domanda mondiale-Cina: i loro sistemi produttivi, sostenuti anche da investimenti diretti cinesi e del resto del mondo, continueranno a sostenere il manifatturiero cinese nella sua crescita dimensionale, ma avranno sempre più in esso il loro maggior concorrente, soprattutto nelle fasi di debolezza del commercio internazionale.
Lo scenario previsivo1
Ormai da molti mesi il commercio mondiale ha ritrovato una dinamica espansiva, rafforzando così il percorso di recupero dei volumi scambiati sui mercati internazionali dal punto di minimo raggiunto a metà 2009. La velocità della crescita è però molto diversa nelle varie aree mondiali, con i paesi emergenti, soprattutto quelli asiatici, a fare da “lepre” e quelli maturi, in particolare in Europa, nel ruolo di inseguitori. La maggior persistenza della crisi nel Vecchio Continente appare il fenomeno più preoccupante anche in ottica futura, in quanto il venir meno dei piani anti-crisi e la necessità per gli stati sovrani di recuperare almeno parte degli squilibri finanziari, andando a gravare sui bilanci di famiglie e imprese, costituiscono un elemento di forte preoccupazione circa la possibilità di un rafforzamento e una continuità della fase di recupero in atto.
Tali elementi non esauriscono i loro effetti nell’anno in corso, ma
condizionano l’evoluzione attesa per il commercio mondiale fino alla fine del periodo di previsione. Nel 2012, infatti, le importazioni di manufatti dell’Uem e dell’America settentrionale rappresenteranno solo il 45 per cento del commercio mondiale2(contro il 50 per cento nel 2007), un livello forse difficilmente immaginabile solo qualche anno fa, quando si riteneva che la crescita delle economie emergenti avrebbe riguardato più gli aspetti di competitività e redistribuzione delle quote di mercato che quelli relativi alla rilevanza dei diversi mercati di sbocco.
L’Asia avrà la parte più rilevante nel guadagno d’importanza dei nuovi mercati, ma anche l’America centro-meridionale, il Nord Africa, il Medio Oriente e gli altri paesi dell’emisfero australe, pur con un peso complessivo meno rilevante, sono attesi mostrare una dinamica di espansione
significativa (Tavola 1).
Nell’anno in corso, gli elementi critici sopra menzionati condizioneranno l’entità della ripresa degli scambi nel continente europeo, soprattutto nelle aree centrali e orientali. Una maggior debolezza rispetto agli anni pre-crisi potrebbe caratterizzare anche il Medio Oriente, sia per le forti difficoltà del comparto immobiliare, sia per il ritardo con cui le variazioni dei prezzi delle materie prime energetiche (crollati nei primi mesi del 2009) si traducono in variazioni della capacità di spesa sui mercati esteri. In America
settentrionale (e con un po’ più di ritardo in Giappone), come testimoniano