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L’ UTOPIA DELLA LEGGE NATURALE FRANCESCOTOTARO*

Apertura trascendentale e libertà

L’ UTOPIA DELLA LEGGE NATURALE FRANCESCOTOTARO*

D

IRITTI UMANI E LEGGE NATURALE

Prendiamo le mosse dalla importanza oggi attribuita ai diritti umani. A partire in modo solenne dalla Dichiarazione universale dei diritti

dell’uomo del 1948, essi sono diventati un caposaldo

dell’affermazio-ne della dignità della persona, presa in sé e dell’affermazio-nella relaziodell’affermazio-ne con altre persone. Considerati un patrimonio ideale inscindibile dalle forme democratiche della convivenza, i diritti umani hanno avuto, e conti-nuano ad avere, ampliamenti e integrazioni man mano che si procede al superamento di discriminazioni ed esclusioni a carico di soggetti individuali e collettivi. Non mancano peraltro le critiche alla loro “pretesa di universalità”, né i conflitti riguardo alla opportunità o

meno della loro espansione. All’adagio “il diritto di avere diritti”1 si

affianca infatti, e talvolta si contrappone, l’interrogativo: “chi ha dirit-to ad avere diritti” e “con quali limiti e, eventualmente, entro quale ordine di preferenze”?

All’incrocio di queste domande si apre il fronte della possibile giusti-ficazione dei diritti. L’interrogativo “come i diritti vengono giustificati” e, ancora più a fondo, “se esigono di essere giustificati” è aperto a una pluralità di vedute. Da più parti si è impegnati a dare conto della fonte dei diritti e della loro espressione, quale che sia la connotazione che a tale fonte viene attribuita: di tipo storico, ontologico, metafisico ecc. oppure ricercando il loro intreccio.

*Già professore ordinario di Filosofia Morale presso l’Università di Macerata. 1Riecheggiando Hannah Arendt, Stefano Rodotà ha intitolato appunto uno dei suoi

scritti più recenti Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2012, dove si parla molto di dignità della persona ma non certo di legge naturale e di diritti naturali.

Nell’alveo della tradizione teologico-filosofica dell’Occidente, i diritti vengono riferiti a una legge che in modo permanente sul piano ontologico, e con una certezza relativa (o aliqua necessitas, per dirla con Tommaso d’Aquino) sul piano gnoseologico, corrisponderebbe alla costituzione essenziale dell’umano. Un tale riferimento permette-rebbe di mettere a tema inclinazioni antropologiche strutturali e di for-mulare principi comuni, per quanto generali, dell’agire. Come consi-derare la ‘pretesa’ di agganciare i diritti umani a una legge ‘naturale’?

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UALE RAPPORTO

Secondo un paradigma hard del rapporto, i diritti umani derivereb-bero dalla legge naturale per deduzione logica o per univoca corri-spondenza. Si tratta in verità di un modello scolastico attualmente ampiamente disabilitato nella sua impostazione più rigida. Di conse-guenza il riferimento alla legge naturale ha assunto piuttosto la valen-za di un parametro valutativo e selettivo ai fini dell’accettazione o del rifiuto dei diritti che man mano emergono nella vicenda storica.

In una visione soft, la legge naturale è da intendersi come un fascio di finalità antropologiche irrinunciabili, suscettibili di una espressione tematica grazie a un catalogo di valori i quali, nella sfera delle media-zioni storiche, orienterebbero l’agire in modo ragionevole. Qui il regi-stro sembra spostarsi dal piano della struttura ontologico-metafisica dell’umano a quello delle istanze della razionalità pratica (princeps di

questa posizione potrebbe essere John Finnis)2.

In una terza posizione, a sua volta hard per antitesi, il linguaggio della legge naturale si opporrebbe comunque alla capacità di ricono-scere e acquisire i diritti umani, i quali scaturiscono sempre dalle novità dell’esperienza. Soltanto sganciandosi dall’ipoteca di una legge

2Cfr. J.M. FINNIS, Natural Law and Natural Rights, Oxford University Press, Oxford 1992; tr. it. di F. Di Blasi a cura e con Introduzione di F. VIOLA, Legge naturale e

diritti naturali, Giappichelli, Torino 1996.

naturale ci si metterebbe in grado di conquistare e difendere i diritti umani nell’unico terreno in cui si manifestano e possono crescere: quello di una storicità radicale e autosufficiente. Questa posizione viene sostenuta sia da chi teme ‘prevaricazioni’ teologiche a danno

dell’etica3, sia da chi, anche da un punto di vista credente, vorrebbe

liberare la valorizzazione dei diritti umani dalle incrostazioni ontologi-co-metafisiche, tacciate di essere tributarie della tradizione ellenica.

Una versione forse più mite suggerisce una sorta di deposizione della legge naturale. Priva di capacità fondativa, per quanto rispettabile come nobile reperto archeologico, essa sarebbe uno strumento arrugginito, ina-datto quindi a offrire soluzione efficace a problemi che dovrebbero

esse-re affrontati con un apparato concettuale storico-scientifico4.

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UALE FONTE DEI DIRITTI

A questa lista delle posizioni differenti riguardo alla legge naturale occorre associare la consapevolezza del fatto che la riflessione deve tenere conto di un lungo percorso, che si snoda nella successione di legge naturale, diritto naturale classico e diritti naturali moderni, ap-prodando infine ai diritti umani, i quali oggi si aprono pure ai diritti

degli animali non umani e ai diritti dell’ambiente5.Il turning point è

senza dubbio il passaggio dalla visione oggettiva alla visione soggetti-va del diritto, in armonia con la transizione più generale, a livello filo-sofico e culturale, dal primato dell’essere al primato del soggetto.

3Per un documento significativo di una tale fobia si veda E. LECALDANO, Un’etica

senza Dio, Laterza, Roma-Bari 2006.

4È la linea sostenuta, mi pare, da Gian Enrico Rusconi in Non abusare di Dio. Per

un’etica laica, Rizzoli, Milano 2007.

5Cfr. M.C. NUSSBAUM, Frontiers of Justice. Disability, Nationality, Species Membership, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge Mass. – London 2006; ed. it. a cura di C. FARALLI, Le nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità,

Una tale sequenza, però, non è affatto lineare. Massimo Reichlin ha evidenziato la curvatura, acceleratasi con la modernità, dello jus oggetti-vo, che stabiliva e salvaguardava rapporti di giustizia tra agenti cui si chiedeva conformità a un ordine indipendente dalle volontà, verso lo jus soggettivo, il quale attribuirà titoli e prerogative, appunto, ai soggetti in

quanto centri di volontà e di decisione6. Lo jus oggettivo rispondeva a un

paradigma di ordine e a modelli teleologici che, a partire dalla struttura del cosmo e della sua razionalità intrinseca, sfociavano nell’ordine della

polis, dove trovava espressione e realizzazione il diritto naturale. Rispetto

a tutto ciò, i diritti naturali, al plurale, introducono una differenza non solo perché risentono dell’accentuazione delle pretese soggettive, ma anche perché si impongono attraverso movimenti storici “rivoluzionari”, i quali suscitano valutazioni negative e aspre censure in quanto ispirati a rivendicazioni che appaiono contrarie alla legge naturale e al diritto natu-rale, nonché lesive dei detentori legittimi della potestas legislativa e dei suoi garanti supremi. La questione, per quanto possibile, va approfondita.

In uno studio molto documentato e puntuale di Daniele Menozzi7, si

trac-cia una periodizzazione dei diritti umani, non distinti dai diritti naturali e spesso menzionati come “diritti naturali dell’uomo”, che li ascrive alle due grandi rivoluzioni moderne, quella americana e quella francese, e alle rispettive Dichiarazioni di indipendenza (1776) e dei diritti dell’uomo

e del cittadino (1789). Lo storico del cristianesimo ricorda che, mentre il

6M. REICHLIN, Natura umana e diritti umani nel dibattito etico contemporaneo, in F. TOTARO(ed.), Legge naturale e diritti umani, Morcelliana, Brescia 2016, pp. 45-61. I contributi al volume sono tutti meritevoli di attenzione. In particolare, V. Possenti, in Annotazioni sulla natura umana e la legge morale naturale (ibi, pp. 179-190), lamenta lo sganciamento dei diritti umani dalla legge naturale, e il conseguente oscuramento dei doveri, a causa della rinuncia, nel contesto culturale postmoderno e postmetafisico, a «impegni ontologici» (p. 179). In questa linea critica (sviluppata più ampiamente in V. POSSENTI, Diritti umani. L’età delle pretese, Rubbettino, Soveria Mannelli 2017) bisognerebbe però guardarsi dal rischio di investire la legge naturale di una funzione censoria nei confronti dei diritti umani e, specialmente, di quelli di recente generazione.

7D. MENOZZI, Chiesa e diritti umani, il Mulino, Bologna 2012.

primo vescovo cattolico americano, John Carroll, non aveva avuto diffi-coltà a leggere nella Dichiarazione di Filadelfia «un richiamo al Dio

cri-stiano»8, la promulgazione della Dichiarazione dell’Ottantanove

«avvie-ne in un contesto ben diverso: essa infatti toglie alla chiesa privilegi a

lungo goduti»9. Essa introduce una frattura profonda rispetto alla

conce-zione della società presente nella tradiconce-zione cattolica; di conseguenza «non è più una norma superiore di origine trascendente a fissare i confini all’esercizio delle libertà attribuite ai singoli: spetta agli uomini determi-narli». Inoltre «la definizione del bene comune della collettività perde il richiamo alla finalità ultraterrena dei suoi componenti»; «l’assetto sociale basato sui diritti umani appare il frutto di un atto di autodeterminazione di individui che si sottraggono alla sottomissione verso norme fissate per regolamentare la vita associata dal cristianesimo e, in particolare, dalla loro interpretazione a opera dell’istituzione ecclesiastica, unica detentrice

delle eterne leggi iscritte da Dio nella natura»10. Insomma, i diritti umani,

o i diritti naturali umani, verrebbero contrapposti ai diritti di Dio ammini-strati dalla istituzione ecclesiastica.

La posta in gioco è lo spostamento del luogo dell’autorità e della fonte di legittimazione dei diritti. La difficoltà ad accettare i diritti dal basso si protrasse per molto tempo e, del resto, è noto che parecchi, all’interno della organizzazione ecclesiastica, non guardavano con sim-patia al Maritain che si adoperava alacremente, e in autonomia, nella ela-borazione del documento dell’ONU del 1948, con il quale si suol fare iniziare la generazione dei diritti umani in senso stretto.

R

ATZINGER

,

DIRITTO NATURALE E DIRITTI UMANI

Questi precedenti storici ci permettono di comprendere i motivi del permanere di perplessità interpretative concernenti i diritti umani, quan-do di essi si elogiano i contenuti ma, al tempo stesso, si paventa la

possi-8Ibi, p. 9.

9Ibi, p.10.

bile deriva relativistica nell’ipotesi che siano agganciati esclusivamen-te a una logica di autodeesclusivamen-terminazione e di autocomprensione imma-nente. Riguardo al rapporto tra diritto naturale, il quale poggerebbe su una più estensiva ragione naturale oggettiva, e diritti umani, è istrutti-vo il dialogo a suo tempo sistrutti-voltosi tra Joseph Ratzinger e Jürgen Habermas. Per comprendere adeguatamente il pensiero del pontefice emerito non si deve estrapolare la sua constatazione apparentemente sconsolata: «Come ultimo elemento del diritto naturale, che nella dimensione più profonda voleva essere un diritto razionale,

comun-que, nell’epoca moderna, sono rimasti i diritti umani»11. A non volerla

prendere come una sorta di svendita del diritto naturale a favore dei diritti umani autodeterminati, la frase va letta nel suo contesto.

Dopo un “omaggio” a Hugo Grotius e a Samuel von Pufendorf che, dopo lo scisma nella fede, hanno sviluppato un «diritto comune» o un «minimo di diritto» nella forma del diritto naturale come diritto razio-nale, Ratzinger batte il chiodo principale della sua riflessione: «Il diritto naturale – particolarmente nella Chiesa cattolica – è rimasto il modello di argomentazione con cui essa si appella alla ragione comune nei dialoghi con la società laica e con altre comunità di fede e cerca i fondamenti a favore di un’intesa sui principi etici del diritto in

una società pluralistica “secolare”»12. Ma il diritto naturale è stato

depotenziato a causa del prevalere della visione evoluzionistica della natura, la quale sarebbe impregnata di elementi “irrazionali”, presumi-bilmente in quanto non più incentrata su un ordine finalistico e rispon-dente a un piano intelligente, bensì sulla casualità dei processi. La intervenuta scissione tra natura e ragione porta Ratzinger a dichiarare sia che lo strumento argomentativo del diritto naturale «appare spunta-to», sia che egli si astiene dal «far leva su di esso» come topos basilare nel dialogo con Habermas. Ma si tratta di una rinuncia tattica. Infatti, dopo avere affermato: «ci sono rimasti i diritti umani», Ratzinger incalza: «Essi non si possono comprendere senza il presupposto che

11Vedi J. RATZINGER- J. HABERMAS, Etica, religione e Stato liberale, Morcelliana, Brescia 2005, p. 51.

12Ibi, p. 50.

l’uomo come uomo, semplicemente a motivo della sua appartenenza alla specie uomo, è soggetto di diritto, che il suo stesso essere porta in sé valori e norme, i quali si devono trovare, ma non inventare».

È qui interessante notare l’uso di un termine, quello di “soggetto”, in linea con l’attribuzione ‘moderna’ dei diritti. In nome della sua con-notazione specifica – si può intuire quella di animale “razionale” – il soggetto viene considerato portatore di diritto in quanto è però connes-so a uno statuto ontologico. Sarebbe quest’ultimo allora a fare da sup-porto a valori e norme, motivando quindi la conclusione, da parte di Ratzinger, che valori e norme «si devono trovare, ma non inventare».

Quali vantaggi comporta una visione ontologica e non soggettivi-stica del soggetto di diritto? Ponendo a fondamento del soggetto il suo

essere, come fonte stabile e unitaria dei valori e delle norme, si

mette-rebbero degli argini alla invenzione ad libitum dei diritti declinati al plurale. Ecco perché, tornando sui diritti umani, alla fine si ripropone sommessamente una misura dei diritti derivante da una integrazione con i doveri in conformità a un ordine di razionalità complessiva: «Forse oggi la dottrina dei diritti umani dovrebbe essere integrata con una dottrina dei doveri umani e dei limiti dell’uomo, e ciò potrebbe ora comunque aiutare a rinnovare il problema se non possa darsi una ragione della natura e così un diritto naturale per l’uomo e per il suo

dimorare nel mondo»13.

La linea di ricerca indicata da Ratzinger è certamente preziosa. Tuttavia si deve dire che il suo argomentare, e il nostro con il suo se imbocchiamo la via ontologica, non sfugge a una petizione di princi-pio. Il rimedio alla invenzione illimitata dei diritti dovuta all’oscura-mento dei doveri e dei limiti, che è certamente un problema acuto del nostro tempo, verrebbe a dipendere da qualcosa che, oggi, non s’impone con evidenza universale: l’affermazione del diritto naturale e, alle sue spalle, della legge o ragione naturale. Prudentemente Ratzinger affida le sorti della soluzione del problema da lui evocato al dialogo interculturale, dove, da parte dei cristiani e quindi dei sosteni-tori di una fede, si può avanzare la prospettiva della creazione e del

di un “allargamento di contingenza” che riguarda la nostra natura interna e arriva a incidere sulla “struttura complessiva della nostra esperienza morale”. Riferendosi anche a Dworkin, in sostanza Habermas viene a dire che, con lo spostamento del confine tra l’ambito di una necessità naturale lasciata al caso e l’ambito della scelta, noi siamo giunti a rendere oggetto di decisione ciò che prima a essa si sottraeva. Ciò cambierebbe le basi del-l’autocomprensione morale di soggetti che sono responsabili della loro storia di vita e si rispettano a vicenda come liberi ed eguali. L’endiadi di libertà ed eguaglianza verrebbe spezzata, in quanto sarebbe compromessa da una pratica eugenetica diretta da una libertà di scelta selettiva e asim-metrica quanto alla posizione di chi – il nascituro – non può che essere ridotto a un oggetto della scelta stessa. Andrebbe a picco l’universalità di una morale che rispetti in tutti la pari dignità umana.

Ora, Habermas rileva con preoccupazione gli effetti di un passaggio di confine tra ciò che finora siamo stati in base alla indisponibilità per noi delle condizioni generative e ciò che possiamo diventare esercitando un potere di riproduzione spinto fino a modalità generative che modificano in radice le condizioni date nel corredo genetico. Se si applica il modello paritario della razionalità comunicativa al rapporto tra l’adulto e il nasci-turo, si può accusare la libertà di decisione unilaterale del primo di avere sottratto al secondo l’esercizio della libera scelta. Il nascituro, per così dire, sarebbe predeterminato ad arbitrio di altri.

Nella sua veste più superficiale la denuncia della diseguaglianza assu-me anzitutto una rilevanza sociale. Molti rimarrebbero esclusi dalla pos-sibilità di spostare il confine tra natura e contingenza a causa della scar-sità delle risorse. Si creerebbe, quindi, la discriminazione tra soggetti in grado di beneficiare del potere di causalità genetica e soggetti che di tali poteri sono privi. Sul punto non è però difficile osservare che la connota-zione selettiva degli interventi di manipolaconnota-zione genetica cadrebbe qua-lora, con politiche opportune, lo spostamento della frontiera tra caso e scelta fosse esteso a tutti diventando un beneficio universale.

Il problema si fa però più grave allorquando la diseguaglianza o non reciprocità delle posizioni venga a investire il nascituro a qualsiasi condizione sociale egli appartenga. Il nascituro non sarebbe infatti in alcun modo protagonista dello spostamento del confine tra casualità naturale e scelta, bensì lo subirebbe ad arbitrio dei genitori. Questi rapporto con il Creatore. In tale prospettiva occorrerebbe però, a mio

avviso, ricalibrare la figura della creazione e l’immagine del Creatore, per liberarle dallo stereotipo della divinità che impone prescrizioni nella logica dell’eteronomia e si contrappone all’autonomia dell’umano. Rimanere in quello stereotipo significherebbe contraddire, e non

inte-grare, acquisizioni irreversibili dell’età secolare14.

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ABERMAS E IL DIRITTO ALLA DIGNITÀ UMANA

La ricerca di una misura dell’agire umano nell’epoca dell’eccesso delle possibilità nell’esercizio dei diritti è comune a una vasta schiera di pensatori che non fanno entrare in campo il paradigma della legge naturale e del suo rispetto. In modo eminente, Habermas fa leva sulla capacità della regola di reciprocità, pilastro della razionalità comuni-cativa, di porre limiti teorici agli esiti, fortemente paventati, di

mani-polazione dell’embrione15.

Per Habermas l’ingegneria genetica, nelle applicazioni alla selezione e alla modificazione delle caratteristiche ereditarie, rimette alla nostra

disponibilità la base fisica che noi siamo “per natura”16: Più precisamente:

«Nella misura in cui la casuale evoluzione delle varie specie si assoggetta all’intervento dell’ingegneria genetica, vediamo confondersi tra loro que-gli ambiti categoriali del tecnicamente prodotto e del naturalmente divenuto che nel mondo di vita continuano invece a valere come rigorosamente

separati»17. Il kantiano “regno della necessità” si assottiglia, a vantaggio

14Cfr. CH. TAYLOR, A Secular Age, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge Ma – London 2007; ed. it. a cura di P. COSTA, L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009.

15Vedi J. HABERMAS, Die Zukunft der menschlichen Natur. Auf dem Weg zu einer

liberalen Eugenik?, Suhrkamp, Frankfurt/M 2001, tr. it. a cura e con Postfazione di

L. CEPPAin ID., Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Einaudi, Torino 2002.

16Ibi, p. 30.

ultimi si arrogherebbero una facoltà indebita, che potrebbe essere recriminata dal nato una volta divenuto a sua volta adulto: «I genitori, senza presupporre nessun consenso, hanno semplicemente deciso in base alle loro preferenze, come se potessero arbitrariamente disporre

di una cosa»18. Quando però la “cosa” giunga a esprimersi come

per-sona, le scelte dei genitori programmatori sarebbero imputabili a posteriori di una comunicazione mancata in origine per difetto di reci-procità. Le “richieste” dei genitori sono ormai già state fissate geneti-camente e non ammettono replica. La relazione comunicativa tra geni-tori e figlio diverge irrimediabilmente da quella in cui i genigeni-tori sono normalmente autori di richieste nel rapporto con un giovane in crescita che è titolare di una storia di vita aperta e non predeterminata.

Qui Habermas evoca senza dubbio una scena fortemente asimmetri-ca, ma non sembra tenere in conto che la scena della generazione e della nascita è comunque asimmetrica. Nella relazione generativa, sempre alcuni decidono per altri. Il paradigma dell’agire comunicativo non sem-bra quindi applicabile alla relazione genitori-nascituro. La difesa della casualità come fondamento della reciprocità comunicativa deve fare i conti con una condizione di asimmetria strutturale e non può evocare una situazione di parità tra i soggetti che è ancora da venire. Non sem-bra quindi persuasiva. V’è di più. Un atteggiamento recriminatorio nei confronti dei genitori potrebbe scaturire anche dal rimprovero (o dal risentimento) per non avere essi utilizzato tutti i mezzi tecnicamente disponibili non solo per evitare al figlio deficit e sofferenze, ma anche per ottenere il livello massimo di performance. Lasciare immutata la condizione casuale del soggetto che deve nascere non garantisce pertan-to di ottenere il suo consenso retroattivo più di quanpertan-to tale consenso non possa invece essere motivato dalla gratitudine per i passati interventi di

improvement genetico. L’argomento del consenso paritario appare

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