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N ATURA E POSSIBILITÀ

Apertura trascendentale e libertà

N ATURA E POSSIBILITÀ

C

ONSIDERAZIONI A PARTIRE DA

J

ULES

L

EQUIER

EMANUELELEPORE

*

I

NTRODUZIONE

Ritornare sulle parole più diffuse nel linguaggio ordinario e sui concetti che esse vorrebbero veicolare, che la consuetudine cristallizza in uno o più significati astratti, è una delle operazioni che la filosofia compie regolarmente. Quanto ci proponiamo in questo breve scritto è di impostare il problema della legge morale che pretende di essere ade-guata alla vita umana e, perciò, dice di essere “naturale” nel senso di

coerente con le esigenze della forma di vita1 a cui si rivolge. Ci

rife-riamo principalmente al pensiero di Jules Lequier e, determinatamente, alle implicazioni morali della sua teoria della conoscenza.

Confrontandoci con i punti fondamentali del pensiero di Lequier, che introdurremo a beneficio del lettore, vedremo emergere una nozio-ne minimale e non escludente di natura umana, dalla quale conseguirà una comprensione non dissimile della legge naturale. Come auspichia-mo sarà chiaro alla fine di questo studio, la convenienza di questa nozione è direttamente conseguente dall’ontologia che la prepara: si tratta di un’ontologia della libertà, che riconosce nell’umano un’aper-tura strutun’aper-turale all’altro e, nella mancanza che segna ogni ente finito, lo spazio della libera prassi.

*Dottore Magistrale in Scienze Filosofiche, Università “Ca’ Foscari” di Venezia.

1Utilizziamo la locuzione “forma di vita” in un senso determinato, ovverosia riferen-doci alla persona intesa nel concreto delle pratiche in cui si articola la sua esistenza.

nano, rivela una caratteristica strutturale dell’umano che può, senza ti-more di smentita, essere pensata come “naturale”: la libertà. Diremo di più: menzionando questa caratteristica strutturale – menzionando cioè la libertà – non si è messo in luce un aspetto laterale della natura umana; se ne è piuttosto riconosciuto il cuore. Segnato l’approdo del nostro breve studio, conviene introdurre la figura di Jules Lequier, toc-cando quei punti del suo pensiero che sono più strettamente connessi al

filo del nostro discorso2.

J

ULES

L

EQUIER

:

LO SGUARDO E LA REALTÀ

L’interesse di Jules Lequier (29 gennaio 1814, Quentin - 11 febbraio 1862, Plèrin) per il tema della libertà umana iniziò ad emergere già nei primi anni della sua formazione, presso il piccolo seminario della città di St. Brieuc, sulla costa nord della Bretagna, dove Lequier si era avvicinato alle questioni di filosofia e teologia. I tormentati anni all’École

Polytechni-que di Parigi, che egli dovette trascorrere studiando per lo più

matemati-ca, fisica e chimimatemati-ca, non furono sufficienti a mutare la disposizione con-templativa e filosofica dell’animo del giovane Lequier che, grazie all’e-redità ricevuta dopo la morte di suo padre, nel 1837, si trasferì a Plermont, dedicandosi all’attività filosofica e all’insegnamento – ottenne infatti un insegnamento di lingua francese presso l’École Égyptienne. Dell’attività filosofica di Lequier, durata tutto l’arco della sua vita, è giunta sino a noi una edizione delle Opere Complete, curata da Jean Grenier nel 1952 per le Éditions de la Baconnière (Neuchâtel): si tratta di un insieme di testi che, per lo stile incalzante e febbrile della scrittura, per

l’assenza di una vera e propria redazione, risultano complessi3.

2Per una più approfondita presentazione di Lequier e delle questioni con cui si è con-frontato, cfr. P. PAGANI, Libertà e non-contraddizione in Jules Lequier, Franco Angeli, Milano 2000.

3Il solo scritto che Lequier abbia mai fatto circolare tra i suoi amici, ritenendolo compiuto sia dal punto di vista teoretico, sia da quello stilistico-formale, è La Feuille de charmille, che apre l’edizione delle opere lequieriane curata da Jean Grenier (si farà riferimento a questa raccolta con la sigla OC).

Quando ci si interroga circa la natura di una certa forma di vita, una via possibile passa per la ricognizione fenomenologica dei comportamen-ti caratteriscomportamen-tici di questa. La fenomenologia non è priva d’asperità, soprat-tutto quando il fenomeno a cui si rivolge è la natura umana: anzisoprat-tutto, l’investigatore non può astrarre da questa forma di vita e dai suoi com-portamenti al punto da fuoriuscirne. L’umanità è un fenomeno che pos-siamo indagare tanto più onestamente, quanto più pos-siamo disposti a rico-noscere di essere radicalmente inseriti in esso. Va detto che anche questa posizione, pur necessaria, non è innocua: in forza di essa potremmo esse-re tentati di sovrastimaesse-re il grado di normatività della nostra esperienza singolare, come se nessuna differenza la specificasse rispetto a quella del-l’umanità intesa in senso universale. Di più: si potrebbe essere tentati di riferire alla realtà, in tutte le sue deteminazioni, le leggi e i valori che pos-sono essere fatti valere per l’individuo singolare (che esso individuo fa valere per sé).

Mettersi in cerca della natura significa, dunque, mettersi in cerca di qualcosa di principiale, di fondamentale: qualcosa di cui non si possa fare a meno, anche nella più economica delle visioni della realtà, poiché que-sto qualcosa è implicato, come condizione di possibilità, da ogni tentativo di liberarsi di esso. La differenza tra il principio e la legge è che il primo vale di per sé e non in relazione al riconoscimento del suo valore da parte di questo o quel soggetto pensante; la seconda, invece, ha bisogno di

essere fatta valere in forza di qualcosa: la legge è unita al principio da un

legame di necessità, poiché la seconda sta al primo come sua condizione di senso. Lasciata a se stessa, la legge potrebbe esercitare un livello di obbligatorietà meramente contingente: chiunque potrebbe rispondere al comando della legge, semplicemente, “perché?” e la risposta, quanto meno deludente, sarebbe “perché è legge”. Sarebbe, in fondo, l’afferma-zione di certo giuspositivismo, non privo di rischi, in cui si obbedisce alla legge per il solo fatto che essa è stata promulgata, non perché la legge medesima viva del respiro di un principio che in essa si traduce (con tutti i limiti del caso). Senza un riferimento al principio, la legge non riesce a liberarsi dell’arbitrarietà che caratterizza la sua posizione.

Non è opportuno, a questo punto, rimandare l’esplicitazione del ful-cro del discorso: l’articolazione tra ciò che di principiale è nella realtà, le pratiche con cui siamo al mondo e le leggi con cui queste si

relazio-attraverso la pratica onesta del dubbio: una verità incontrovertibile, di cui non sia possibile dubitare onestamente, cioè senza finire in una posizione di palese autocontraddizione.

Per poter vivere nel mondo, la persona ha bisogno di una conoscen-za salda e inconcussa, in virtù della quale orientare la propria prassi, la propria esistenza: la messa in questione delle forme della realtà, dei suoi legami e delle sue determinazioni, è la prima mossa con cui la per-sona investe sulla propria esistenza.

D

UBBIO È LIBERTÀ

:

VERSO LA NATURA DELLA PERSONA

Com’è possibile mettersi, tuttavia, in cerca di una simile verità? Attraverso l’espediente letterario di un ricordo, Lequier riprende la linea platonico-aristotelica che riconosce l’inizio della filosofia nella

meraviglia7, nello thaumázein suscitato dall’incontro con il cangiante

spettacolo della realtà. Si tratta del momento in cui, per la prima volta, l’attenzione del bambino converge sulla realtà, su una qualsiasi delle sue determinazioni, e la novità del pensiero apre alla persona la dimen-sione dell’interiorità. L’episodio della foglia di carpine (che dà il titolo al primo capitolo dell’opera) vede un giovanissimo Lequier che, nel giardino di suo padre, colto da meraviglia mentre stava per cogliere una foglia – da un ramo di carpine, appunto – si sente «[…] le maître

absolu de cette action, tout insignifiante qu’elle était»8: sente di poter parimenti fare e non fare, di poter dare avvio, per mezzo della sua libe-ra azione, lui come sdoppiato, a due libe-ramificazioni opposte della realtà, «[…] auteur de quelque chose d’éternel, car quel que fût mon choix,

il serait désormais éternellement vrai qu’en ce point de la durée aurait eu lieu ce qu’il m’aurait plu de décider»9.

7Cfr. ARISTOTELE, Metafisica, A, 982b 10-15; PLATONE, Teeteto, 155d.

8«[…] il padrone assoluto di quell’azione, per quanto insignificante essa fosse» (OC, p.14).

9«[…] autore di qualcosa d’eterno, perché quale che fosse la mia scelta, sarebbe ormai eternamente vero che, in quel momento del tempo, sarebbe accaduto ciò che mi sarebbe piaciuto decidere» (ibidem).

È ad ogni modo innegabile, per chi legga attentamente le pagine di Lequier, l’intento teoretico fondamentale e unitario, su cui ciascun capitolo del suo ‘progetto filosofico’ insiste: l’affermazione della

liber-tà e della sua irriducibililiber-tà4. La domanda se la libertà sia alcunché di

reale o di illusorio sorge, a ben vedere, nel momento in cui la persona inizia a fare esperienza del mondo: all’incontro con le cose, fa seguito l’interrogazione a proposito di come esse stiano. È la pratica del dub-bio, della movenza del pensiero che, più di ogni altra, ne mostra la libertà strutturale. «Parvenir, ai-je dit, à une vérité qu’il me soit

impos-sible de révoquer en doute: il faut donc douter. Pour voir ce qui va rester inébranlable, il faut essayer de tout ébranler»5, scrive Lequier; ciò, per dire dell’esigenza di un dubbio radicale che sappia rispondere alla manifestatività dell’essere, indagandone la forma e vagliando la propria comprensione di quest’ultima.

Poiché la dubitatio è (come Lequier riconosce) una forma

spregiudi-cata di ricerca6, è opportuno esplicitare ciò di cui ci si mette in cerca,

4Così si spiega, per esempio, il medesimo grado d’interesse che Lequier mostra per que-stioni prettamente filosofiche, come quella della circolarità dell’autocoscienza, e per problemi spiccatamente teologici, come quello della prescienza divina; ciò tuttavia va riconosciuto senza fare di lui un “Kierkegaard bretone”, uno “Hegel mancato”, come pure non ha disdegnato di fare un discreto numero di interpreti, sulla scia del saggio

Il momento tragico della filosofia francese, con cui Augusto Del Noce introdusse

l’edizione da lui curata dei “frammenti” di Lequier (Zanichelli, Bologna 1968).

5«Giungere, ho detto, ad una verità che mi sia impossibile revocare in dubbio: dob-biamo dunque dubitare. Per vedere cosa resterà inconcusso, dobdob-biamo provare a scuotere tutto» (OC, p. 23. Traduzione italiana a cura nostra).

6Non a caso, La Feuille de charmille, si apre così: «En matière de métaphysique,

j’oserai mettre un enfant au-dessus même d’un bon et sage laboureur qui n’a rien lu. Quelles étonnantes questions! Que d’audace et de rectitude, que de simplicité et de profondeur dans sa manière de poser les problèmes! Quel empressement, quelle patience à écouter les réponses qu’on lui fait! Et souvent quel regret naïf de ne les pas comprendre!» – «In materia di metafisica, oserei anteporre un bambino persino

a un contadino buono e saggio, che non abbia letto nulla. Che domande sorprenden-ti! Quali audacia e rettitudine, quali semplicità e profondità, nella sua maniera di porre i problemi! Quale prontezza, quale pazienza nell’ascoltare le risposte che gli si danno! E, spesso, che ingenuo rimpianto di non capirle!» (OC, p.13).

essere13. Non siamo dinnanzi ad una presentazione esplicita della con-traddizione: siamo piuttosto nel luogo in cui il principio di non contrad-dizione e quello del terzo escluso si danno reciprocamente luce: il momento (a) è esattamente la bebaiotáte arché, che Lequier identifica puntualmente con il principio d’identità, in forza di cui ad ogni ente è concesso di essere coerentemente sé medesimo. Il principio d’identità è inteso da Lequier come l’espressione di una necessità metafisica incon-testabile, che rende possibile l’esser sé dell’essente e il discorso veridi-co su di esso: tutt’altro che veridi-costrizione deterministica, poiché, se veridi-così fosse, tutto il progetto filosofico del nostro autore verrebbe meno, ri-volto com’è all’affermazione della natura incontrovertibile della verità. Il momento (b) è una formulazione del principio del terzo escluso, altrove così espresso da Lequier: «deux proposition contradictoires,

l’une est vraie, l’autre est fausse»14.

Perché questa non sembri una divagazione, si tenga presente che ci si potrebbe coerentemente definire al principio di Scienza come al “principio di libero arbitrio”, poiché esso struttura la necessaria alter-nanza, sullo sfondo del trascendentale, tra i due contraddittori

compos-sibili15. Nell’esperienza della foglia di carpine a cui Lequier ricorre per

introdurre alla ricerca della verità prima, è all’opera esattamente questa oscillazione tra due possibilità contraddittorie: essa fa da impalcatura all’esperienza dubitativa. La libertà del soggetto che pratica la dubitatio, in fondo, è la più notevole implicazione pragmatica di quest’esperien-za. La necessità dell’oscillazione, cioè la necessità che la realtà non sia,

già in un certo momento T1, costretta ad essere in un determinato modo

in T2 (e così via), rappresenta una sospensione del piano della

possibi-lità, in cui si situa la compossibilità dei termini dell’antiphasis16.

13Ivi. Per la traduzione del francese à la fois, seguiamo l’indicazione di Pagani

poi-ché, con lui, non riteniamo opportuno introdurre l’elemento temporale come con-naturato al principio di non contraddizione.

14Ibi.

15ARISTOTELE, Metafisica IX, 1051 a 11-13.

16Cfr. ARISTOTELE, Metafisica V, 1018° 20-22.

Da quest’esperienza pare emergere una percezione contraddittoria: una persona sarebbe in grado, nel medesimo tempo, di due azioni con-trarie nel medesimo rispetto, ad esempio di voltare (α) e non voltare (¬α) il capo verso la persona che ci chiama; sarebbe in grado di fare α nello stesso istante in cui sta facendo ¬α. Se così fosse, si dovrebbe dire che Lequier sta qui dicendo di avere esperito l’instanziazione reale della contraddizione, di avere cioè esperito ciò che nell’esperienza, massima-mente, non consta. Sembra ovvio riconoscere che, effettivamassima-mente, non è di questo che Lequier sta qui parlando, eppure non sono mancate inter-pretazioni in tal senso (che hanno avuto gioco facile sul dettato troppo spesso sincopato di Lequier). Tra queste, merita di essere ricordata alme-no quella offerta da Emanuele Severialme-no, poiché la sua discussione – per quanto breve –, ci permetterà di procedere al prossimo punto del nostro studio, alla posizione del rapporto tra natura e libertà.

Lo scritto in cui Severino chiama in causa direttamente il nostro

autore è Studi di filosofia della prassi10e il dettato severiniano crede di

rintracciare la contraddittorietà del discorso di Lequier in ciò che questi

chiama «le principe de Science»11: è la figura attorno a cui si riunisce

l’implesso delle verità originarie, i principi ontologici che strutturano tanto l’essere, quanto il pensiero considerati nella reciproca

trasparenza12. Il “principio di Scienza” inteso nella sua concreta realtà,

si articola in due momenti: (a) una medesima cosa non può insieme essere e non essere; (b) una medesima cosa può insieme essere e non

10Cfr. E. SEVERINO, Studi di filosofia della prassi, Adelphi, Milano 1984, pp. 237-238.

11Cfr. OC, p. 382. Per una rassegna completa delle formulazioni a cui Lequier ricorre per indicare l’implesso di verità principiali, cfr. PAGANI, op. cit., pp. 27 e ss.

12È lo stesso Lequier ad affermare (nonostante alcuni strascichi di dualismo gnoseo-logico siano rintracciabili anche nel suo discorso): «autre portée du principe de

contradiction: le lois de l’existence sont reflétes par les lois de la pensée» – «altro

portato del principio di contraddizione: le leggi dell’esistenze sono riflesse dalle leggi del pensiero» (OC, p. 347). Si sta qui chiaramente facendo riferimento a “principi” più che a “leggi”: queste dovrebbero altrimenti essere giustificate in forza di qualcosa di più originario.

della sospensione circa la verità dei termini che il dubbio pone in rela-zione, in maniera tale che il pensiero si scopra non necessitato per l’uno o per l’altro dei tue termini contraddittori: libertà è anzitutto libertà di conoscere, com’è testimoniato dalla centralità dell’ignoranza, che è occasione di conoscenza – e non sua limitazione strutturale.

Quanto detto sin qui, mostra che la critica di Severino – che come si è visto parte dall’interpretazione secondo la quale Lequier, nei passi appena citati, affermerebbe la coesistenza dei contraddittori in potenza e tale coesistenza come condizione della libertà – si rivela totalmente inconsistente: se avesse ragione Severino, infatti, la libertà, pensata come la manifestazione concreta dell’implesso di verità originarie, sarebbe un incondizionato-condizionato e non sarebbe, dunque, auten-ticamente primo, perché finirebbe col dipendere da ciò di cui è causa.

L’oscillazione formalistica tra le due alternative, che in virtù del PTE dice la compossibilità dei contraddittori, è la sintassi che struttura l’esperienza dubitativa. Dubitare è assumere come compossibili i due termini contraddittori e, affinché ciò sia possibile, è necessario che vi sia un soggetto libero: la libertà – giova ricordarlo – è pragmaticamente implicata dal dubbio, poiché di esso è condizione. Chi vede a questo punto contraddittorietà, inverte l’ordine delle considerazioni di Lequier, che intende tentare l’incontrovertibilità della libertà, procedendo dal dubbio (pratica più prossima al soggetto pensante) verso i principi che la strutturano e la rendono possibile: principi che restano primi quanto all’ordine della ragion sussistente.

La contraddittorietà della compossibilità dei due contraddittori è un punto cruciale, nell’economia del discorso di Lequier e del nostro, che col suo si interseca: essa non può essere pensata – come invece fa

Severino18 – come immediatamente autocontraddittoria, in quanto,

dalla posizione della possibilità di α, deriverebbe (se così fosse) la sua impossibilità; α risulterebbe possibile e non-possibile, sotto il medesi-mo rispetto e nel medesimedesi-mo tempo, in aperta violazione del principio

18Cfr. ibidem. L’inconsistenza della critica severiniana a Lequier porta con sé l’inconsistenza della critica severiniana al libero arbitrio tout court, poiché essa si fonda proprio su quanto Severino imputa al filosofo bretone.

L’oscillazione non dice alcunché a proposito della realizzazione di uno dei due corni rispetto all’altro, se non che, precisamente, la realiz-zazione dell’uno implica il necessario rimanere in potenza dell’altro. Anche qui si tratta di una necessità metafisica, propria della trascen-dentalità dell’essere e del pensiero, che non ha in sé alcun elemento deterministico e, anzi, salvaguarda la libertà umana:

Le principe de contradiction est: une chose est ou n’est pas… “Ou” marque ignorance. Et pour qu’on soit conduit à énoncer ce principe, il faut partir de l’idée sous-entendue d’une erreur possible qui, étant faite, serait recrifiée par ce principe – le disjonctif, l’hypothétique. Ainsi c’est la notion du possible, laquelle contient l’alternative: ou, qui donne lieu à l’emploi du mot ou dans le sens de l’ignorance. L’ignorance, le fai que quelqu’un ignore, établit que quelqu’un est libre17.

L’equidistanza che separa la persona da ciascuno dei due determinati contraddittori tra cui si struttura l’antifasi – cioè l’equidistanza dal fare o dal non fare una medesima azione, in uno stesso tempo, sotto il medesi-mo rispetto – è l’impronta della libertà umana: la disgiunzione “o”, amministrando l’oscillazione, dice che la persona non è predeterminata ad uno dei due rami alternativi. La libertà viene qui svelata come condi-zione di possibilità del riconoscimento dei principi primi, da parte della persona: essa risulta prima nell’ordo inventionis che porta alla riflessio-ne del pensante sui primi principi, non essendo comunque mai pensata come superiore o ulteriore rispetto alla principialità. Essa risulta non posta immediatamente (e dunque ingenuamente) ma, piuttosto, ricono-sciuta come implicazione pragmatica dell’esperienza dubitativa, cioè

17«Il principio di contraddizione è: una cosa è o non è… o indica ignoranza. E perché si sia condotti a enunciare questo principio, bisogna partire dall’idea sottintesa di un errore possibile che, una volta commesso, sarebbe rettificato da questo principio – il disgiuntivo, l’ipotetico. Così è la nozione del possibile, la quale contiene l’alternativa:

o, a dar luogo all’impiego della parola o nel senso dell’ignoranza. L’ignoranza, il fatto

conformazione si dubita→c’è una verità che è riferimento delle mie

cre-denze, delle quali dubito; (b) l’esperienza del dubbio è costruita in aut

non si può semplicemente scappare tra i corni dell’alternativa; c) c’è il

pensante, in tanto in quanto il dubbio è la radicale mossa del pensiero→

il pensante è libero, poiché sta dinnanzi all’oscillazione tra α e ¬α senza

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