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Capitolo 2. La sindrome disprassica

2.1 La disprassia verbale evolutiva

La disprassia verbale evolutiva (DVE) è un disturbo che compromette la programmazione e la produzione dei movimenti oro-linguo-facciali deputati alla produzione del linguaggio.

La definizione di tale deficit è stata oggetto di controversia fino al 2007, anno in cui l’American

Speech Language and Hearing Association (ASHA) pubblica il Technical Report on Childhood Apraxia of Speech. Prima di questa pubblicazione esistevano circa cinquanta definizioni differenti di

DVE (Chilosi, Lorenzini, Cerri, e Cipriani 2014). L’ASHA descrive il disturbo come disordine congenito dell’articolazione dei suoni in cui precisione e coerenza dei movimenti preposti alla produzione linguistica risultano compromesse in assenza di deficit neurologici, sensoriali, di gravi anomalie strutturali a carico dell’apparato bucco-fonatorio e di disturbi relazionali primari. L’ultima edizione del DSM (Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders, DSM-V, APA 2013) inserisce la DVE all’interno degli Speech Sound Disorders, ovvero i disturbi che riguardano la competenza fonologica e l’abilità di coordinare i movimenti degli organi articolatori.

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La patologia costituisce un quadro clinico molto complesso. Secondo l’ASHA, la sua incidenza è da 1 a 2 bambini su 1000 (0.1%–0.2%; Shriberg, Aram, e Kwiatkowski 1997), sebbene le stime di incidenza non siano sempre affidabili, poiché le linee guida per la diagnosi della patologia non sono sempre coerenti (ASHA 2007; Shriberg et al. 1997).

Anche dal punto di vista eziologico è difficile tracciare un quadro preciso del disturbo. Come indicato in Chilosi et al. (2015), la DVE può essere sintomatica, criptogenetica o idiopatica (ovvero, avere origini sconosciute ed apparentemente spontanee). La DVE sintomatica o criptogenetica può essere un disturbo associato a patologie neurologiche di natura metabolica (si veda Shriberg, Potter, e Strand (2011) per uno studio su bambini con DVE e galattosemia; Battini et al. (2007) per lo studio di un paziente con deficit del trasportatore della creatina (CTD)), di natura epilettica o genetica (ad esempio, in bambini con sindrome di Down). Quando la DVE è idiopatica, questa può essere l’unico sintomo presente in bambini che non presentano altre patologie e la cui origine rimane sconosciuta.

Studi condotti su una famiglia (la famiglia KE, Lai, Fisher, Hurst, Vargha-Khadem e Monaco 2001) in cui quasi la metà dei membri era affetta da disprassia oro-facciale e verbale, hanno identificato una mutazione del gene FOXP2, nel cromosoma 7q3 (Hurst, Baraitser, Auger, Graham, e Norell 1990). In altri studi, però, queste alterazioni sono state riscontrate in percentuale bassa (MacDermot et al. 2005, e Laffin et al. 2012).5

Chilosi et al. (2008) osservano che raramente la DVE si presenta in bambini che possiedono delle lesioni congenite all’emisfero sinistro; questo si discosta dall’aprassia acquisita in soggetti adulti, che è, invece, generalmente dovuta a lesioni locali dell’emisfero sinistro.

Sabbadini e Iurato (2009) affermano che i vari disturbi disprassici sembrano essere generalmente collegati a nascite premature, immature e sottopeso, oppure a traumi subiti durante la gravidanza o il parto (ad esempio, anossie prenatali). Studi di Risonanza Magnetica funzionale, inoltre, hanno permesso di osservare che nei soggetti disprassici è presente un assottigliamento del corpo calloso, accompagnato da una riduzione della sostanza bianca ed un ampliamento dei ventricoli.

Per quanto riguarda le caratteristiche del linguaggio dei soggetti affetti da DVE, è possibile osservare che molti dei tratti più comuni della DVE sono simili a quelli riscontrati in altri disturbi che coinvolgono il linguaggio verbale (McCabe et al. 1998) ed includono: uno sviluppo lento del linguaggio, un inventario fonologico e/o fonetico ridotto, frequenti errori in produzione ed

5 Altri studi che hanno riportato delle anormalità cromosomiche sono Thevenon et al. (2013); Fedorenko et al. (2015);

Raca et al. (2013); Peter, Matsushita, Oda, e Raskind (2014); Worthey et al. (2013). Per una rassegna sulle possibili cause e comorbidità dell’aprassia negli adulti e della disprassia evolutiva nei bambini si veda Liegeois e Morgan (2012).

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inintelligibilità. Tre caratteristiche, invece, sembrano essere più specifiche del disturbo disprassico secondo i criteri del Technical Report on Childhood Apraxia of Speech (ASHA 2007):

a) Incoerenza fonologica (o phonological inconsistency), ovvero gli errori prodotti per un determinato target sono diversi di volta in volta, senza una precisa ricorrenza o regola apparente. Questo è vero sia per fonemi vocalici che consonantici. Inoltre, gli errori prodotti non sono giustificabili da un tentativo di avvicinamento progressivo all’enunciato target;

b) Il soggetto disprassico trova difficoltoso mettere in sequenza i suoni linguistici, combinare i movimenti da fonema a fonema o da sillaba a sillaba (la cosiddetta coarticolazione è, dunque, deficitaria);

c) Disprosodia. Vi è un’alterazione dei caratteri prosodici del parlato dal punto di vista di velocità, intonazione e ritmo. I tratti soprasegmentali del parlato sono prodotti con incoerenza, poiché il soggetto non riesce a garantire le stesse durate di sillabe e fonemi. Il ritmo altera la produzione di sillabe forti e deboli, o l’assegnazione dell’accento nella parola o all’interno dell’enunciato nel suo insieme. Le sillabe deboli tendono ad essere omesse e la velocità generale è ridotta, così come la fluenza.

Altre caratteristiche del deficit includono (Chilosi et al. 2014; Davis et al. 1998; McCabe et al. 1998; Shriberg et al. 1997):

• Inventario vocalico ridotto e maggiori errori con fonemi vocalici. Questa caratteristica indica che il processo di acquisizione linguistica è stato severamente intaccato, poiché le vocali sono tipicamente apprese in modo stabile in età molto precoce (Ball e Gibbon 2013). Possono essere, talvolta, presenti dei fonemi che non appartengono alla lingua target;

• Correlazione positiva tra quantità di errori e lunghezza e complessità delle parole o sillabe. Gli errori sono in prevalenza omissioni, soprattutto in posizione iniziale di parola, con una tendenza ad omogeneizzare le produzioni verso una struttura bisillabica (ad esempio, pronunciare bìno, per bambino);

• Difficoltà nel cercare e trovare la corretta posizione di lingua e labbra nel tentativo di produrre le combinazioni di suoni target (caratteristica definita con il termine inglese groping, traducibile letteralmente con “andare a tentoni”);

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• Regressione frequente o persistente, ovvero il soggetto tende a perdere parole o suoni precedentemente padroneggiati;

• Dissociazione automatico-volontaria. Come precedentemente introdotto, il soggetto disprassico può produrre espressioni di pari difficoltà articolatoria correttamente in situazioni di routine (ad esempio “ciao” o “pipì”), ma non riuscire a produrle in maniera intenzionale o su richiesta esplicita;

• Infine, vi è una forte asimmetria tra produzione e comprensione, poiché la produzione è maggiormente compromessa;

Tutte queste caratteristiche fanno sì che le produzioni linguistiche del soggetto con DVE siano poco intelligibili; in generale, si può riassumere con le parole di Velleman (2011, p. 82) che l’eloquio del soggetto disprassico sembra essere prodotto con molta fatica, come se fosse dominato da “uno sforzo, una lotta”.

Anche altre abilità oro-motorie che si discostano dalla produzione di linguaggio sono spesso compromesse, come soffiare, operare movimenti con la punta della lingua o gonfiare le guance. Inoltre, risulta spesso compromesso l’apprendimento della letto-scrittura (Lewis et al. 2004).

In letteratura si osserva che per i soggetti con DVE anche la comunicazione gestuale può essere deficitaria a causa di una possibile associazione con una disprassia degli arti, ed anche la produzione di gesti come il pointing può, dunque, risultare grossolana ed approssimativa e le abilità manuali generali molto ridotte (ASHA 2007).