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LA FAMIGLIA NELLA CONCEZIONE AUREVILLIANA

Istituzione fondamentale di ogni civiltà, la famiglia costituisce da tempi immemori l’unità base su cui si fonda la sacralità della società, il suo primo mattone costitutivo. Appare chiaro ed evidente, che la suddetta sacralità dell’ambito famigliare derivi strettamente dal fatto che la famiglia, vocazione naturale dell’essere sociale, è sempre stata e continua tuttora ad esserlo, il luogo certo della riproduzione umana, della perpetuazione del genere, dell’educazione delle nuove generazioni. Proprio grazie alla sua importanza indiscussa all’interno della società, la famiglia non poteva che non essere, sin dal passato, oggetto di attenzione e riguardo da parte della Letteratura.

Basti pensare alla nascita del cosiddetto Romanzo Familiare, tanto caro alla letteratura del primo Novecento, e di conseguenza, al grande lavoro portato avanti da Sigmund Freud nell’ambito dell’analisi psicologica del nucleo famigliare.

La letteratura è senza dubbio riuscita a trovare nella famiglia un perfetto punto di vista per poter raccontare la vita, l’ha eletta quale microcosmo perfetto e parallelo, completamente sovrapponibile al macrocosmo di quella società della quale costituisce la base. La famiglia diventa così, attraverso le pagine degli autori, specchio dei cambiamenti, lenti ma profondi, e dell’evoluzione dell’essere sociale. È proprio a causa di questi meccanismi che la narrativa europea è piena di famiglia. Molti autori hanno l’hanno considerata e individuata come luogo naturale della loro espressione letteraria, facendone un assoluto imprescindibile e irrinunciabile.

Basti pensare a Zola e al suo ciclo dei Rougon-Macquart, attraverso il quale non solo possiamo ricostruire un quadro perfetto della famiglia del suo secolo, ma ci consente anche di portare avanti una ricostruzione quasi scientifica della società borghese del suo tempo, smascherandone le ipocrisie e le bassezze. Così come Zola, anche Turgenev riesce, attraverso le pagine di Padri e Figli, a rappresentare uno spaccato famigliare del suo tempo, delineando perfettamente il contrasto fra generazioni. Impossibile non ricordare, in questo contesto, Giovanni Verga, e I Malavoglia. Nella letteratura verista, il Verga rappresentò la famiglia come mero mezzo di sostentamento, la quale ha ragione di esistere più per il mantenimento della sopravvivenza che per slancio affettivo. Ossia, per Verga ciò che vale è il celebre ideale dell'ostrica, secondo il quale finché si sta uniti dove ci ha posti il destino, senza cercare grossi cambiamenti, c'è possibilità di sopravvivere.

L’opera aurevilliana conosce una concezione di famiglia piuttosto complessa e problematica, facilmente riconducibile all’esperienza personale e privata dell’autore nei confronti della sua stessa famiglia. Jules-Amédée Barbey d’Aurevilly nasce il 2 Novembre del 1808 a Saint-Sauveur-le Vicomte, dove trascorre la sua infanzia severa in una famiglia sconvolta dalla Rivoluzione e di stampo fortemente giansenista. Eviterà sempre e fin da subito i rapporti con la famiglia, della quale rifiuterà categoricamente i principi, fino all’anno 1856, quando si riconcilia con gli anziani genitori, probabilmente forte della conversione improvvisa che lo rilega a quei principi giansenisti tanto cari alla sua educazione infantile.

Nel suo studio sulla genesi dell’opera aurevilliana, Philippe Berthier sottolinea giustamente che durante il suo cruciale soggiorno in Normandia, alla fine del 1836, l’autore ha avuto l’occasione di riunire le sensazioni che gli servirono di fatto a sentire nuovamente la realtà profonda della sua infanzia, caratterizzata da interminabili messe di sei ore, durante le quali « le jour blanchissait peu à peu les vitraux de l’église 98» e che fornirono la base per la svolta interiore dell’autore.

Questa riflessione, seppur in prima istanza possa apparire banale, merita un’analisi attenta, perché permette di afferrare a colpo sicuro le reminiscenze personali dell’autore all’interno della sua opera. In questo contesto, l’opera di d’Aurevilly si scontra immediatamente con un primo problema, ossia, come sostiene ancora Philippe Berthier, la question du père99.

Questa “Questione del Padre” si riscontra nella maggior parte dei romanzi aurevilliani, e su diversi livelli, come nucleo fondamentale della psicologia del romanzo.

Ma oltre a essere una questione intesa come caso che costituisce un problema, è anche questione intesa più precisamente come domanda, come interrogazione topica della figura del Padre a quella del Figlio, quella antica già elaborata da Gargantua e posta a Pantagruel, ossia: il figlio sarà inevitabilmente specchio dei comportamenti e degli insegnamenti del padre? Il sangue che scorre nelle vene del padre e del figlio li costringe in un legame indissolubile? Il figlio deve essere all’altezza del padre?

Tutte queste sono domande che persino oggi non riescono a trovare delle risposte univoche e assolute. Allo stesso modo, d’Aurevilly, profondamente segnato dalla sua esperienza di figlio, non riesce a trovare delle risposte equilibrate a queste domande.

Riprendendo il parallelo con la tragedia classica greca, mi sembra appropriato sostenere che le famiglie protagoniste dei romanzi di Barbey d’Aurevilly, sono famiglie di Atridi: famiglie composte da assassini, vendicatori, boia, i quali però sono comunque sempre visti attraverso gli occhi di un

                                                                                                                         

98 Ph. Berthier, Barbey d’Aurevilly et l’imagination, Genève, Droz, 1978, p. 93.

visionario cristiano. Più di ogni scrittore del suo secolo, d’Aurevilly sente che ci sono delle forti pulsioni nel brulicante limbo nell'animo umano.

Non osa indagare questi argomenti senza consapevolezza, e se le storie che ci propone accendono con stupore la psicologia più recente, persiste in lui la rassegnazione di non poter mai raggiungere quella conoscenza tanto agognata: l'abisso del Male.

In tutta l’opera aurevilliana non esiste nessun esempio di famiglia felice, intesa come un nucleo affettivo equilibrato e che si fondi sull’amore reciproco.

Non esiste cioè nessuna rappresentazione dell’ immaginario e perfetto triangolo famigliare formato da padre-madre-figlio, in cui i tre elementi riescano mai a trovarsi in una situazione paritaria, in cui ognuno ricopre il ruolo tradizionale assegnatogli dalla società. Più nello specifico, ci troviamo generalmente davanti a padri e madri mancanti della maggior parte delle loro caratteristiche basilari di ruolo genitoriale, mancanze che spesso spaziano nell’insieme dei valori famigliari. Siamo davanti a padri lontani, negligenti, svalutati, ma soprattutto, come nel caso che ci riguarda più da vicino in Une histoire sans nom, ci troviamo davanti a padri assenti perché morti. Berthier sostiene d’altronde che proprio in Une histoire sans nom viene maggiormente affrontato il problema della paternità assente, tanto da affermare: «Le nom qui manque, ici, c’est bien, le Nom-du-Père100».

L’assenza del padre di Lasthénie è sicuramente alla base del problematico rapporto madre-figlia esistente tra Mme de Ferjol e Lasthénie. Il lettore ne comprende immediatamente l’importanza, quando d’Aurevilly, nel fornire una descrizione psicologica del personaggio della severa Mme de Ferjol dice: « Elle aimait [Lasthénie] encore plus parce qu’elle était la fille de son mari que parce qu’elle était la sienne101».

Lasthénie, quindi, altro non è che il simulacro di questo padre mai conosciuto, rappresentazione carnale della sua esistenza ormai svanita, la fanciulla diventa oggetto di devozione e attenzione da parte della madre solo perché rappresenta l’incarnazione vivente dell’essenza del padre, una materializzazione altra di quell’uomo scomparso, una perfetta allucinazione della paternità assente. Non c’è manifestazione d’amore materno in Mme de Ferjol, quello slancio di ossessione che la donna ha nei confronti della figlia non è certamente dettato da un istinto di protezione.    

Questa madre vedova, che ha fatto di sua figlia una oggetto a sua immagine e somiglianza, ovviamente, non può concepire che la propria figlia concepisca, a sua volta, senza un padre. Essa, pertanto, non crede nella sua innocenza e scaglia tutto il suo odio omicida contro sua figlia, contro il

                                                                                                                          100 Ibidem, p.15.

bambino e contro lo sconosciuto padre. La devotissima signora de Ferjol stermina questa sacra famiglia perversa pur di non vederla.

In questa prospettiva, Wanda Bannour ha commentato:

Barbey se plaît à dresser, dans un dramatique face-à-face, une mère et sa fille, femmes affectées de polarités différentes et souvent opposées. Le père ou l'amant, le géniteur, est expulsé de la relation: c'est un absent, un fantôme que l'on n'évoque que pour souligner l'amour passionné qu'il inspira à son épouse et dont le souvenir ardent continue à habiter et à tourmenter l'amante esseulée. Ces personnages de mère et de fille, si on se réfère à la typologie féminine chère à Barbey, correspondent à des organisations différentes sinon antagonistes.102

Ma quello di Lasthénie non è il solo padre mancante, a ben pensare, anche il figlio che la fanciulla porta in grembo ha un padre assente, quel conosciuto e sconosciuto Riculfo del quale, appunto, non si può pronunciare il nome.

Tuttavia, gli uomini-padri di Une histoire sans nom sicuramente ben riescono nell’azione primaria che li decreta allo stesso tempo sia uomini sia padri, ossia la fecondazione. Essi riescono nel loro ruolo di genitore inteso come appunto generatore di vita, ma sono completamente fallimentari nella loro veste di padri intesi come educatori. Però, proprio l’impossibilità di ricoprire il ruolo di educatori si riflette anche sul quel concepimento così ben riuscito: non possiamo dire che Lasthénie sia una persona (prima che personaggio) indipendente, o che abbia un ruolo attivo all’interno della storia. Se si presuppone che dall’unione di un uomo e una donna si generi un individuo autonomo, non siamo sicuramente davanti al caso di Lasthénie, succube perenne della madre e di Riculfo in ogni episodio della sua vita: la quotidianità, la gravidanza, il parto...

Allo stesso modo, il bambino che Lasthénie porta in grembo, figlio di Riculfo, non vedrà mai la luce, già morto ben prima del parto, è a tutti gli effetti una non-nascita. Paradossalmente ci troviamo difronte due paternità completamente sterili.

A proposito del figlio di Lasthénie, nato morto, Jacques Chabot sostiene:

L'enfant mort-né, anonyme par définition (et surtout qui ne parlera jamais) n'a pas d'histoire et le roman qui nous raconte cela, lui aussi, du même coup, devient l'histoire d'une non-histoire. « Une histoire sans nom », en effet, n'est pas un roman sans titre, c'est une histoire qui n'existe pas. C'est bien le cas de dire, ici, que le sujet de l'histoire est « un je ne sais quoi qui n'a de nom dans aucune langue »: un cadavre conçu on ne sait comment par un autre cadavre.103

                                                                                                                         

102 W. Bannour, Une Histoire sans nom, “Annales de Normandie”, 34e année n°3, 1984, p. 222-223. 103 J. Chabot, L'oeuvre-limbes, ou l'enfant mort chez Barbey d'Aurevilly, “Littérature”, n°75, 1989, p. 57-71.

Padre Riculfo inoltre, è investito di una paternità spirituale, ma la spiritualità non è la sola cosa che lo caratterizza. Si insinua in una casa senza uomini, si introduce con l’autorità del suo sesso e agisce con l’istinto primordiale mascolino, con un mero accoppiamento animalesco.

Il terribile senso di disagio provato da Lasthénie durante la permanenza in casa sua del frate è resa da d’Aurevilly con una metafora di chiaro richiamo sessuale: «la présence de l’homme qui lui [Lasthénie] faisait […] l’effet d’un fusil chargé dans un coin. Le fusil n’y était plus104»

L’immagine del fucile è senza dubbio esplicita, chiaro simbolo fallico, altro non è che la rappresentazione della presenza sessuale di Riculfo che fa bruscamente irruzione nella vita di Lasthénie.

Sostanzialmente siamo davanti a una storia che si ripete: così come M. de Ferjol muore dopo aver concepito Lasthénie, lasciando Mme de Ferjol sola nella sua condizione di madre e non più moglie ma vedova, allo stesso modo Riculfo sottrae a Lasthénie la sua verginità e scomparendo subito dopo. Altro non è che una vera e propria emulazione nei confronti del padre della fanciulla che ha violentato, e che, a sua volta lo sta rendendo padre anche se inconsapevolmente. Questa sovrapposizione di paternità trova il suo simbolo perfetto nell’anello che Riculfo sottrae a Lasthénie immediatamente dopo la violenza sessuale. Quello dell’anello non è un furto banale, non è un anello come tanti: appartenente a M. de Ferjol, la fanciulla lo porta come unico ricordo di quel padre mai conosciuto, è l’unica rappresentazione fisica di quella paternità deviata e Riculfo lo prende come si afferra il testimone durante una staffetta, altro non è che un passaggio stabilito tra due padri inutili. E tanto è inutile la paternità di Riculfo che, nel finale del romanzo, scopriremo che a distanza di tempo, il religioso ha subito l’amputazione della mano che indossava l’anello di Lasthénie. A questo punto, più che a un’amputazione, siamo davanti a una vera e propria castrazione simbolica, se è vero che l’anello di M. de Ferjol ha il compito di rappresentare la virilità paterna.

La paternità dunque è vista come un sistema déceptif e défectif, ingannevole e difettoso allo stesso tempo, la vicenda si svolge come se l’assenza del padre fosse necessaria allo sviluppo stesso della storia.

Ma l’assenza in questa Histoire sans nom riesce sorprendentemente a trasformarsi in presenza. Infatti il deceduto padre di Lasthénie è sicuramente sempre presente nei pensieri di Mme de Ferjol, è il motore che ha innescato la sua intera esistenza fin dalla giovinezza, è l’uomo che l’ha resa moglie e madre, anzi, più moglie che madre, è colui che ha avuto il potere di darle una collocazione all’interno della società. La passione di Mme de Ferjol per suo marito è estrema, al punto di

                                                                                                                         

sconfinare nel sacrilego. In tal proposito, Jacques Chabot ha condotto un’analisi precisa della figura del padre di Lasthénie, tracciando una linea che ovviamente lo lega contemporaneamente sia a sua moglie che a sua figlia:

Elle est donc devenue veuve très jeune — le mari n'a pas survécu ; juste le temps de lui faire une fille qui lui ressemble, à lui, à moins que ce ne soit lui qui ressemble à elle. Lui « très beau (...) dans son uniforme blanc, à collet et à parement bleu céleste. Blond d'ailleurs, et les femmes prétendent que le bleu est le fard des blonds» Bleu, blanc, blond : un peu fade, non ? Très enfant de Marie, en tout cas, pour un beau militaire. Elle lui ressemble : « C'était, de cheveux, une blonde comme son père, l'idéal baron qui mettait parfois de la poudre rose dans les siens — une fantaisie efféminée de ce temps (...). Bleu, blanc, blond, rose : l'idéal baron, père trop tôt ravi à l'affection de sa fille, est vraiment le père idéal. Quant à Lasthénie (le portrait du père explique quand même un peu son manque de vigueur) l'image qu'en donne Barbey est celle d'une jolie poupée de porcelaine ; de plus elle a le charme langoureux d'une boiteuse qui ne boîte pas : « elle avait l'air de boîter ». Donc sa boîterie est toute idéale, comme son baron de père... 105 Lasthénie quindi eredita quella debolezza, quel pallore, quei colori così eterei che la caratterizzano, eredità di un padre un po’ troppo poco virile al quale assomiglia moltissimo: «  Elle respirait, enfin, dans tout son être, cette faiblesse divine devant laquelle les hommes forts et généreux — et plus ils sont mâles ! — s'agenouilleront toujours.106 » Questo è il momento scelto da Barbey d’Aurevilly per incatenare Lasthénie al padre agli occhi di Mme de Ferjol, insistendo sull’andamento zoppicante che caratterizza la fanciulla, céleste boiteuse e che caratterizzava anche suo padre. Ed ecco che con una sola frase, l’autore delinea perfettamente il tipo di rapporto che intercorre tra madre e figlia: «  Elle aimait sa mère, mais elle la craignait. Elle l'aimait comme certains dévots aiment Dieu, avec tremblement. 107 » Questo Dio che spezza la schiena ai suoi figli per punirli è un Dio costruito a immagine e somiglianza di questa madre temibile.

Siamo quindi in mancanza di un padre terreno e di conseguenza il Dio-Padre (o Dio-Madre, in questo caso) gli si sostituisce, vincendo indiscutibilmente.

Stesso discorso vale per Riculfo, assente ma costantemente presente nella vita delle due donne, riesce a essere un fantasma quando è loro ospite, e riesce a far sentire la sua costante presenza durante la tremenda gestazione di Lasthénie. Riculfo occupa, seppur per brevissimo tempo, il ruolo maschile che manca nella famiglia de Ferjol, ovviamente però, la sua condizione monastica non gli consente di adempiere a questo compito, la sua prerogativa spirituale lo limita nell’osservazione del ruolo carnale. A proposito di Riculfo, Chabot sostiene:

                                                                                                                         

105 J.Chabot, L'oeuvre-limbes, ou l'enfant mort chez Barbey d'Aurevilly, cit., p. 60. 106 Barbey d’Aurevilly, Una storia senza nome, cit. p. 70.

Riculf est un revenant ; ces gens-là n'ont pas de sexe, comme les anges (les bons) ; ou, pervertis, les ont tous. Venu on ne sait d'où, retourné on ne sait où (sauf à la fin où nous le retrouvons, vampire percé à jour par la baronne, pourrissant au tombeau) il est l'inconnu qui passe. C'est un « mystère », nous dit Barbey, et « Un mystère c'est la plus profonde chose qu'il y ait pour l'imagination humaine»; et il ajoute ce cri du coeur : « Ah ! ne vous laissez jamais connaître entièrement vous qui voulez être toujours aimés de celles qui vous aiment, que même dans vos baisers et dans vos caresses il y ait encore un secret ». C'est la définition même de « l'amour » aurevillien: hermétique.108

L’opera di d’Aurevilly ha senza dubbio costruito con convinzione un forte e inaspettato tema della Paternità, basato sulla pericolosità dei sentimenti d’affetto, non sulla necessità di essi. I motori nichilistici del romanzo partono tutti da queste paternità deviate e pericolose, generatrici non d’amore ma di dolore, come se , appunto, esse non possano fare altro che generare morte attraverso un insospettabile amore. In questa visione mistificata della famiglia aurevilliana non dobbiamo dimenticare un fattore fondamentale che non poté non influenzare la psicologia dell’autore.

La Rivoluzione Francese del 1789 è l’evento di radicale cambiamento, di sconvolgimento sociale, spartiacque simbolico tra l’età moderna e l’età contemporanea. Il fiume di sangue e terrore che provocò la rivoluzione segnò inevitabilmente la cultura letteraria, e non solo, della Francia e dei suoi figli. Come sostiene Anna Maria Scaiola: «In letteratura questo avvenimento estremo si presterà ad essere allusione, sfondo, scenario, racconto, tema e soggetto di creazione.109»

Non esiste autore francese che da questo momento in poi non senta l’influenza di questo momento storico, del sangue versato, della miseria.

Da Victor Hugo, a Chateaubriand, a George Sand, nessuno può ignorare il 1789, esso diventa spunto primario, spesso, vero e proprio protagonista delle pagine della letteratura moderna.

Se volessimo analizzare la Rivoluzione Francese da un punto di vista prettamente simbolico, per capire, psicologicamente parlando, come essa influenzò la vita non solo degli autori ma più semplicemente di tutti i francesi, dovremmo concentrarci sull’avvenimento chiave che sconvolse l’Europa intera. Il 21 Gennaio del 1793 Re Luigi XVI viene ghigliottinato nell’attuale Place de la Concorde. Quello che potrebbe sembrare un mero episodio di esecuzione, come la Storia ne aveva già ampiamente conosciuti un precedenza, genera un vero e proprio complesso Edipico. Il Re è morto, un Re assoluto, un Re Dio, un Re Padre del Popolo, perché di fatto, questo era Luigi XVI per i francesi, e i francesi in rivolta hanno ucciso il loro Re Padre. Siamo sostanzialmente difronte al parricidio più illustre che la Storia abbia conosciuto: un Re ucciso dai suoi sudditi equivale a un

                                                                                                                         

108 J.Chabot, L'oeuvre-limbes, ou l'enfant mort chez Barbey d'Aurevilly, cit., p. 64. 109 A. Scaiola, Il Romanzo francese dell’Ottocento, cit., p. 3.  

padre ucciso dai suoi figli. Il mondo e la vita che i francesi avevano conosciuto fino a quel momento non esisterà più, i francesi restano orfani di quella guida spirituale e legittima che deteneva il potere e la legge, la fede e la religione.

Nel caso particolare di Barbey d’Aurevilly, siamo sicuramente davanti a un letterato, ma più precisamente, e non è un dato da sottovalutare, davanti a un letterato appartenente a un’antica

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