• Non ci sono risultati.

LA RELIGIONE COME CAUSA E LA VISIONE DEL MALE

Nel capitolo precedente mi sono soffermata sull’impossibilità dei personaggi aurevilliani di poter affrontare ed esorcizzare il proprio passato.

Questo è sicuramente un tema costante nell’intera produzione romanzesca di d’Aurevilly: tra le sue pagine nessuno dei suoi personaggi può sfuggire alle conseguenze delle proprie azioni anteriori e i danni della passione non sono mai rimediabili. Tuttavia, per quanto questo principio si allinei alla perfezione con la tradizione tragica classica, di sicuro Barbey d’Aurevilly non ha mai avuto l’intenzione di ricalcare le dinamiche dei personaggi tragici.

Senza dubbio, infatti, Mme de Ferjol, perseguitata da un passato complicato e sicuramente passionale, è fortemente connotata da una grande pulsione religiosa.

Ovviamente anche i personaggi classici tragici hanno un forte legame con la divinità, la quasi totalità delle loro azioni è gestita e dirottata dalla volontà divina. Nella prospettiva tragica l’azione è si conseguenza di una decisione, ma essa è anche una scommessa sull’ignoto.

Questo ignoto assume la figura della divinità, e gli dei sono arbitri ultimi dell’umano agire, quella che appare all’inizio come libertà degli uomini è destinata a configurarsi come una necessità imposta dal volere divino: la scelta tra due alternative è soltanto un inganno, poiché una sola via si apre davanti all’individuo, ed egli è forzato a seguirla. Alla base della rovina dell’autore c’è un errore commesso ed è importante concepire questo errore come il riconoscimento di una colpa oggettiva, non imputabile a una scelta del soggetto.

Ciò significa che il marchio della condanna preme sull’uomo e come inevitabile impulso all’azione lo conduce a violare la sanzione divina e lo rende costantemente colpevole del suo agire.

Tuttavia non ci troviamo più davanti agli dei classici dell’ Olimpo, il pantheon greco, gli dei spinti dalla gelosia, che perseguitavano i mortali: esiste un nuovo Dio, quello del cristianesimo ed esiste una nuova colpa, ossia il Peccato Originale.

In Une histoire sans nom la religione acquista una valenza fondamentale, essa si insinua in ogni angolo della storia, nelle azioni e nelle reazioni dei personaggi, è la legge che muove costantemente le vite non solo delle due protagoniste, ma anche di Agathe e ovviamente di Riculfo.

Ma, fatta questa premessa, una domanda sorge spontanea: quale Dio cristiano può ispirare due personaggi come un frate violentatore e una madre senza pietà? Quale Cristo, simbolo del perdono e della misericordia, può essere guida per un prete così terribile e per una madre così tremendamente cieca?

Nel suo studio critico Jacques Petit48 nota che Barbey d’Aurevilly è senza dubbio più vicino al Dio tremendo dell’Antico Testamento piuttosto che a Cristo e alla sua legge d’amore e misericordia: in questa prospettiva, la chute, la caduta è la chiave di tutto, l’unica cosa che può dare un senso ai disordini della vita umana narrati da d’Aurevilly. È come se l’autore avesse concepito l’opera con l’intento moralistico di mettere in guardia l’uomo (o forse la donna?) dal commettere qualsivoglia tipo di peccato, proprio perché, il Male non risparmia nessuno, neanche chi di fatto non pecca come Lasthénie, che nonostante la sua innocenza subisce un tremendo supplizio.

L’uomo non può che vivere di peccato perché è nella sua natura dalla nascita, ed è proprio il peccato che commettiamo che va a identificarci.

D’Aurevilly è ovviamente un fervente giansenista e i suoi personaggi altro non possono che subirne di riflesso gli stessi dogmi e principi: essi vivono in un mondo, agiscono in una società profondamente giansenista e soprattutto intransigente, in cui l’uomo nasce corrotto e destinato inevitabilmente a fare il male per suo proprio istinto.

Non è una religione di speranza, di misericordia o di amore, proprio perché l’amore è concepito esclusivamente in maniera passionale e carnale, come una malattia, un prodotto diretto del peccato originale commesso da Adamo ed Eva. Siamo difronte a una fede cupa e minacciosa, sempre colpevole, che imbruttisce i suoi osservatori e che costringe i suoi discepoli su un baratro di oscurità, senza alcuna possibilità di salvezza.

Vicario in terra di questo Dio tremendo è senza dubbio il frate cappuccino Riculfo, e non è un caso che questo personaggio abbia un nome medievale, tetro, specchio della sua anima nera.

Sul personaggio di Riculfo, il critico francese Pierre Tranouez, uno dei più illustri studiosi di Barbey d’Aurevilly, ha commentato: «  Un nom lui vient comme un lest terrestre, pour bien souligner que le héros est un principe, une force ou un esprit avant d'être un individu, mais ce nom — Riculf —, plein d'épines et de ténèbres moyenâgeuses, plein de promesses générales, autrement dit, et, en outre, comme on l'a signalé, il procède de Lucifer par anagramme.49 »

                                                                                                                         

48 J.Petit, Barbey d’Aurevilly critique, “Annales littéraires de l’université de Besançon”, vol.53, Les Belles-Lettres, 1963,

p.108.

49 P. Tranouez ,Une Histoire sans nom : œuvres et figures de l'Ange Exterminateur, “Annales de Normandie”, 34e année

Riculfo, oltre a portare un nome tipicamente medievale, nasconde al suo interno un altro nome, il nome dell’entità che lo ispira, o che lo possiede, sicuramente il nome di quel Lucifero che andrà a rappresentare nella vita dell’innocente Lasthénie.

Il frate si presenta immediatamente con quella che sarà una delle sue caratteristiche più angoscianti, ossia la vibrazione terribile della sua voce che risuonerà minacciosa tra i banchi della chiesa e tra le stanze dell’ hôtel de Ferjol: «La voix de celui-ci était vibrante et d’un timbre fait pour annoncer les vérités les plus terribles de la religion50».

D’altro canto, neanche l’ambientazione cronologica della narrazione è lasciata al caso: essa si allinea perfettamente con quanto predica Riculfo, il quale prêchait sur l’Enfer, durante la Pasqua, celebrazione del momento più atroce della vita di Cristo, dal tradimento, attraverso la crocefissione, fino alla resurrezione. Anche questo, se vogliamo, è un ennesimo indizio che d’Aurevilly dissemina tra le pagine di questa storia enigmatica: l’unico argomento che Riculfo affronta è sempre l’Inferno, come se fosse desideroso di scatenarlo nei suoi ascoltatori, non a caso Mme de Ferjol e sua figlia sono presenti durante la messa e ascoltano incantate le parole del frate.

La sua voce così fascinante esercita tutto il suo potere sulle nostre protagoniste, Lasthénie e sua madre, attratte da quel personaggio che dovranno ospitare in casa loro. Spinte dalla curiosità di donne di provincia, scrutano il volto del frate, ascoltano le sue parole terribili con devota attenzione. Ma ecco che l’autore si insinua di nuovo invisibile tra i banchi di questa chiesa buia, indica le due donne al lettore, e come se fosse un monito lancia su di loro la prima di una lunga serie di premonizioni: «Les deux femmes qui voulaient le voir ne savaient pas non plus, que l’Enfer qu’il prêchait, il allait le leur laisser dans le cœur.51 »

Ma se Barbey d’Aurevilly ci dice che la voce di Riculfo è inquietante e denaturata, ci dice anche che, all’orecchio di chi l’ascolta, essa è simile à la voix du Ciel: si può quindi presupporre che egli sia legittimato dal questo Dio terribile nel suo operato altrettanto atroce?

In tal proposito, Pierre Tranouez, sostiene: « Avec cette voix qui parle, dans les ténèbres, de l'Enfer, ce sont, aussi bien, les ténèbres et l'Enfer qui parlent, comme un accouchement des forces de la nuit. L'ambivalence caractérise d'emblée l'épiphanie de Riculf : la messe tient du sabbat, les saints paraissent des fantômes, Ciel et Enfer se brouillent. […] Riculf donne de la voix mais demeure invisible, se réduisant à cette “foudre” qui plane, et gagnant par là en qualité angélique: réduit à ce qu'il annonce, l'Enfer et la mort. 52 »

                                                                                                                         

50 Barbey d’Aurevilly, Una storia senza nome, cit., p.46. 51 Ibidem, p. 50.  

Dalla maggior parta della critica, il personaggio di Riculfo è stato definito come “angelo sterminatore” ricalcando così alla perfezione l’essenza ossimorica di questo personaggio, divino e infernale allo stesso tempo. In tal proposito, Pierre Tranouez, sostiene:

Il ne s’agit pas de considérer Une histoire sans nom comme une parabole, ni comme une variation sur les textes bibliques évoquant l’Ange ecterminateur, pas plus que d’y mettre à jour un Archétype, présent là du droit immémorial que possèderaient les Archétypes de hanter les hommes et leurs productions, mais d’apercevoir que cette figure, sortie d’un livre sacré, d’une culture, d’une catéchèse, avec son image et son fonctionnement, se trouve au centre d’un conglomérat hétéroclite où se rassemblent citations et images personelles, elles-mêmes contaminées à l’occasion, par tout ce qui vient adhérer à elle, en même temps que ce qui l’entoure vient se régler sur elle. 53

La figura di Riculfo, angelo sterminatore, è quindi considerato un archetipo squisitamente aurevilliano, angelo e carnefice, sogno e incubo, allo stesso tempo fautore di morte e di estasi.

Il satanismo è così radicalmente presente nell’opera di d’Aurevilly, che nessuno potrebbe pensare di discutere l’esistenza di questo tema: la concezione del satanismo è così fortemente presente perché l’autore riesce a piazzarlo allo stesso livello del personaggio romanzesco. Di fatto il lettore ne accetta la presenza perché l’autore riesce a renderla visibile e tangibile.

È curioso notare, affrontando l’argomento del satanismo, che Une histoire sans nom doveva, secondo i progetti dell’autore, inizialmente collocarsi tra gli episodi di un’altra opera, ossia Les Diaboliques (1874). Opera della maturità dell’autore, resta senza dubbio uno dei lavori più celebri del romanziere francese; è l’opera che di fatto lancia d’Aurevilly non solo sulla scena letteraria ma anche e soprattutto nel vortice delle critiche più spietate.I passaggi più scabrosi di La vengeance d’une femme e di Plus bel amour de Don Juan fecero infatti accusare l’autore di perversione e di corruzione dei princìpi morali cattolici. D’Aurevilly fu posto sotto la lente di quei romanzieri suoi contemporanei che lui stesso aveva aspramente criticato in precedenza; il richiamo alla sua estetica così controcorrente non potrà che trovarsi sempre agli antipodi con quella realista di Flaubert, che, tra l’altro, non esitò a esprimere il suo parere negativo sul lavoro di d’Aurevilly.

D’altro canto, questo autore estremamente cattolico ammirava fortemente, per la maggior parte, tutti quegli scrittori che il pubblico francese considerava empi: amava Sthendal, lodava Diderot soprattutto per l’eloquenza appassionata de La Religieuse, fu un grande sostenitore di Baudelaire durante il periodo buio della censura che colpì Les Fleurs du Mal.

Inoltre fu un fervente ammiratore di Balzac, che vedeva si come uno scrittore monarchico e cattolico, ma soprattutto come il vero e solo creatore del Romanzo moderno. Il realismo di Balzac, a differenza

                                                                                                                          53 Ibidem, p. 325.  

di quello di Flaubert, appariva a d’Aurevilly, sostenuto da una forte componente di immaginazione che, amplificando gli elementi della realtà, « se souvient avec autant de force que’elle invente 54». Inoltre non bisogna dimenticare che d’Aurevilly rischiò una severa censura a causa di Les Diaboliques, di cui si preoccupò persino l’arcivescovo di Parigi, nel 1879, battendosi soprattutto contro una seconda eventuale pubblicazione di Un prêtre marié .

Per nulla scoraggiato da queste vicende, d’Aurevilly andò avanti nella sua produzione e nella sua opera di pubblicazione.

Si rese però conto che la portata così imponente e tragica della vicenda di Lasthénie si stagliava su quella delle altre novelle; doveva essere trattata, e quindi pubblicata, separatamente dalle altre storie. Nonostante questa separazione, la prefazione a Les Diaboliques ci è molto utile a comprendere il punto di vista dell’autore sulla materia trattata e in cosa consista effettivamente la sua ispirazione “diabolica”:

Les Histoires sont vrais. Rien d’inventé. Tout vu. Tout touché du coude ou du doigt. Il y aura certainement des têtes vives, montées par ce titre de Diaboliques, qui ne les trouveront pas aussi diaboliques qu’elles on l’air de s’en vanter. Elles s’attendaient à des inventions, à des complications, à des recherches, à des raffinements, à tout le tremblement du mélodrame moderne, qui se fourre partout, même dans le roman: quelque chose comme les Mémoires du Diable qui n’ont donné à leur auteur qu’une peine du Diable. Mais les Diaboliques ne sont point des diableries, ce sont des diaboliques: des histoires réelles de ce temps civilisé et si divin que, quand on s’avise de les écrire, il semble que ce soit le Diable qui ait dicté…55

A questo punto, non c’è alcun spazio per il fraintendimento, in questo senso l’autore appare molto chiaro, e questo è lo scopo della prefazione: non si può parlare di diavolerie, di puro e perverso piacere nel trattare episodi spaventosi o moralmente empi.

Le vicende che il lettore si appresta a leggere non sono delle mere imitazioni umane della potenza del Maligno, al contrario sono delle vere e proprie azioni diaboliche, è il Diavolo stesso a manifestarsi, d’Aurevilly lo rende un personaggio al pari degli altri.

Ed è proprio l’influenza del demonio che si è abbattuta non solo sulle storie dei personaggi aurevilliani, ma soprattutto sull’ autore stesso, il quale ammette di sentirsi soggiogato dalla pena che ha dovuto provare nel riportarle su carta, perché nulla in questo caso è frutto della sua immaginazione, è l’Angelo Caduto che detta direttamente all’orecchio di d’Aurevilly.

Nonostante lo sforzo morale che la stesura di Une histoire sans nom ha richiesto all’autore, Barbey è cosciente del fatto che questo romanzo avrà un impatto molto forte sul pubblico.

                                                                                                                         

54 J.Petit, Barbey d’Aurevilly critique, Les Belles-Lettres, 1963, p.517.

È proprio quella consapevolezza della materia e degli argomenti trattati che si rispecchia in una lettera che d’Aurevilly scrive all’amica baronessa Marie de Bouglon nel 1882.

Paris 14 août [1882]. Fête de Marie,- que je fête, en vous écrivant. Ma chère âme,

[…] Je suis extrêmement occupé de publications que je crois prochaines. Je ne vous les dis pas, trouvant bon de vous faire des surprises comme a dû vous en faire Une histoire sans nom. Ah! Par example ai-je eu des anxiétés et des peurs de vous, pendant le feuilleton, tout le temps qu’il a duré! J’attendais, chaque matin, vos impressions, et je souffrais de ce qu’elles étaient, contradictoires quelquefois, erronées dans le jugement que vous portiez d’avance sur cette œuvre, que vous faisiez (dans votre tête) pour la condamner, jusqu’à l’arrivée du personnage de Bataille. Vous ne deviniez pas où j’allais. J’allais à la chose la plus profonde que j’aie jamais écrite, la plus cohérente, la plus une, et vous le verrez quand vous relirez ce roman en volume et d’enfilée. […] Je vous en parlerai un autre jour.

Votre fidèle Bâbe.56 Questa lettera si presenta come un esempio del tipo di reazione che Une histoire sans nom ha evidentemente avuto tra i lettori.

D’Aurevilly, scrivendo all’amica, baronessa de Bouglon, tiene a sottolineare l’erronea interpretazione della storia di Lasthénie, un’interpretazione forse frettolosa e che probabilmente si è fatta troppo influenzare da quel carico di malvagità e di oscurità che caratterizza il romanzo.

C’è inoltre da tener conto il fatto che la prima pubblicazione di Une histoire sans nom fu sotto forma di romanzo d’appendice, fu un feuilleton. Ciò significa che probabilmente, leggere settimanalmente la vicenda di Lasthénie, quindi sotto forma di episodi, non contribuì all’assimilazione della storia nella sua totalità.

Dovendola leggere in un numero ristretto di pagine si assimilava maggiormente il carico “diabolico” della storia, suscitando forse troppo orrore. Ma Barbey, come ogni romanziere, si sente in dovere di difendere la sua creatura e lo fa sostenendo di aver perfettamente centrato l’obiettivo che si era prefissato: ossia raggiungere la coerenza, producendo l’opera più profonda che avesse mai scritto. Propone infine all’amica, una rilettura diversa, più adatta, tutta d’un fiato, l’unico modo possibile, attraverso il quale si possa ottenere una visione totale di questo Male indicibile.

Inoltre d’Aurevilly fa riferimento a un momento ben preciso della storia, quello che lui considera la chiave fondamentale di lettura: la comparsa del personaggio di Bataille.

                                                                                                                         

56 Barbey d’ Aurevilly, Correspondance Générale IX (1882-1888) et lettres retrouvés, “Annales Littéraires de

Evidentemente per l’autore, la comprensione della vicenda è inevitabile senza l’assimilazione dell’episodio del ritrovamento dell’anello e della risoluzione dell’enigma.

O meglio ancora, evidentemente quella mano mozzata e quel ritorno alla vita ecclesiastica rappresenterebbero per Riculfo, allo stesso tempo, una punizione e un’espiazione della colpa, costituendo la Catarsi del romanzo. È chiaro d’altronde, che il pentimento finale di Riculfo rappresenta forse l’unico, nonché rarissimo, momento in cui Dio si manifesta, quel Dio che finora era stato completamente bandito dalla scena, scatenando le critiche nei confronti di Une histoire sans nom. A questo punto però, se è giusto affermare che Dio è un grande assente e che non fa altro che tacere nell’universo romanzesco aurevilliano, è altrettanto corretto sostenere che anche Satana, dal canto suo è assente: nessun eroe aurevilliano, infatti, stringe un patto con il Demonio, è come se non ce ne fosse bisogno.

Proprio per questo motivo, in questo universo, la connotazione diabolica va a coincidere con quella divina: entrambe impercettibili, costituiscono due facce della stessa medaglia. Sarà l’autore stesso a spingere il lettore a interrogarsi sulla natura dei personaggi che espone, costringendolo a collocare nel diabolico e nel divino i suoi eroi.

Ritornando sul personaggio diabolico per eccellenza all’interno di Une histoire sans nom, bisogna notare che ancor prima dell’apparizione dell’angelo sterminatore il lettore attento può cogliere il presentimento del suo arrivo, presentimento che si manifesta in ordine contrario; sostiene ancora Tranouez: « Avant même l’apparition de l’Ange, le pressentiment de sa venue anime le théâtre de ses œuvres futures, aire où s’attendent l’aigle et le fléau: pressentiment qui vaut comme l’inverse d’une odeur de sainteté, ou comme l’empreinte anticipée du Messie. 57»

Ed è lo stesso d’Aurevilly che conferma questa sensazione, utilizzando addirittura il corsivo per sottolinearla ulteriormente, dicendo: « Car l’avenir a se spectres comme le passé a les siens, et ceux qui s’en viennent sont peut-être plus tristes que ceux qui s’en reviennent vers nous… 58»

L’unica e brevissima descrizione di padre Riculfo ci permette di capire perfettamente la natura ambigua del suo personaggio.

Egli non ha ne le fattezze ne i comportamenti che ci si aspetterebbe di trovare in un frate del suo Ordine: solo connotazioni negative lo descrivono, è imperioso e minaccioso; nessun cenno alla caritatevolezza, all’umiltà che ci aspetteremmo da un frate appartenente all’ordine francescano. Persino le fattezze fisiche non sono adatte a un uomo di Chiesa, Barbey lo descrive infatti come un Ercole antico, come un proconsole romano, come una statua di Fidia, sostanzialmente come un

                                                                                                                         

57 P. Tranouez , Une Histoire sans nom : oeuvres et figures de l'Ange Exterminateur, cit., p. 325. 58 Barbey d’Aurevilly, Una storia senza nome, cit., p.84.  

personaggio pagano, lo priva di qualsiasi connotazione religiosa che al contrario dovrebbe costituirne la fibra più importante. Tuttavia, nonostante Riculfo sia caratterizzato da una fisicità tipicamente pagana, al contrario la sua manifestazione nella vita del paese e in quella delle due donne de Ferjol, è sicuramente avvolta da un’aura sacra.

In tal senso, Pierre Tranouez osserva: « Présenté globalement, le corps, aussitôt, éclate en trois points de gloire. La main de Riculf se détache d'abord, puissance et foudre encore (ce qui étonne), autorité mais aussi beauté et sensualité, avec quelque chose de phallique59». Sicuramente, l’imponente mano di Riculfo contribuisce a costruire quella sensazione di inadeguatezza che si prova quando d’Aurevilly ci fornisce dettagli sulla persona del cappuccino. Nessuno degli aggettivi che lo descrivono sembrano essere positivi: è una mano imperiosa, è una mano che non chiede ma che

Documenti correlati