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Barbey d' Aurevilly, Une histoire sans nom

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Academic year: 2021

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Indice  

 

 

Introduzione  ...  2  

 

Capitolo  I:  UNE  HISTOIRE  SANS  NOM  TRA  ROMANZO  E  TRAGEDIA  ...  7  

1.1  :  SIMBOLOGIA    DEI  LUOGHI  IN  Une  histoire  sans  nom  ...  29  

 

Capitolo  II:  LA  RELIGIONE  COME  CAUSA  E  LA  VISIONE  DEL  MALE  ...  36  

 

Capitolo  III:  LA  FAMIGLIA  NELLA  CONCEZIONE  AUREVILLIANA  ...  64  

 

Bibliografia:……….82  

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INTRODUZIONE

Una prima lettura di Une histoire sans nom pone senza dubbio il lettore davanti a una serie di riflessioni. Ciò che accade all’interno di questo romanzo necessita almeno in parte di un momento di pausa, di elaborazione, attraverso il quale ci si possa soffermare e interrogare su quanto letto, sulla natura degli eventi narrati.

La caratteristica straordinaria di questa vicenda narrata da Barbey d’Aurevilly, risiede in quell’aurea di indecisione e di insicurezza che l’autore riesce a suscitare nel lettore, il quale raramente proverà la sensazione di aver colto alla perfezione e senza dubbio alcuno la dinamica degli eventi. A ciò si aggiunga l’incredibile apporto che l’atmosfera creata dall’autore riesce a dare alla storia della protagonista Lasthénie. Non meno importante è il collegamento inevitabile che l’autore riesce a instaurare con il lettore: ogni sentimento di ansia, angoscia, dubbio, così perfettamente ricreato dall’autore viene inevitabilmente compatito da chi legge.

È proprio quell’atmosfera di terrore misto ad ansietà che produce nella mente di chi legge tutta una serie di interrogativi ai quali è difficile dare una risposta anche una volta terminata la lettura. Il risultato è inevitabile: ci si ritrova totalmente affascinati, coinvolti, attirati e allo stesso tempo forzati a sentirci coinvolti da una vicenda che vorremmo tenere a distanza. All’origine di questa fascinazione esercitata dal romanzo c’è senza dubbio la scena-chiave di tutta la storia, ossia un episodio di violenza che riguarderà Lasthénie e il suo carnefice. Fin qui nulla di nuovo, se non fosse per la straordinarietà della situazione, e per i sentimenti che suscita, a tal proposito Max Milner dirà: « Une mort donnée ou un supplice infligé, mais dans de telles conditions que l’horreur éprouvée touche à un absolu où douleur et jouissance se confondent, en une sorte d’éxperience mystique de l’anéantissement.1 »

Come vedremo in seguito, ci troviamo di fronte al caso di un romanzo che si staglia sulla produzione letteraria sua contemporanea, che si distingue dalla tradizione romanzesca del XIX secolo.

D’Aurevilly costruisce una storia insolita, sostanzialmente fallimentare, mancante di moltissime delle classiche prerogative del romanzo francese, che si nutre di meccanismi nuovi e allo stesso tempo già noti. Come dice il titolo, si tratta si di una storia senza nome, ma soprattutto si tratta di una storia senza eroi, una storia senza storia, una storia senza Dio.

                                                                                                                         

1  M. Milner, P. Tranouez, Fascination et narration dans l'œuvre romanesque de Barbey d'Aurevilly. La scène capitale,

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Nel suo studio sul romanzo francese dell’Ottocento, Anna Maria Scaiola si riferisce alla produzione aurevilliana dicendo: « Satanismo, medievalismo, culto dell’energia, ossessione del peccato e del sangue…, il contrassegno romantico della sua opera, gli ha spesso fatto attribuire l’etichetta di attardato 2». Si vengono quindi immediatamente a delineare due aspetti fondamentali e consequenziali dell’opera aurevilliana: da una parte il gusto per l’ultraterreno e per le influenze del romanzo romantico, dall’altra le inevitabili accuse che ricevette a proposito di queste scelte letterarie. Nel 1882, anno di pubblicazione del romanzo, Barbey d’Aurevilly è ormai celebre nel panorama letterario francese, forte del successo del 1874 dovuto alla pubblicazione dell’opera Les Diaboliques. Ormai è il maestro della nuova generazione di scrittori, gli autori del fin-de-siècle, tale è per Huysmans e tale è anche per Paul Bourget,  scrittore e saggista francese, membro dell'Académie française, cui Une histoire sans nom è dedicata.

Proprio a causa del fatto che d’Aurevilly scrive relativamente tardi, è raro incontrare il suo nome tra gli scrittori dell’epoca romantica, infatti quelli che la critica considera i suoi romanzi più celebri, appaiono quando nella società letteraria trionfa ormai una mentalità scientista.

Le critiche che ricevette in merito al suo lavoro trovarono tuttavia delle risposte puntuali e pungenti. Tra i suoi bersagli preferiti compaiono gli scrittori realisti, primo su tutti Flaubert, del quale disprezzava le scelte letterarie, soprattutto quella di trattare argomenti che lo stesso d’Aurevilly definisce “volgari”, andando quindi a difendere l’assoluto romantico secondo il quale la letteratura, e l’arte in genere, aveva il compito di rivelare solo e soltanto la bellezza e non appunto il realismo. Effettivamente la produzione aurevilliana non risentirà mai delle influenze realiste del suo tempo, al contrario continuerà sempre a procedere contro corrente, ricorrendo al sovrannaturale, al misticismo, alle credenze popolari della sua Normandia, ricadendo nelle atmosfere da romanzo nero e gotico; e allo stesso tempo evitando categoricamente di trattare argomenti bassi, della quotidianità o che potessero in alcun modo riflettere la classe borghese che in quel periodo aveva conquistato le vette della società francese.

Tuttavia, nonostante il successo immediato, non mancarono forti accuse alla sua produzione: in particolare, la componente profondamente religiosa presente nei suoi romanzi, era evidente e ben nota, essendo d’Aurevilly un convinto giansenista.

Fu proprio questa sua vocazione e tendenza costante alla religione a destare scandalo, per un motivo ben preciso: l’accusa che più spesso gli veniva rivolta era quella di dare troppo spazio, di rendere compagine dei suoi romanzi, la vera essenza del Male, del malvagio, dando spazio al Diavolo,

                                                                                                                         

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rendendolo a volte personaggio al pari degli altri, nonostante fosse un forte difensore della fede cristiana.

Barbey d’Aurevilly, integerrimo giansenista, timorato di Dio, cede incomprensibilmente il passo alla figura del Demonio, dell’Angelo Caduto, a scapito di Dio, che raramente appare nella sua produzione, confinato in una condizione di invisibilità ed inespressione.

A tutta questa serie di accuse l’autore risponde nell’ultima novella de Les Diaboliques, La vengeance d’une femme, con una sorta di manifesto della sua letteratura, ergendosi a difensore dei suoi racconti e dei suoi personaggi:

La littérature, qu’on a dit si longtemps l’expression de la société, ne l’exprime pas du tout,˗ au contraire […] la littérature n’exprime pas la moitié des crimes que la société commet mystérieusement et impunément tous les jours, avec une fréquence et une facilité charmantes. Demandez à tous les confesseurs, - qui seraient les plus grands romanciers que le monde aurait eus, s’ils pouvaient raconter les histoires qu’on leur coule dans l’oreille au confessionnal. Demandez- leur le nombre d’incestes (par exemple) enterrés dans les familles les plus fières et les plus élevées, et voyez si la littérature, qu’on accuse tant d’immorale hardiesse, a osé jamais les raconter, même pour en effrayer!3

Questo è di fatti, l’intento dell’autore, o meglio, il compito che Barbey d’Aurevilly si autoimpone in qualità di romanziere: bisogna, attraverso la letteratura, dare voce a tutti quei crimini, a tutti quei misfatti della vita vera, non verisimile, che prima non avrebbero potuto trovato posto tra gli scaffali delle biblioteche perché considerati troppo difficili da trattare, inadatti, troppo duri da leggere per il pubblico benpensante.

Nella sua incredibile modernità Barbey d’Aurevilly riesce a conferire alle azioni tremende degli uomini, un valore di normalità, semplicemente perché esse esistono e si verificano, e dunque, di conseguenza, come normali devono essere trattate e raccontate.

Inoltre, scopo principale dell’autore sarà quello di indagare e affrontare i più profondi abissi dell’animo umano, laddove risiede il Male, solo in questo modo si possono raggiungere gli effetti di una moralità veramente tragica, solo in questo modo il vero romanziere può raggiungere le vette del sublime letterario.

Questa premessa è fondamentale per comprendere ciò a cui d’Aurevilly si riferisce nella dedica che fa a Paul Bourget della sua opera Une histoire sans nom, e che qui di seguito propongo:

                                                                                                                         

3  Barbey d’Aurevilly,  Les Diaboliques,  <  http://www.goodreads.com/reader/2239-­‐les-­‐

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À MONSIEUR PAUL BOURGET Mon Cher Paul Bourget,

Je veux mettre votre nom à la tête de cette Histoire sans nom, et vous offrir cette pierre, de couleur sombre, qui vous intéressait pendant que je la gravais. Que ce soit là un monument... oh ! un très petit monument, mais d’une chose très grande — mon amitié pour vous. Vous qui avez un nom fleurissant déjà dans la jeune littérature contemporaine et y promettant des épanouissements délicieux, je l’attache à ce récit mélancolique, comme la rose qu’on met parfois, quand on va dans le monde, à la boutonnière de son habit noir.

Mon livre, puisque je le publie, va s’en aller dans le monde aussi, et je l’ai paré avec vous.

Jules Barbey d’Aurevilly. 2 Juillet 1882.4

Barbey d’Aurevilly presenta all’amico Bourget la sua opera descrivendola come « une pierre de couleur sombre », una pietra scura che non fa altro che ricordare al lettore la lapide di una tomba sinistra. E tale è Une histoire sans nom, nel panorama della letteratura francese ottocentesca: essa si configura come il monumento rappresentativo della malvagità degli uomini, come una rosa appuntata all’occhiello di un abito bordato a lutto, rivendicazione silenziosa della potenza della storia di Lasthénie che si nutre di una realtà tangibile, non di un realismo forzato.

È in questa dedica che si riversa la caratura di Une histoire sans nom, nella misura in cui essa sprofonda nell’abisso oscuro delle ombre terribili che sembra rievocare, ma solo per riemergere in una luce più potente che assomiglia alla luce del tragico martirio di Lasthénie. Perfette rappresentatrici di questa realtà tragica sono le protagoniste di Une histoire sans nom: la baronessa de Ferjol, avvolta nell’oscurità di una vedovanza eterna che le divora l’anima, e sua figlia sedicenne Lasthénie, emblema dell’innocenza, mughetto della Normandia, vittima sacrificale del Male universale che d’Aurevilly traduce in parole.

Entrambe conducono una vita rigorosa, dedicata alla preghiera e ai lavori domestici, in un borgo oscuro e sinistro che non ha mai visto la luce, ottimo teatro per l’azione del Demonio che andrà a invadere le loro vite e a distruggerle per sempre.

                                                                                                                         

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Da qui nasce il mio personale interesse, in questa sede, nel cercare di analizzare le caratteristiche tutt’altro che convenzionali di questo straordinario romanzo di Jules-Amédée Barbey d’Aurevilly. Tenterò di indagare e analizzare i momenti più importanti di quest’opera; in tal senso procederò individuando tre punti fondamentali: il potenziale tragico dell’opera e il modo in cui il tragico si manifesta, la visione personale che Barbey d’Aurevilly ha del Male, e il modo in cui la concezione della famiglia dell’autore si riversa nell’opera.

Proprio partendo da questa vocazione di d’Aurevilly al tragico e alla tragicità, intendo entrare nel vivo di questo mio lavoro partendo appunto dalla valenza tragica che la produzione aurevilliana possiede. Attraverso il mio studio ho cercato di risalire alle radici della tragedia più antica, quella classica greca, cercando di cogliere i punti in comune e quelli divergenti che Une histoire sans nom condivide con alcune delle più importanti tragedie greche.

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CAPITOLO I:

UNE HISTOIRE SANS NOM TRA ROMANZO E

TRAGEDIA

Come già detto in precedenza, questo primo capitolo del mio lavoro si preoccuperà di indagare la relazione che intercorre tra Une histoire sans nom di Barbey d’Aurevilly, e il mondo della grande tragedia greca. Al fine di poter condurre un’analisi il più possibile esaustiva, ho deciso di partire da un’altra opera, pietra miliare della cultura letteraria moderna, che potesse innanzitutto aiutarmi a costruire una solida base da cui partire: La Poetica di Aristotele.

Nell’universo vastissimo della Letteratura, intesa come l'insieme delle opere scritte e pervenute sino al presente, ci sono alcuni punti di riferimento, fermi e solidissimi.

Uno di questi punti fermi, pilastro della Letteratura universale è senza dubbio La Poetica di Aristotele. Scritta a uso didattico, probabilmente tra il 334 e il 330 a.C., è il primo esempio, nella civiltà occidentale, di un'analisi critica della tragedia, dell'epica e probabilmente della commedia.    

La Poetica è un'opera che, di fatto, fonda la critica introducendo argomenti e categorie su cui tuttora ci interroghiamo: mimesi e rappresentazione, catarsi, ispirazione, predominio del racconto su altri elementi. E’ il testo che piombò nel mondo culturale europeo, tradotto nel 1498 da Lorenzo Valla, con un effetto incalcolabile sullo sviluppo del teatro e della letteratura moderna, cui si aggiunse l'effetto moltiplicatore generato dai contrasti che sollevava, ad esempio sulle unità aristoteliche o sul concetto di verisimiglianza. L'orizzonte su cui si apre il testo, infatti, è proprio il rovesciamento dell' opinione platonica sull' arte della poesia. Per Platone, infatti, il poeta è un posseduto dal dio, ma nel senso più passivo, di mero strumento che scrive sotto dettatura della divinità, privo di consapevolezza e di implicita importanza nell' assetto sociale. Al contrario, Aristotele osserva che i poeti sono coloro che per natura sono portati a questo genere di cose, alla consacrazione dell’arte poetica. Il fatto che, dal punto di vista di Aristotele, il carattere del poeta sia rilevante scopre nell' attività poetica un individuo: non più un semplice strumento. Semmai, lo strumento intelligente della mediazione tra mondo e uomo. Nei secoli successivi, gli studi di Aristotele sono stati fondamentali per la produzione tragica di moltissimi illustri autori; basti pensare a come i più grandi tragediografi dei secoli successivi come Shakespeare o Racine, o Corneille abbiano nutrito le loro tragedie delle imprescindibili teorie aristoteliche.

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La mia indagine parte da questo punto, ossia come e quanto Une histoire sans nom possa condividere con la classicità della tragedia greca nonostante appartenga a un periodo storico ben lontano dalla produzione teatrale tragica e nonostante appartenga a un genere letterario completamente diverso: il romanzo.

Di sicuro, è impossibile negarlo, Une histoire sans nom è un romanzo fortemente tragico.

La sua potenza tragica risiede nella natura degli eventi che vengono narrati da Barbey d’Aurevilly: la protagonista, Lasthénie, dolce e solitaria fanciulla dal nome squisitamente romanzesco, è l’incarnazione della purezza e dell’innocenza.

Rigorosamente virtuosa, chiaramente virginale, conduce una vita semplice, sempre accompagnata da una madre austera ma devota e dall’inseparabile balia Agathe.    

Nel piccolo borgo oscuro in cui vivono le donne de Ferjol, la piccola Lasthénie è costantemente sotto il controllo di sua madre, che la cura come se fosse un oggetto sacro, ben attenta a non voler interrompere quella solitudine dalla quale sono avvolte. L’autore sottolinea subito che madre e figlia appartengono a un ceto sociale ben diverso da quello dei loro concittadini, si elevano su tutta la popolazione del villaggio, nessuno gli è pari, nessuno frequenta la loro casa.

Lasthénie è costretta nella più completa solitudine fin dall’infanzia, costretta a condurre una vita scandita da pochissimi eventi, per lo più faccende domestiche e osservazione dei doveri religiosi. La sua tranquillità d’animo e la sua purezza vengono però inspiegabilmente distrutte in una sola notte da quello che più avanti definiremo un angelo sterminatore. La rovina di Lasthénie risiede in un’indicibile violenza che subisce in uno stato catatonico, uno stato di incoscienza: subirà uno stupro, senza che lei riesca a conservare alcun ricordo di tale mostruosità.

L’inevitabile gravidanza che scaturirà da questa tremenda violenza sarà il motivo della sua rovina e soprattutto della sua morte, anch’essa inevitabilmente violenta. Lasthénie realizza di essere incinta solo quando il figlio che porta in grembo le smuoverà le viscere con un calcio, ma, nonostante questo indiscutibile segnale, la fanciulla non sa capire e non vuole capire cosa le è capitato.

Fin qui appare chiara la valenza e la portata tragica della vicenda narrata da Barbey d’Aurevilly: ci troviamo difronte a una fanciulla totalmente innocente che viene privata della sua verginità nel modo più atroce possibile, ma soprattutto, senza poter effettivamente ribellarsi perché vittima non solo del suo carnefice ma anche e soprattutto di se stessa e del suo sonnambulismo.

Accanto alla protagonista Lasthénie, pochi, ma fondamentali personaggi la seguiranno in questa vicenda orribile: sua madre, la baronessa de Ferjol, un misterioso frate cappuccino, Riculfo, e la fedelissima balia Agathe.

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Nel sesto capitolo della Poetica Aristotele fornisce la celeberrima definizione di Tragedia dalla quale possiamo partire per affrontare il tema della tragicità di Une histoire sans nom:

Tragedia è dunque imitazione di un’azione seria e compiuta, avente una propria grandezza, con parola ornata, distintamente per ciascun elemento nelle sue parti, di persone che agiscono e non tramite una narrazione, la quale per mezzo di pietà e paura, porta a compimento la depurazione di siffatte emozioni. 5

Aristotele definisce cioè la tragedia come l’imitazione di un’azione seria, quindi non necessariamente realmente accaduta, ma che potrebbe effettivamente compiersi nella realtà. Più avanti nella sua trattazione Aristotele sosterrà: « Da ciò che si è detto è chiaro che compito del poeta non è dire le cose avvenute ma quali possono avvenire, cioè quelle possibili secondo verisimiglianza o necessità. 6»

Da questa definizione, possiamo con sicurezza affermare che ci troviamo davanti al caso della vicenda di Lasthénie. Infatti anche se non possediamo alcuna prova certa della veridicità dei fatti narrati da Barbey d’Aurevilly, perché l’autore non ci fornisce alcun tipo di prove, possiamo ragionevolmente ipotizzare che una successione di eventi simili possa trovare riscontro nella vita reale. Seppur chiaramente consapevoli della straordinarietà della storia di Lasthénie, e al tempo stesso della rarità di un simile e terribile evento, Une histoire sans nom rientra nel concetto aristotelico di tragedia, nel momento in cui la storia di una fanciulla che subisce una violenza è perfettamente comprensibile dal lettore, che non deve compiere alcun tipo di sforzo per comprendere questa semplice dinamica degli eventi.

Altro punto fondamentale nella definizione di Aristotele è che i fatti rappresentati debbano suscitare compassione e paura, pietà e terrore, in questo modo la tragedia realizza il piacere che le è proprio; « Il racconto deve essere composto in modo tale che chi ascolta i fatti che si svolgono, per effetto degli avvenimenti, sia colto da tremore e pianga […] procurare questo effetto per mezzo della vista è piuttosto estrinseco dell’arte e legato alla messinscena 7»

Anche in questo caso Une histoire sans nom soddisfa i canoni aristotelici alla perfezione: innanzitutto l’azione a sé stante dello stupro di una fanciulla innocente provoca inevitabilmente nel lettore un forte sentimento di compassione e sgomento. Entrambi questi sentimenti subiranno un’ulteriore amplificazione quando il lettore realizzerà che il responsabile della violenza carnale subita da Lasthénie non è altri che un frate cappuccino.

                                                                                                                         

5  Aristotele, La Poetica, BUR, Milano, 2011, p.135. 6 Ibidem, p. 147.

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Inoltre, se si volesse attribuire la concezione aristotelica dell’ideale tragico a tutto il romanzo e non solo all’atto dello stupro, basti pensare al reale terrore che Lasthénie, la signora de Ferjol sua madre e la domestica Agate, provano alla sola vista del frate cappuccino Riculfo, invasore della loro casa e delle loro vite, quel frate cappuccino che diventerà il tremendo carnefice di Lasthénie.

Le tre donne non potranno fare a meno di domandarsi: « Pourquoi ne se sentait-on pas à l’aise en sa présence? 8 Allo stesso modo, più avanti nella letture del romanzo, il lettore non può non essere terrorizzato e fortemente colpito dalla furia della madre di Lasthénie che infierisce con un crocifisso sul suo stesso volto procurandosi numerose ferite, fino a sanguinare copiosamente, nel momento in cui scopre che la figlia è incinta.

Oppure, seguendo lo stesso principio, il lettore non può non provare pietà per Lasthénie, quando, nel finale del romanzo, si scoprirà che quell’ appassimento fisico e morale che aveva completamente trasfigurato il corpo e la mente della fanciulla era dovuto a un vero e proprio supplizio autoinflitto.

In questo senso la grandezza di Barbey d’Aurevilly consiste nel riuscire a creare un fortissimo legame simpatetico non solo con i personaggi dei suoi romanzi, ma con la stessa storia che narra, coinvolgendo completamente il lettore. Di sicuro Une histoire sans nom non è la prima storia di violenza trattata dalla letteratura mondiale, neanche la più crudele, ma di certo il lettore percepirà una forte sensazione di turbamento, di inadeguatezza, che lo accompagnerà costantemente dalla prima all’ultima pagina del romanzo.

Aristotele poi, fa una precisa distinzione tra trame semplici e trame complesse sostenendo che: « I racconti sono alcuni semplici altri complessi, perché tali sono anche le azioni di cui i racconti sono imitazioni. 9»

In questo caso però, non possiamo trovare alcun tipo di collegamento tra Une histoire sans nom e la grande tragedia classica greca: la semplicità richiesta da Aristotele non può assolutamente appartenere alla vicenda di Lasthénie.

Secondo Aristotele infatti, una trama complessa è quella trama in cui l’azione subisce un mutamento, e allo stesso tempo la sua risoluzione, o in seguito a un riconoscimento o a un capovolgimento, o a entrambi.

In questo caso però il principio aristotelico non può assolutamente essere rispettato: effettivamente nella vicenda di Lasthénie, il riconoscimento e il capovolgimento sono entrambi

                                                                                                                         

8 Barbey d’Aurevilly, Una storia senza nome, Marsilio editori, Venezia, 1995, p.56. 9 Aristotele, La Poetica, BUR, Milano, 2011, p.151.

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presenti, infatti nel finale del romanzo, che presenta un salto temporale di 25 anni dalla morte di Lasthénie, la baronessa de Ferjol, sua madre, partecipa a un pranzo, durante il quale un commensale racconta come, in un tentativo di furto avvenuto nella sua bottega, è riuscito miracolosamente a immobilizzare il ladro e addirittura a derubarlo a sua volta di un oggetto molto prezioso.

L’oggetto in questione è un bellissimo anello di smeraldo che viene fatto passare di mano in mano affinché tutti i presenti possano godere della sua bellezza. Tuttavia, nel momento esatto in cui l’anello arriva tra le mani della signora de Ferjol, la baronessa cade svenuta alla sola vista del gioiello, colpita nel più profondo, perde i sensi.

Siamo difronte alla soluzione di tutta la vicenda: l’anello di smeraldo è esattamente quello che Mme de Ferjol aveva donato a sua figlia Lasthénie e che ella aveva perso. La fanciulla non era mai stata in grado di spiegare come l’anello avesse potuto scomparire dal suo dito, era stato cercato invano per tutta la casa, quell’anello apparteneva al defunto padre di Lasthénie, perdita che la madre non aveva potuto perdonare. In seguito però non si fa più alcun riferimento all’anello e alla sua scomparsa, così il lettore, andando avanti nella lettura del romanzo, ne perde la memoria, fino a ritrovarlo nelle ultime pagine della storia.

Quell’anello appartenente al defunto Monsieur de Ferjol, reliquia adorata e venerata dalla madre. Ed ecco finalmente la spiegazione, la risoluzione dell’enigma: era stato il frate cappuccino, Riculfo, a sfilarlo dalla mano di Lasthénie nel momento dello stupro, e per logica conseguenza, il ladro suddetto altri non era che Riculfo in persona. È proprio grazie a questo episodio che finalmente il lettore ricostruisce la vicenda, andando a riempire tutte le parti mancanti, andando a sanare tutti i dubbi che aveva e giungendo a una sorta di catarsi.

Abbiamo quindi un capovolgimento e un riconoscimento, ma nessun mutamento: la vicenda è da tempo ormai conclusa e questo chiarimento serve solo a tranquillizzare il lettore, a fornirgli la risoluzione di tutti i dubbi accumulati fino a quel momento, di certo non serve a costruire un lieto fine: Lasthénie è ormai perduta, il ritrovamento dell’anello non serve a restituirle la sua tranquillità di fanciulla innocente, non serve alla baronessa de Ferjol per salvare la figlia dal vortice di colpevolezza in cui l’ha lasciata morire.

Ciò nonostante, è indubbio che il riconoscimento è comunque utile alla conoscenza: la signora de Ferjol, e insieme a lei il lettore, ha finalmente chiaro il quadro, è finalmente giunta alla verità sulla rovina di sua figlia: capisce che l’adorata Lasthénie non si è concessa per amore di un estraneo, che non si è macchiata di nessun peccato, che non le ha mai mentito.

Allo stesso tempo però si rende brutalmente conto di come lei stessa abbia contribuito a uccidere tacitamente una figlia innocente.

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Procedendo nella lettura della Poetica, Aristotele individua le celebri tre unità fondamentali con le quali tutto il teatro tragico successivo ha dovuto confrontarsi: Unità di Tempo, Unità di Luogo e Unità di Azione. Aristotele costruisce delle regole drammaturgiche alle quali il testo tragico doveva attenersi affinché potesse aver luogo una rappresentazione coerente.

Vediamo ora se Une histoire sans nom si presta o no a soddisfare queste tre strutture basilari.

Per Aristotele l’unità di Tempo imponeva che l’azione dovesse svolgersi in un’unica giornata, dall’alba al tramonto; tutto ciò che non poteva rientrare nello svolgersi della giornata tragica doveva essere riportato nella tragedia attraverso una serie di espedienti che si realizzavano generalmente per mezzo del coro, il quale, in un certo senso, aveva il compito di “aggiornare” lo spettatore sugli avvenimenti fondamentali precedenti.

« Occorre dunque che i racconti ben composti non incomincino a caso né finiscano a caso. […] Anche per i racconti ci deve essere una durata e questa deve consentire una facile memorizzazione, […] se si dovessero rappresentare cento tragedie sarebbero rappresentate con la clessidra. 10»

Sicuramente Une histoire sans nom non riesce ad allinearsi con questo principio, innanzitutto per il banalissimo motivo per il quale ci troviamo davanti a un romanzo ottocentesco, oramai ben lontano dalle dinamiche della tragedia classica e che viveva di regole ben precise che non potevano essere stravolte fino a questo punto. La “clessidra” quindi non può essere utilizzata in questo caso, in quanto la vicenda di Lasthénie non si sarebbe mai potuta concentrare in 24 ore, ma, al contrario, segue un arco temporale vastissimo, che ricopre moltissimi anni. Nonostante ciò possiamo fare una distinzione importante per quanto riguarda la gestione del tempo nel romanzo. Nella prima parte di Une histoire sans nom il tempo risulta sempre compatto e ben definito: quaranta sono i giorni della Quaresima, seguiti dai nove i mesi prima del parto di Lasthénie.

Al contrario, nella seconda parte del romanzo il tempo subisce inevitabilmente una dilatazione, infatti il momento cruciale della catarsi di Madame de Ferjol avviene sostanzialmente dopo 25 lunghissimi anni, senza che nulla di importante sia accaduto in questo lasso temporale.

Fatta questa premessa, non è sbagliato sostenere che oltre che una storia senza nome, questo romanzo sembrerebbe essere anche una storia senza Tempo, nella misura in cui le giornate passano tutte uguali, il tempo sembra non esistere, è scandito da pochissimi eventi appartenenti per lo più alla routine famigliare: la messa, le faccende domestiche, il cucito, ecc.

L’azione vera e propria si apre con la Quaresima: è durante la Settimana Santa che si da il via all’azione tragica vera e propria. Le signore di Ferjol ospitano ogni anno nella loro casa, come

                                                                                                                          10  Ibidem,  p.  143.  

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d’usanza, un curato di una diocesi vicina che ha il compito di dire messa durante la Settimana Santa. In questo caso il misterioso e minaccioso frate cappuccino Riculfo. A questa visita seguono i nove mesi della terribile gravidanza che si concludono con il parto e, dopo un periodo di tempo non ben definito, con la morte di Lasthénie. Questi due blocchi temporali nascono da una totale ripetizione di scene di vita sempre uguali: l’autore crea una monotonia che verrà interrotta solo dalla misteriosa e inaspettata fuga del frate, e che troverà una risoluzione solo alla fine, esplicata dall’ellissi temporale che porterà alla scoperta della terribile verità.

Appare chiaro poi che si potrebbe tenere in considerazione il fatto che l’unico vero e proprio atto tragico presente nel romanzo, ossia lo stupro di Lasthénie, è consumato in un solo giorno.

Tuttavia, essa risulterebbe inevitabilmente un’interpretazione forzata che non terrebbe conto di tutti gli avvenimenti precedenti e successivi del romanzo. Come se non bastasse, il momento dello stupro è completamente omesso: nella migliore osservazione delle bienséances, Barbey d’Aurevilly non ci fa assistere al momento più terribile di tutto il romanzo, lo omette e decide di non descrivere la scena troppo violenta dello stupro, confidando nell’intuizione e nell’immaginazione del lettore al quale va l’ingrato compito di ricostruire mentalmente il sonnambulismo di Lasthénie e la violenza di Riculfo sul suo corpo incapace di difendersi.

Ipoteticamente parlando si potrebbe individuare e collocare nel romanzo la violenza subita dalla protagonista, nel secondo capitolo, nel momento in cui l’autore ci fornisce il racconto del passato di madre e figlia, creando quindi un’interruzione nella narrazione vera e propria, inserendo l’excursus nel momento che precede la partenza misteriosa di Riculfo.

Appare inoltre interessante tenere conto di un altro aspetto della linea temporale presente nel romanzo aurevilliano. Su uno sfondo remoto appare in lontananza, per brevissimo tempo, l’eco della Rivoluzione Francese, unico riferimento temporale che affidi il romanzo a un momento storico ben preciso e identificabile. Barbey d’Aurevilly, appartenente a un’illustre e nobile famiglia della Bassa Normandia, è completamente cosciente di avere un legame carnale con gli avvenimenti della Rivoluzione Francese, soprattutto grazie alla tradizione orale fortemente praticata dalla nonna Louise Lucas-Lablaierie e grazie all’azione politica e militare svolta dai suoi zii e dai suoi nonni durante i moti rivoluzionari. Suo nonno Vincent Barbey è consigliere e segretario del Re nel 1756, l’altro nonno Louis Ango ricopre, nel 1770 la carica di ufficiale giudiziario, entrambi favorevoli all'idea di una riforma nel 1789 parteciparono alla vita politica condividendo sia le misure anti-religiose che

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l'esecuzione del Re ritrovandosi così all'opposizione. Senza partecipare alla chouannerie così cara ai romanzi di Barbey d’Aurevilly, aspetteranno il ritorno dei Borboni11.

Il passato della sua famiglia, l’illusione dell’ambizione militare, la formazione da giurista, danno a d’Aurevilly l’impressione di poter fare la Storia attraverso i suoi romanzi.

Annik Billey Ernzen propone un interessante studio sul ruolo militare della famiglia d’Aurevilly e a tal proposito, riferendosi al colloque tenutosi a Cerisy-La-Salle sulla chouannerie normanna del 16 Ottobre del 1988, dirà:

Il a déjà fait entrer progressivement la Révolution Française dans ses romans, d’une façon minime dans les premiers, avec des références plus nombreuses et développées dans Une vieille maîtresse qui présente des personnages introducteurs fortement ancrés dans l’Histoire événementielle selon un procédé anecdotique et qui lie le Cotentin et la Révolution pour la première fois dans l’œuvre aurevillienne. […] Enfin, il montre aussi le Paris révolutionnaire dans Un prêtre marié et Une histoire sans nom, tout en continuant à décrire la Normandie pendant la Révolution. Dans ces ouvrages que nous venons de citer l’Histoire n’est pas l’ossature de la fiction comme dans l’Ensorcelée où elle se charge d’une haute valeur symbolique et mytique. 12

Tuttavia, nonostante la portata dell’evento storico, esso resta completamente in secondo piano, non costituisce l’ossatura della storia di Lasthénie, la Rivoluzione si sente appena, non influisce minimamente né sulla vita delle due protagoniste né sulle vicende del romanzo.

Al contrario, la Rivoluzione, assume più che altro un valore meramente simbolico, infatti potremmo valutare un interessante parallelo, ossia quello che intercorre tra Macrocosmo e Microcosmo, nella misura in cui Riculfo, indiscusso emblema del Male, potrebbe essere identificato con il germe sanguinario della Rivoluzione.

Ed esattamente nello stesso modo in cui la Rivoluzione lasciò dietro di se una scia di sangue e di morte, così Riculfo può essere identificato nel boia che condanna Lasthénie a un’atroce sofferenza. Ma non solo la protagonista sarà colpita dal passaggio di Riculfo, tanto è vero che durante le sue prediche nell’oscura chiesa, i fedeli lo ascoltano tutti con la testa bassa, senza guardarlo, come se aspettassero il colpo fatale della lama della ghigliottina. Naturalmente, se accostiamo il personaggio di Riculfo all’immagine della Rivoluzione Francese non possiamo fare altro che identificare nella Lasthénie violata la Francia royaliste, vittima dei moti popolari, e allo stesso modo, il loro figlio nato morto non potrebbe rappresentare altro se non l’impossibilità di raggiungere la pace nell’oscuro periodo del Terrore e più avanti nel periodo della Repubblica.

Ma si potrebbe pensare anche a un altro sistema simbolico: Riculfo può essere identificato anche con la Monarchia e quindi vestirebbe i panni della vittima. Basti pensare all’episodio in cui l’inquietante

                                                                                                                         

11 A. Billey Ernzen, La Révolution Française dans les oeuvres de fiction de Barbey d'Aurevilly, “Annales de Normandie”

, 42e année n°2, 1992. pp. 197-205.

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ladro/frate perde la mano a causa di un atto di violenza, simbolo della perdita del potere della Monarchia francese per mano dei suoi stessi complici.

In quest’ottica il percorso di Riculfo non è affatto lineare, esso soccombe infatti sotto i suoi stessi colpi e questa sorta di automutilazione non sarebbe altro che metafora dell’attitudine suicida delle classi dirigenti sotto il periodo della Rivoluzione. Dal momento dell’amputazione Riculfo chiude per sempre con quella vita di crimini e misfatti che aveva condotto, ritornando addirittura sui suoi passi, l’autore ci dirà che in punto di morte Riculfo ritrova la fede e l’abito sacro, morendo in un’aurea di santità, benedetto dal perdono di Dio. Ciononostante approfondirò la questione della simbologia all’interno di Une histoire sans nom, nel capitolo successivo.

Per quanto riguarda l’Unità di Luogo, la tragedia greca vuole che la vicenda si svolga in un unico e ristretto spazio geografico.

Anche in questo caso Une histoire sans nom non riesce a essere in linea con i precetti aristotelici, infatti i luoghi principali della narrazione sono due: da una parte Bourg-Argental, l’oscuro paesino sulle montagne delle Cevenne, dall’altro, la Normandia. In questo caso, è importante specificare che raramente un romanzo potrebbe soddisfare l’unità aristotelica dello spazio, sostanzialmente perché le unità aristoteliche erano state concepite per essere applicate sullo spazio scenico, a teatro, dove ovviamente uno spostamento geografico della scena narrata avrebbe comportato un complesso cambiamento della scenografia e del palco scenico.

Al contrario, il romanzo vive di dinamiche ben diverse, l’autore può cambiare il luogo dell’azione semplicemente scrivendo una frase; il romanzo viaggia sull’immaginazione del lettore, ruolo ben diverso da quello dello spettatore.

Ciò nonostante, è necessario soffermarsi sui luoghi di questo romanzo: innanzitutto d’Aurevilly decide di aprire la narrazione sulla descrizione del paesino in cui vivono le signore de Ferjol.

Bourg-Argental si impone sin dalla prima pagina con tutta la sua potenza claustrofobica, con tutta la sua oscurità, circondata da montagne invalicabili, è la scena perfetta per la storia di Lasthénie.

Questa presa diretta sulle montagne descritte riesce a trasmettere al lettore un senso immediato di disagio: « Ceux qui vivaient dans cette abîme devaient certainement éprouver quelque chose de la sensation angoissée d’une pauvre mouche tombée dans la profondeur – immense pour elle – d’un verre vide, et qui, les ailes mouillées, ne peut plus sortir de ce gouffre de cristal.»13

                                                                                                                         

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Tutto gira intorno alla concezione dell’immobilità, dello spazio stretto, non a caso D’Aurevilly sceglie la metafora della mosca intrappolata per spiegare l’atmosfera che si vive in questo luogo. Le descrizioni che seguiranno non sono certo meno inquietanti e spaventose: Bourg-Argental è completamente intrappolato in una fitta catena montuosa, così alta da non lasciare filtrare neanche la luce del sole, è come se si trovasse sul fondo di un imbuto, è impossibile scapparne, si è come murati vivi: « Quelquefois, à midi, il n’y fait pas jour.»14

Qual è esattamente la funzione di questa perenne oscurità? Tale da non risparmiare neanche la luce del giorno? In questo caso ovviamente non si può parlare di canone aristotelico, ma è indubbio che il luogo assume un valore estremamente importante, altamente simbolico, nella misura in cui non fa altro che fomentare, nutrire, tutti gli avvenimenti successivi.

È quello stesso buio e quella stessa asfissia che consentono e agevolano il succedersi dei fatti, è quel buio che consente al frate cappuccino di approfittarsi della dolce Lasthénie e di dissolversi, di sparire da casa de Ferjol senza neanche essere notato. E, allo stesso modo, è quella stessa asfissia che spinge la madre di Lasthénie a portarla altrove per il momento del parto.

L’altrove scelto da Madame de Ferjol è la Normandia, secondo luogo della vicenda.

Il lettore riesce a percepire una chiara sensazione di liberazione nel momento in cui viene annunciato un cambiamento di scena. Quando Mme de Ferjol decide che Lasthénie non può partorire sotto gli occhi degli abitanti di Bourg-Argental, ecco scomparire quella sensazione di claustrofobia che aveva caratterizzato la vita delle donne de Ferjol.

Completamente contrapposta al paesaggio delle Cevenne, la Normandia è caratterizzata dalle sue scogliere, dalla sua ariosità. Eppure il cambio di scena, che generalmente nella letteratura è utilizzato per simboleggiare anche un cambiamento interiore, non consente alcun tipo di cambiamento nei comportamenti delle protagoniste.

Generalmente la letteratura trasfigura il viaggio nel simbolo di qualcosa d’altro: dell’inquietudine dell’uomo e della sua sete di conoscenza, del suo bisogno di mettersi alla prova sfiorando l’ignoto, dell’itinerario della sua maturazione spirituale o di tutta la sua stessa esistenza. La cultura antica conserva, nelle sue leggende e nei suoi miti, il ricordo di viaggi avventurosi e di numerosi eroi viaggiatori. In particolare, la cultura classica, greca e romana, è ricca di opere che trattano il grande tema del viaggio: ecco allora l’avventura di chi parte alla ricerca e alla conquista di qualcosa, come gli Argonauti che vanno alla ricerca del vello d’oro, il cammino alla guida di un popolo verso la terra promessa, come il viaggio di Abramo e Mosé; basti pensare all’Odissea di Omero, che consegna alle

                                                                                                                          14  Ibidem, p.44.  

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letterature successive e, soprattutto, all’immaginario collettivo di tutto il mondo occidentale, la figura di quello che si può considerare il viaggiatore per eccellenza, il simbolo stesso dell’andare per mare e per terra in un peregrinare che è punizione e nello stesso tempo esaltazione: Ulisse.

Sempre il viaggio esprime il percorso esistenziale di chi ricerca una dimensione piena e consapevole della vita, l’inquietudine e l’insoddisfazione di fronte alla banalità e alla sicurezza del quotidiano. Affrontare il viaggio significa accettare il rischio di incontri casuali e fortuiti, imbattersi in pericoli, difficoltà e incognite che consentono all’uomo di mettersi alla prova, di maturare e di acquisire maggiore consapevolezza di sé e conoscenza del mondo.

Esso dunque non è un semplice spostamento nello spazio, ma anche quando trae spunto da eventi reali, tende a diventare un’avventura dello spirito che, a contatto con esperienze diverse, modifica profondamente se stesso. Questo però non può essere il caso di Lasthénie.

Il lettore non si trova di fronte a un’avventura mitologica, ne tantomeno davanti al convenzionale e topico viaggio caro alla letteratura francese dalla monotona provincia alla sfavillante Parigi, dove la maggior parte degli animi insoddisfatti subisce un mutamento radicale e profondo, un’evoluzione sia interiore e psicologica ma anche sociale.

In questo caso assistiamo invece a un viaggio che si compie dalla provincia verso la provincia, ed è proprio per questo motivo che la triste storia di Lasthénie non può subire alcun tipo di modifica. Si noti poi che il viaggio delle due donne è simbolicamente compiuto all’interno di una carrozza chiusa, che non a caso è definita come una bara, la baronessa de Ferjol infatti dirà: « Nous marchons comme un corbillard. 15»

Senza contare poi che la residenza delle signore de Ferjol in Normandia è un antichissimo castello di proprietà della famiglia, castello che richiama alla perfezione le cupe atmosfere gotiche di cui il romanzo intero si nutre, castello dal quale non usciranno mai per paura che qualcuno possa riconoscerle. La situazione quindi non può affatto migliorare con l’arrivo al luogo di destinazione, madre e figlia si ritrovano nuovamente chiuse in uno spazio oscuro, l’autore procede in quello che Liana Nissim definisce una

Psicologizzazione del paesaggio, descritto prima fisicamente e poi, con trapasso progressivo e con abili mescolamenti dei due aspetti, nei suoi caratteri astratti e, potremmo dire, interiori: così, ad esempio, le case del borgo sono nere, perché sono antiche, ma perciò sono tristi; le montagne sono scoscese, ma perciò sono insopportabili e opprimenti: esse sono percorse da infiniti ruscelli ricchi di trote, ma il suono continuo delle loro acque correnti è malinconico…16

Siamo quindi in presenza di un altro luogo chiuso, forse più chiuso di Bourg-Argental.

                                                                                                                          15 Ibidem p.192.

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Passiamo infine all’ultima unità aristotelica, l’Unità di Azione.

Secondo Aristotele, l’azione tragica doveva essere composta da un’unica azione, in altre parole doveva necessariamente escludere trame secondarie o parallele che avrebbero potuto distogliere l’attenzione dall’azione principale. Sostiene Aristotele:

Il racconto è unitario, non come alcuni pensano, quando ha per argomento una sola persona, perché a uno solo accadono molti, innumerevoli fatti, da alcuni dei quali non scaturisce alcuna unità. […] Come dunque nelle altre pratiche imitative l’imitazione unitaria è quella di un unico oggetto, così anche è necessario che il racconto, poiché è imitazione di un’azione, lo sia di un’unica e insieme intera. 17

In questo senso Une histoire sans nom rientra perfettamente nei canoni aristotelici, in quanto la trama è unica e sola, il numero dei personaggi è estremamente ristretto, del tutto circoscritto ai protagonisti e non ci sono sviluppi alternativi né storie parallele a interferire con la storia dell’infelice Lasthénie. Tutto ciò consente al lettore un’esclusiva focalizzazione sulla vicenda, quasi ossessiva, che riprende inevitabilmente l’asfissia dei luoghi in cui essa è ambientata.

Come da tradizione, le signore de Ferjol, che rappresentano l’élite del loro paese, ospitano il frate cappuccino che ha il compito di dire messa durante la Quaresima. Questa presenza però sarà fonte di turbamento per le donne, soprattutto per Lasthénie, che subirà un forte decadimento psico-fisico anche dopo la scomparsa del cappuccino. L’origine del decadimento di Lasthénie è dovuta alla gravidanza che porta avanti, nonostante sia inspiegabilmente convinta di essere vergine. Questo è il nodo principale della vicenda che fa si che questo romanzo possa essere interpretato in chiave tragica. Gli sviluppi della storia sono ben pochi: costantemente rimproverata da una madre severa e bigotta, Lasthénie partorirà un bambino nato morto, e morirà anche lei poco tempo dopo attraverso quello che può essere definito un suicidio lento.

Questa sostanziale lentezza della narrazione, dove di fatto non ci sono grandi colpi di scena, consente la creazione di una suspense che in realtà è caratteristica di testi in cui i colpi di scena sono numerosi e frequenti. È una creazione sorprendente, proprio perché di solito la suspense non trova soddisfazione in presenza di un’azione lenta. Qui al contrario questa lentezza degli avvenimenti serve al lettore che è tenuto in sospeso fino allo scioglimento del mistero, e che è portato per tutto il tempo all’elaborazione di una teoria personale su quale sia la verità dei fatti.

                                                                                                                         

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Il lettore non ha mai un momento di pausa dalla storia principale, perché essa è l’unico perno su cui si muove l’intero romanzo; sembrerebbe richiesta una lettura compulsiva, senza intervalli, che possa esaltare la brevità della vicenda.

L’unità di azione della favola rappresentativa, quella dei generi teatrali, richiede altri criteri di esecuzione, pur sempre imitativi dell’ordine della natura e della verisimiglianza.

Esiste un vincolo, nel patto comunicativo che lega lo spettatore alla scena rappresentata, andare oltre questi vincoli, comporta la rottura del patto comunicativo e lo spiazzamento dello spettatore, che a teatro doveva assistere a una storia che rispettasse le coordinate spazio-temporali che fondano la credibilità stessa dell’evento spettacolare. Queste regole dettate da Aristotele sono il presidio dell'esecuzione artistica classicistica fondata sulla convenzione primaria del verisimile e dell'imitazione della realtà. Esse garantiscono all'autore la comunicazione nel tempo e nello spazio della sua opera, fintanto che queste regole durino, perché assicurano al lettore o allo spettatore una parte attiva nel circuito comunicativo, in termini di piacere e utile e di impiego della propria competenza culturale. Sono regole tanto più forti ed efficaci quanto più diffuso è il loro uso: perché sono il rassicurante contrassegno della continua validità del patto estetico che le ha plasmate e le convalida di opera in opera. Per quanto risulti ancora difficilmente accettabile da parte della nostra cultura, questi dispositivi normativi sono stati, per secoli e in tutta Europa, l'affidabile intelaiatura che rende possibile l'esecuzione di ogni progetto comunicativo: lo scheletro che struttura e articola i diversi corpi testuali, le fondamenta e i muri maestri di ogni edificio.

Procedendo nella lettura e nell’analisi di Une histoire sans nom ho individuato altri elementi che ho ricondotto alla tradizione della tragicità classica ma che tuttavia non prescindono dalle unità aristoteliche né dalla Poetica di Aristotele.

Innanzitutto l’immancabile figura della balia: per tutta la durata del romanzo, Agathe, l’anziana nutrice di Lasthénie, non lascerà mai il fianco della sua padrona; l’amore filiale che la lega alla dolce e malinconica fanciulla non subirà alcuna mutazione, concedendole di essere l’unico personaggio totalmente positivo della narrazione. Onnipresente nella letteratura classica, fino ad arrivare alla nutrice di Giulietta nella celebre tragedia shakespeariana, la balia ricopre molto spesso un ruolo di fondamentale importanza per lo svolgimento dei fatti narrati. Ciò si verifica perché tra le classi più alte della società tradizionalmente era costume diffuso, seppur non regola generale, che le famiglie abbienti lasciassero allevare i propri figli alle balie, i cui compiti prevedevano l’allattamento, la cura e l’educazione del bambino, delegavano cioè alla nutrice la cura dei propri figli.

Avviene quindi una sorta di inevitabile sdoppiamento della figura materna, si instaura un legame superiore tra infante e nutrice, pari a un vero e proprio legame di sangue, nella misura in cui la balia

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ricopre non solo le funzioni meramente pratiche nella crescita di un bambino, quali nutrimento e cure igieniche, ma soprattutto assume quella funzione affettiva; assume quei comportamenti di slancio d’amore incondizionato, che spesso non potevano essere concessi alla madre naturale.

Una delle prime nutrici della letteratura, che ha fatto da archetipo per tutte le celebri nutrici successive è senza dubbio Euriclea, la balia di Ulisse.

Nella celebre opera di Erich Auerbach, Mimesis18, si parla ampiamente di Euriclea, nell’episodio famoso della lavanda dei piedi dell’eroe, attraverso la quale la balia riconosce il Re di Itaca Ulisse. Euriclea, appena toccata quella ferita che conosce così bene, che lei stessa ha curato, lascia cadere il piede del mendicante nel bacile, l’acqua trabocca, la vecchia vuol gridare la sua gioia.

Dice Omero (Od. 19, 471ss.): «gioia e dolore insieme le presero il cuore, le si empirono gli occhi di lacrime, le venne a mancare la voce. E toccando il mento di Odisseo, così parlava: “Tu sei Odisseo, figlio mio caro”».

Fin da questi primi versi, Omero delinea la figura di Euriclea con tutte quelle caratteristiche che rimarranno tali nel futuro personaggio della balia. Si distingue quindi una purezza d’animo, una totale fedeltà e dedizione nei confronti suo padrone che chiama e considera figlio suo.

Ed è proprio in questi termini che Euriclea si rivolge a Ulisse, il quale sente per la nutrice lo stesso indissolubile legame, tanto è vero che l’ammonisce chiamandola “madre”: «Madre vuoi la mia morte, tu che mi hai nutrito al tuo petto?»

Vi è però una differenza, rispetto alle future nutrici della tragedia: Euriclea non consiglia, non rimprovera od esorta, non è in posizione dialettica rispetto al Re che ha allevato e nutrito al suo stesso seno. Per quanto possa sembrare scontato, non bisogna però dimenticare un dettaglio che riguarda l’anagrafe di Euriclea: la nutrice, naturalmente, è e non può che essere una donna anziana, poiché quel bambino che aveva nutrito è giunto ormai alla piena maturità della vita e già comincia ad tendere, soprattutto nell’attuale travestimento, verso la vecchiaia.

Così saranno per sempre le nutrici della tragedia.

Più simile alla nostra Agathe è invece la nutrice di Fedra: condivide il dolore della sua padrona ma non è in grado di comprenderlo. Nonostante questo ostacolo alla comprensione delle pene della sua padrona (innamorata del suo figliastro Ippolito) la nutrice di Fedra condivide con Euriclea, ed altre nutrici classiche, un amore senza limiti per la propria pupilla.

La nutrice è mossa da un invincibile istinto di conservazione, che si è spostato dalla protezione della propria persona a quella della bambina di un tempo. C’è qualcosa di animalesco in questo istinto protettivo, che è al di là di ogni discernimento, di ogni valore morale, di ogni sentimento di giustizia

                                                                                                                         

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obiettiva. La padrona ha sempre e comunque ragione, è al di là della legge di natura, della morale, della legge degli uomini e degli dei.

Inoltre, nelle varie rielaborazioni della tragedia di Fedra, Enone sarà responsabile della manipolazione della sua padrona, è lei che concepirà il motivo della calunnia nei confronti di Ippolito, è a lei che spetterà il compito meschino di accusare ingiustamente il figlio di Teseo.

Ma se è la balia Enone ad assumere un comportamento così basso, è semplicemente perché ella appartiene a una classe sociale diversa, minore; non si sarebbe mai potuta immaginare una regina come Fedra preda di sentimenti così poco alti quali la gelosia e la vendetta.

Allo stesso modo Agathe conserva numerosissimi tratti della balia tradizionale: è ovviamente descritta come una donna anziana, come tutte le nutrici, è connotata da una grandissima devozione nei confronti di Mme de Ferjol che ha sempre seguito nei suoi spostamenti, ama incondizionatamente Lasthénie come se fosse figlia sua, ed infatti è la prima ad accorgersi del cambiamento che la sta trasformando, dell’inquietudine che la divora e la trasfigura. Fin dalle prime pagine Agathe si pronuncerà contro il sinistro cappuccino Riculfo: « j’ai peut-être tort, fit-elle, de parler comme je fais là d’un homme de Dieu. Mais, sainte Agathe! C’est plus fort que moi. Il ne m’a rien fait, mais j’ai de mauvaises idées sur ce capuchon-là…19»

E così come Enone assume dei comportamenti non edificanti, anche Agathe subirà un abbassamento: l’anziana balia si abbandonerà alla superstizione pur di salvare la sua padrona. Ma nella perfetta tradizione delle balie che la precedono, l’abbassamento morale serve ad Agathe per dimostrare quel legame indissolubile che la stringe a Lasthénie, pur di salvarla tenterà qualunque cosa.

Appare immediatamente chiaro, quindi, che la serva Agathe e Mme de Ferjol rappresentino due maternità profondamente diverse, diametralmente opposte, e questo sdoppiamento non è affatto casuale per le dinamiche del romanzo.

Ovviamente Barbey d’Aurevilly aveva bisogno di creare un personaggio madre atipico, snaturato dalle sue solite connotazioni di amorevolezza e tenerezza, e per poter avere una madre severa e rigida come Mme de Ferjol, l’autore doveva delegare necessariamente le funzioni materne a un personaggio alternativo, la balia, quindi ad Agathe. Sostanzialmente sono la grandezza e la tirannia che caratterizzano la signora de Ferjol a richiedere un personaggio sostituto delle funzioni materne. Nei momenti più tragici del romanzo, quando Lasthénie è preda di quella strana malinconia che la trasfigura, la serva sarà l’unica a esercitare una totale fiducia nei confronti della sua padrona, l’idea che la fanciulla possa aver commesso un peccato carnale non la sfiora minimamente, ridurrà sempre Lasthénie in una situazione di vittimismo e sottomissione di un male sconosciuto. È in Agathe che si

                                                                                                                         

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riversano tutti i sentimenti di amore materno, completamente assenti in Madame de Ferjol, che non sospetterà mai l’innocenza della figlia, non le concederà mai il ragionevole dubbio della possessione demoniaca, che a un certo punto appare sensata anche al lettore.

Madame de Ferjol non si darà pace finché non troverà la figlia morta, finché non giungerà a scoprire la verità sul destino terribile della figlia, scoprendo che la realtà risiedeva, seppur non totalmente, nelle convinzioni della devota serva Agathe.

Un altro elemento presente in Une histoire sans nom pone le basi per una riflessione sul legame che questo romanzo può instaurare con la tragedia.

Il personaggio di Mme de Ferjol è senza dubbio carico di una forte connotazione tragica. Di lei non ci viene mai fornita una precisa descrizione fisica, l’unico passaggio che ci consente di idealizzare la baronessa è il seguente: « Comme si elle eût été une ancienne Reine Mérovingienne sortie de sa tombe. 20» Barbey d’Aurevilly la descrive come un’antica regina merovingia, come una statua di pietra che troneggia su tutto il villaggio e che regna indisturbata sulla vita della figlia Lasthénie. A questa iniziale, flebile rappresentazione di Madame de Ferjol, il lettore è subito certo di una sua inequivocabile caratteristica: la severità.

Questa severità ci viene spiegata dall’autore con una breve digressione sulla giovinezza di Mme de Ferjol, utile alla comprensione del carattere di questo personaggio. La baronessa, prima del matrimonio, portava il nome di Jacqueline d’Olonde; è in questo passaggio infatti che risiede la ragione della complessità di questa donna. Barbey racconta di come la madre di Lasthénie, così austera e severa, in gioventù aveva creato grande scandalo in società facendosi rapire da colui che sarebbe diventato in seguito suo marito e padre di sua figlia, il barone de Ferjol. Il successivo matrimonio riparatore genera una macchia nell’onore immacolato di questa donna, incinta ancor prima della celebrazione del sacramento dell’unione, follemente innamorata del bellissimo barone, il quale però, morirà tragicamente giovane.

La morte del marito è sicuramente un trauma per Mme de Ferjol, che non può fare altro che trasformare il suo dolore in un’attenzione morbosa nei confronti della figlia Lasthénie: « à cette enfant qu’elle aimait encore plus parce qu’elle était la fille de son mari que parce qu’elle était la sienne, à elle – plus épouse que mère jusque dans sa maternité!21».

Dunque ci viene confermato che le mancanze di Mme de Ferjol come madre hanno una sede reale nel suo spirito, che non sono solo il frutto di una inspiegabile severità. Ciò che la spinge ad amare Lasthénie non può essere chiamato amore materno, al contrario, si può parlare al massimo di un

                                                                                                                          20 Ibidem, p.86.

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amore passionale, quello per il marito, che ha effettuato uno spostamento, ossia dal padre prematuramente scomparso alla figlia che tanto gli somiglia. Inoltre, se consideriamo l’amore passionale come un focolaio latente dal quale spesso si accende l’ odio e non l’ amore ecco spiegato come riesce questa madre a essere così cieca e severa nei confronti della figlia.

Tuttavia la macchia cui ci riferiamo non è certo quella della fuga amorosa di due giovani innamorati, un espediente sostanzialmente ricorrente nella società del tempo, tanto è vero che sarà la stessa Mme de Ferjol ad ammettere la sua “colpa” alla figlia pur di convincerla a confessare il nome del suo presunto amante. Lasthénie non vuole pronunciare il nome dell’uomo di cui la madre crede sia innamorata e per convincerla le confessa che anche lei, al tempo della fuga era incinta, che anche lei quindi è stata colpevole e peccatrice, esattamente come lo è ora Lasthénie. È esattamente in questo momento che Mme de Ferjol pronuncia una frase che merita di essere analizzata a fondo: « Ta faute, à toi, ma pauvre fille, est, sans doute, une punition et une expiation de la mienne22».

In un passo della Bibbia, Geremia 31, il profeta dice: « I padri han mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati » ossia, più banalmente, le colpe commesse dai padri dovranno ricadere sui figli. Indubbiamente, ogni società elabora dei modelli di comportamento. Nel mondo greco, ai tempi di Omero, questi erano suggeriti dalla poesia epica – strumento della trasmissione del patrimonio culturale e modello di formazione delle generazioni. Lo studioso irlandese Eric Dodds nella sua opera I Greci e l’irrazionale23 sviluppa due teorie, suddividendo la storia greca in: civiltà della vergogna ( predominante nei poemi omerici, in particolare nell’Iliade) e civiltà della colpa ( in cui si sviluppa il “timore” del dio – che si consolida nel V secolo a.C.

Questa teoria della colpa è alla base non solo di moltissime tragedie classiche, soprattutto in ambito greco, basti pensare a tutti gli Edipo, Oreste, Elettra, e la succitata Fedra; ma si pone alla base della cultura greca stessa.

Sostiene Marta Mauriello:

Se vi è un’esperienza umana angosciante e scandalosa nella sua inspiegabilità, questa è senza dubbio l’esperienza della colpa. Essa, nelle sue diverse declinazioni di fallimento, errore, inganno, sperdimento, è presente e informa di sé ogni esistenza umana: poiché è proprio dell’essere umano l’essere fallibile, imperfetto, soggetto allo sbaglio e al male. Ma, d’altro canto, questa esperienza, così naturale e attinente al dato umano, non è qualcosa di placidamente razionale, linearmente inscrivibile in un rapporto di causa-effetto: è invece tortuosa, tormentata, enigmatica. Ciò perché nel concetto di colpa - o di peccato, di male morale, di deviazione – si sovrappongono e confondono problemi

                                                                                                                          22 Ibidem, p.172.

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diversi: il problema della disposizione, della motivazione, della scelta del male, il problema della tentazione e il suo rapporto con la libera scelta, il problema della convergenza di male commesso e male subìto, e quindi la coincidenza di fallibilità e di seduzione, di castigo e di ingiustizia, di sofferenza e di malvagità.24

Soprattutto Eschilo ha indagato il problema dell’azione e della colpa, della responsabilità e del castigo ricorrendo a una concezione assai radicata nella mentalità greca, proiettando la contaminazione della colpa sull’intera stirpe.   In altre parole, la  Giustizia (δίκη) è la legge che gli dèi impongono ai mortali e che può spiegare la casualità degli avvenimenti, regolando alla perfezione sia la colpa che la punizione, rivelandosi allora come un immanente ingranaggio che non lascia scampo a chi si è macchiato di una colpa o a chi eredita una colpa commessa per prima dai propri antenati. Il destino quindi colpisce il colpevole, ma lo fa incatenando anche lui al Male, costringendolo alla necessità di commettere una colpa.

Quindi, tenendo conto della teoria di Eschilo, se Fedra si macchia di un amore colpevole nei confronti del figliastro Ippolito, deve questa sua colpa a una passione-destino originaria causata dall’odio di Afrodite contro il Sole che ne ha travolto i discendenti: la madre Pasifae, macchiatasi dell’accoppiamento col mitico toro, la sorella Arianna e la sua vicenda con Teseo, ora Fedra.

E nella trasposizione tragica di Racine, Fedra è assolutamente cosciente di questa sua maledizione, infatti, riferendosi all’amore cieco che nutre verso Ippolito parla del «feu fatal à tout mon sang25», e cita anche il famoso labirinto, scivolando nel ricordo autobiografico. Così come Fedra, anche Lasthénie deve la sua colpa a quella della madre. La lingua greca conosce una parola specifica per descrivere questa situazione morale: ὕβϱις.

Nella trama della tragedia, la hýbris è un evento accaduto nel passato che influenza in modo negativo gli eventi del presente. È una "colpa" dovuta a un’azione che vìola leggi divine immutabili, ed è la causa per cui, anche a distanza di molti anni, i personaggi o la loro discendenza sono portati a commettere crimini o subire azioni malvagie.

Allo stesso modo, così come Fedra è innocente e colpevole allo stesso tempo perché il suo peccato le è ispirato da Afrodite, anche Lasthénie non può essere definita del tutto colpevole perché subisce il suo peccato senza neanche rendersene conto. Lo stato della sua gravidanza la macchia sicuramente dell’atto carnale, ma una volta scoperto che quello stesso atto colpevole si è nutrito del suo innocente sonnambulismo non la si può più accusare, ogni accusa cade, non si può dubitare di lei.

                                                                                                                         

24 Marta Mauriello, L’enigma della colpa: Kierkegaard e Ricoeur, Annali del Dipartimento di Filosofia (Nuova Serie),

XVIII (2012), pp. 151-163, Firenze University Press, 2013 <http://www.fupress.com/adf > ISSN 0394-5073 (print) ISSN 1824-3770 (online) (28/12/14).

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