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LA LEGITTIMITÀ DELL'ESTERNAZIONE

Nel documento L'esternazione del pubblico potere (pagine 141-200)

1. Cenni sulla nozione di legittimità

In alcuni punti della precedente trattazione si è già profilato il tema della legittimità della esternazione. La semplice scelta di affrontare questo tema separatamente da quello concernente l'efficacia implica la distinzione tra quest'ultima e la legittimità. Non tutti i comportamenti efficaci sono legittimi. Per legittimità si intende la conformità (secondo i casi) della norma o del comportamento al paradigma normativo di riferimento, nel senso che si chiarirà di seguito, sia pure in estrema sintesi. Su questo punto, infatti, pare di dovere convergere con l'opinione oggi più diffusa, che per l'appunto distingue tra efficacia e validità.

Kelsen definisce la validità come vigenza della norma, l'efficacia (in senso statico) come il rispetto effettivo della norma all'interno di una comunità data: «Se effettivamente gli uomini agiscano o meno in guisa da evitare la sanzione minacciata dalla norma giuridica, e se effettivamente la sanzione sia o meno applicata in caso che se ne verifichino le condizioni, sono questioni che concernono l'efficacia del diritto. Ma non è in discussione qui l'efficacia del diritto, bensì la sua validità […] La regola giuridica è valida anche in quei casi in cui manca di “efficacia”. È precisamente in questi casi ch'essa ha da venir “applicata” dal giudice […] Per “validità” intendiamo l'esistenza specifica delle norme. Dire che una norma è valida equivale a dire che noi assumiamo la sua esistenza o – ciò che è lo stesso – assumiamo che essa ha “forza vincolante” per coloro di cui disciplina il comportamento»499.

Questa impostazione si ritrova anche nella dottrina di Alf Ross, per il quale il diritto valido è niente altro che il diritto vigente500. Ciò che questi autori denominano “efficacia” è l'effettiva osservanza della norma, mentre per validità essi non intendono altro che la vigenza della norma. Una norma è valida finché non viene dichiarata illegittima, nel qual caso smette di essere valida. Non è invalida una norma finché non è dichiarata tale, e quando viene dichiarata tale è invalida.

Nella dottrina di Ross, però, la validità del diritto si identifica con la sua applicazione in sede giurisdizionale: «La proibizione è diritto valido, soltanto se ciò viene dichiarato dalle corti davanti alle quali sono portate e perseguite le violazioni del diritto. Non ha alcuna importanza che le persone si conformino oppure che sovente ignorino la proibizione. Questa irrilevanza viene in luce nell'apparente paradosso per cui quanto più una regola è effettivamente osservata nella vita giuridica extragiudiziale, tanto più difficile è l'accertamento della validità della norma, avendo le corti minori occasioni di manifestare le loro reazioni»501. Fintantoché una norma è vigente non si può quindi affermare che essa sia invalida, sebbene questo non precluda critiche da parte dei giuristi: essi possono comunque criticare le decisioni giudiziarie se hanno argomenti per 499 H. KELSEN, op. ult. cit., 29 s.

500 A. ROSS, op. cit., 18 s. 501 Ibidem, 35.

ritenere che in futuro la norma non sarà più considerata vigente/valida dalle corti: «Il problema di che cosa è diritto valido non si riferisce mai agli avvenimenti passati, ma al futuro»502. Mentre, per Kelsen, la validità dipende dal modo con il quale la norma è stata prodotta, quindi dalla sua conformità ad un paradigma formale di riferimento (es. la validità/vigenza della legge si fonda sulla validità/vigenza della Costituzione che ne disciplina il modo di formazione), per Ross invece valido è il diritto che in concreto viene applicato: la validità non è una categoria formale del pensiero, ma una realtà di fatto (coincide con la efficacia)503. La tesi di Ross non può, però, essere accolta perché un conto è l'effetto prodotto dal comportamento creativo della norma e un altro la conformità della norma creata alle norme giuridiche che ne costituiscono il parametro. Non ha molto senso, a mio avviso, affermare che una norma costantemente rispettata e mai applicata (proprio per questo!) dalle corti non sia valida. La norma è valida perché è conforme – fino a quando non sia dichiarato il contrario – al paradigma di riferimento. La non conformità sarebbe messa in conto dall'ordinamento, secondo quello che Merkl ha definito «calcolo dei vizi»504. Tutti i rimedi previsti per contestare la validità di una norma nascono dalla consapevolezza che la norma potrebbe non essere valida: «Al vizio è tolta la punta per il fatto che esso è previsto, presupposto, e in una certa misura inserito nel piano del diritto»505. Se la norma “viziata” viene effettivamente rimossa, allora la norma è invalida, se questo non accade la norma è comunque valida: in altri termini, ogni norma giuridica è valida fino a che, con le tecniche predisposte dall'ordinamento, non si stabilisca il contrario. In parole povere, una legge, una sentenza, un provvedimento amministrativo, un contratto, un comportamento sono validi: divengono invalidi solo quando e nella misura in cui gli organi pubblici abbiano attestato il contrario. Quando si sostiene che la norma x è efficace ma invalida, ci si esprime in modo improprio: in realtà la norma x è valida, ma si prevede che gli organi pubblici in futuro attesteranno il contrario.

Autorevole dottrina ha fatto notare che l'efficacia, in senso kelseniano, è una condizione sufficiente della validità della norma (si pensi alla repetitio facti come elemento della consuetudine)506. Si può replicare, però, che l'osservanza effettiva di una norma giuridica non sia una condizione anche necessaria della sua validità (sebbene taluno dubiti che questa replica colga nel segno e sostenga che alla fine, anche per lo stesso Kelsen, validità ed efficacia finiscano per coincidere)507. Laddove, per considerare un altro argomento, si ricordasse che l'illegittimità può manifestarsi nelle forme più gravi come nullità, e che quod nullum est nullum producit effectum, basterebbe fare osservare che ciò non modifica quanto affermato a proposito della validità: la mancata produzione di effetti ab initio deve pur sempre essere accertata da un organo competente laddove sia controversa, altrimenti la valutazione della nullità di una norma è, per così dire, a rischio e pericolo di chi alla norma disobbedisce.

La validità è divenuta oggi forse la più importante tra le categorie giuridiche impiegate dalla scienza costituzionalistica.

502 Ibidem, 49. 503 Ibidem, 64.

504 A. MERKL, op. cit., 350. 505 Ibidem, 352.

506 La critica a Kelsen venne formulata da Bulygin: v. L. FERRAJOLI, op. cit., 83. 507 Ibidem, 84.

In qualche misura questo dipende dal fatto che negli Stati costituzionali moderni la logica argomentativa tipica delle teorie del diritto naturale è stata incorporata nel diritto positivo: «Lo stile, il modo di argomentare “in diritto costituzionale” assomiglia infatti allo stile, al modo di argomentare “in diritto naturale”»508. La valutazione relativa alla non conformità non concerne meramente la vigenza della norma, ma la sua “giustezza”. L'eventuale riconoscimento da parte degli organi pubblici a ciò preposti della illegittimità della legge (come del provvedimento, della sentenza, del comportamento) è la causa dell'eventuale venire meno dell'effetto (o, più genericamente della produzione di effetti di tipo sanzionatorio). La validità è quindi la risultante di un giudizio di valore interno alla tradizione giuridica e costituzionale. Ad esempio, la validità di una norma è un giudizio che dipende dalla interpretazione della norma che ne costituisce parametro509; in questo modo il problema della validità si risolve nel problema della interpretazione del parametro.

Così, se si afferma che una esternazione è illegittima, si fornisce una certa interpretazione della norma che ne costituisce parametro. Riflettere sulla legittimità della esternazione equivale a fornire una interpretazione delle norme che regolano questo comportamento.

Altra questione è poi se si debba distinguere tra legittimità e validità. A questo proposito, si è soliti separare nell'ambito della invalidità, vizi di legittimità e vizi di merito e conseguentemente considerare la illegittimità una specie del genere invalidità. Per quanto qui interessa, la mera inopportunità – che non si traduca in veri e propri vizi di legittimità – è estranea all'uso proposto della nozione di validità510. Se infatti la validità/invalidità è un problema di interpretazione di un paradigma normativo, tutti i casi di invalidità – di contrasto con tale paradigma – sono casi di illegittimità. Il discorso sulla legittimità di un comportamento è relativo ai limiti entro i quali esso può dirsi legittimo (si noti come in questo caso i limiti siano una garanzia per il soggetto del comportamento) e superati i quali deve invece ritenersi illegittimo. Dalla interpretazione del paradigma normativo di riferimento discende quindi il confine entro il quale il comportamento può legittimamente essere tenuto. La validità della esternazione dipende quindi dalla interpretazione del suo paradigma normativo di riferimento, in ultima analisi dalla interpretazione della Costituzione.

2. Esternazione e libera manifestazione di pensiero

Che si riguardi l'esternazione come mera attività ovvero come esercizio di potere, i limiti che dalla Costituzione discendono per il comportamento qui in esame – per le ragioni che si diranno – non mutano. I limiti (quindi le garanzie) per l'esternazione e per la libera manifestazione del pensiero non coincidono in quanto il primo comportamento è imputabile ad un organo pubblico, il secondo a qualunque persona nell'esercizio di una libertà costituzionalmente riconosciuta e protetta (art. 21 Cost.).

508 G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino, 1992, 157. 509 F. MODUGNO, op. ult. cit., I, 133 ss.

510 Su tutt'altro piano si muove la riflessione dottrinale che propone di distinguere la validità (formale) dalla legittimità (sostanziale): si darebbe allora la possibilità di un potere esercitato, nella prospettiva democratica, in modo valido (nel rispetto delle “forme democratiche” previste), ma non legittimo (quanto ai suoi contenuti): v. M. ARAGON, op. cit., 40 ss.

Questo punto è stato chiarito da insigne dottrina che si è occupata della libertà di opinione del funzionario e quindi del «contrasto che si determina fra l'esigenza di assicurare l'osservanza da parte di questi soggetti degli obblighi particolari su di essi gravanti in dipendenza dello speciale rapporto che li lega all'ente e l'esigenza di garantire anche ad essi, nella massima misura possibile, l'esercizio della libertà di opinione»511. Sia pur con un diverso percorso argomentativo, tale dottrina perviene alla medesima definizione di funzionario/organo sulla quale già si è detto e sarebbe inutile riproporre. Non rileva che si tratti di funzionari onorari o pubblici impiegati né che le attività poste in essere dall'organo richiedano un maggiore o minore contributo di pensiero da parte di chi le realizza: «Deve quindi affermarsi che, in linea di massima, tutti coloro che sono legati dal rapporto organico allo Stato o ad altro ente pubblico possono rientrare nella nozione di “funzionari” ai fini del problema in esame, quale che sia la natura delle attribuzioni loro affidate»512. Tuttavia – a seguire tale orientamento – il problema dei limiti dell'esternazione non si porrebbe per gli organi politici, ma solo per gli organi “neutrali” o di “garanzia”513; né le garanzie di non discriminazione su base ideologica, che valgono normalmente per le esternazioni dei funzionari, potrebbero valere per gli organi della amministrazione strettamente dipendenti da organi politici (per il carattere fiduciario delle loro attribuzioni che richiede che le loro opinioni siano fisiologicamente in linea con l'organo al quale solo subordinati: è il caso dei capi di gabinetto)514. Come si tenterà di mostrare, invece, il problema della legittimità dell'esternazione e quindi dei limiti e delle garanzie per la manifestazione del pensiero dell'organo pubblico si pone anche per gli organi politici, sebbene ciò non implichi che i limiti e le garanzie siano identici per “organi politici” e “organi di garanzia” (v. infra). Del resto, la dottrina adesso in commento ha mostrato molto chiaramente come i limiti possano variare in ragione di una molteplicità di fattori515: un insegnamento prezioso sul quale a più riprese dovremo tornare.

Il primo elemento decisivo nella interpretazione della Costituzione come paradigma normativo di riferimento dell'esternazione è dunque il seguente: l'esternazione del pubblico potere e la libertà di manifestazione del pensiero come privato devono essere distinte. La distinzione è un vero e proprio dilemma, seppur ineludibile: «Nell'esaminare il problema dei limiti al potere di esternazione occorre […] avere riguardo non soltanto – com'è di tutta evidenza – alla posizione costituzionale dell'organo, complessivamente considerata, ma anche alla distinzione che è possibile ricavare, esplicitamente o indirettamente, dalla Costituzione, tra “manifestazione” ed “esternazione” del pensiero»516. Le esternazioni non possono considerarsi alla stessa stregua delle manifestazioni di pensiero di un privato cittadino517, ed infatti, come già si è accennato, incontrano particolari limitazioni e speciali garanzie (più o meno estese, le une e le altre, secondo le circostanze e la natura degli organi presi in esame).

511 A. PIZZORUSSO, op. ult. cit., 1613. 512 Ibidem, 1630.

513 Ibidem, 1631 s. 514 Ibidem, 1624 s. 515 Ibidem, 1640.

516 T. MARTINES, Il potere di esternazione del Presidente della Repubblica, cit., 141.

517 Lo ha chiarito la dottrina che si è occupata del Capo dello Stato, sebbene proprio le prime interviste del Presidente Gronchi avessero lasciato intendere il contrario: in argomento v. M.C. GRISOLIA, Potere di messaggio ed esternazioni presidenziali, cit., 103 ss.

Occorre, però, mostrare per quali ragioni si ritiene che la disciplina della esternazione differisca da quella della libera manifestazione di pensiero come privato. Se si considera l'esternazione come mera attività, tale differenza si spiega – a nostro avviso – attraverso l'interpretazione degli articoli 21 e 54, comma I, Cost. Va subito precisato che non esamineremo il significato complessivo di queste disposizioni, ma le prenderemo in esame soltanto per quei profili che interessano lo studio della esternazione.

L'art. 21 della Carta costituzionale è tra le più significative previsioni della Parte prima ed esprime un'istanza formidabile di rottura non soltanto con l'esperienza fascista, ma con secoli e secoli nei quali il dominio sociale e giuridico della “legge della diseguaglianza”518 ha impedito la formazione di un'opinione pubblica critica nel nostro Paese. Dell'amplissima dottrina che si è occupata di questi temi519, non è possibile dar esaurientemente conto in questa sede. Tuttavia è possibile svolgere qualche breve considerazione sul tema dei limiti alla libertà di manifestazione del pensiero nella sfera politica ed istituzionale. La libertà di manifestazione del pensiero è, assieme alla libertà personale (13 Cost.) e alla libertà di coscienza (art. 19 Cost.), la base per ogni altra libertà. In un certo senso, in questi tre articoli si esprime il contenuto essenziale della libertà, sebbene non esista un primato di queste libertà sulle altre: tutti i diritti inviolabili e i doveri inderogabili fanno sistema quali espressioni del principio personalista (la nostra Carta costituzionale ha «il suo cuore pulsante nella promozione della persona umana, nella persona quale valore»520). L'enunciato linguistico di cui all'art. 21, comma I, Cost. esprime – ad opinione di chi scrive – quella relazione o, per meglio dire, costituisce la risultante dei termini di quella relazione, giuridicamente e costituzionalmente definita, tra pubblico potere e società cui si è già fatto cenno. Non è affatto necessario che un ordinamento giuridico si strutturi intorno al principio per il quale ciascuno ha il diritto di manifestare liberamente la propria opinione. È ben possibile, è successo nel corso della storia e continua a verificarsi ancora oggi, che il pubblico potere ritenga di dovere comprimere gli spazi di discussione pubblica521. La relazione che l'articolo 21 Cost. esprime è quindi quella tipica delle democrazie, e come tale diametralmente opposta a quella che caratterizza i regimi autoritari. È l'idea di una società aperta, contrapposta a quella di una società chiusa522. L'idea di una società pluralista, contrapposta all'idea di una società militarizzante, o comunque militante,

518 Riprendo l'espressione usata da Z. STERNHELL, op. cit., 331 ss.

519 A tacere delle opere di stampo più propriamente filosofico, si pensi, tra i molti importanti contributi, a S. FOIS, Principi costituzionali e libera manifestazione del pensiero, Milano, 1957, 20 ss.; A. CERRI, Libertà di manifestazione del pensiero, propaganda, istigazione ad agire, in Giur. cost., 1969, 1183

ss.; L. PALADIN, La libertà di informazione, Torino, 1979, 33 ss.; C. CHIOLA, Informazione, pensiero e radiotelevisione, Napoli, 1984, 35 ss.; A. BEVERE, A. CERRI, Il diritto di informazione e i diritti della persona, Milano, 1995, 21 ss.; ID., Diritto di cronaca e critica: libertà di pensiero e dignità umana,

Roma, 2000, 30 ss.; A. PACE, Problematica delle libertà costituzionali, Padova, 2003, 7 ss.; P.

CARETTI, Diritti dell'informazione e della comunicazione, Bologna, 2004, 10 ss.; A. PIZZORUSSO, Libertà di manifestazione del pensiero e giurisprudenza costituzionale, Milano, 2005, 8 ss.; P.

CARETTI, G. TARLI BARBIERI, I diritti fondamentali. Libertà e Diritti sociali, Torino, 2017, 397 ss.

520 A. RUGGERI, Il principio personalista e le sue proiezioni, cit., 2104, cui si rinvia spec. per approfondimenti sul rapporto tra principio personalista e diritti fondamentali (ibidem, 2085 ss.). 521 J. HABERMAS, op. ult. cit., 103 ss., part. 209 ss.

522 Com'è facile intendere il riferimento è ad una delle più influenti opere del Novecento: K.R. POPPER,

inglobata nel pubblico potere. È in altri termini l'idea antitotalitaria della separazione tra potere pubblico e società civile.

Inevitabilmente la considerazione di questo articolo schiude una molteplicità di interrogativi, dei quali sarebbe impossibile dar conto in questa sede. Basti, fra i tanti, ricordare come le condizioni economiche e sociali finiscano per incidere sull'effettivo esercizio di questo diritto. E ciò non solo nel senso che le possibilità economiche di ciascuno condizionano l'efficacia con cui può manifestare agli altri il proprio pensiero. Ma, soprattutto, nel senso che la struttura economica, complessivamente considerata, influisce sull'effettivo esercizio di questo diritto.

Delle molte problematiche che alla libertà di manifestazione del pensiero si ricollegano, quella che qui si deve esaminare scaturisce dalla lettura combinata degli articoli 21, I comma, e 54, I comma, Cost. Si tratta di una vexata quaestio: in che termini il dovere di fedeltà alla Repubblica limita la libertà di manifestazione del pensiero? A livello introduttivo si può dire che dell'art. 54 Cost. è stata data una interpretazione complessivamente debole, a tutto vantaggio dell'articolo 21. Si è ritenuto preferibile, in altri termini, lasciare che nella sfera pubblica circolasse quasi ogni genere di opinione, con poche o pochissime eccezioni. Il che significa evitare, da una parte, l'accusa che potrebbe essere rivolta ad ogni democrazia, e cioè di non essere poi tanto diversa dai regimi autoritari nel limitare il pensiero di quanti non condividano i suoi valori fondamentali. Ma implica, dall'altra, una certa fiducia nella società civile, nella sua capacità di selezionare le opinioni e respingere quelle incompatibili con una concezione democratica della comunità politica.

Il carattere “funzionale alla democrazia” della libertà in parola è stato ampiamente riconosciuto, ma deve essere subito ricordata l'avvertenza di Barile (sulla quale si tornerà ancora), per il quale «se dall'indole funzionale si intendesse far derivare una delimitazione sostanziale dell'espressione del pensiero a tutela delle ideologie dominanti, si sarebbe in torto. La corretta posizione è quella di chi intende l'aggettivo “funzionale” in termini metodologici, che “prescindono da ogni preclusione di contenuti”, e che anzi pongono la diffusione di ogni ideologia “quale momento irrinunciabile del metodo democratico” […] essenziale per la definizione e l'attuazione della forma democratica di governo»523.

In altri termini, la libertà di manifestazione del pensiero costituisce presupposto di un dibattito pubblico critico senza il quale non può esserci vera democrazia, «il suo esercizio prelude alla formazione del discorso pubblico, fondamento sostanziale di un sistema democratico»524. Ma cosa succede se la società incomincia a non reagire più in modo positivo (per la democrazia) alla libertà di manifestazione del pensiero, come formula di sintesi, come si diceva, dei rapporti tra pubblico potere e società civile? In altri termini, hanno le costituzioni democratiche delle risorse proprie per potere fronteggiare derive antidemocratiche che potrebbero alimentarsi al proprio interno? L'idea posta a fondamento del più ampio riconoscimento possibile della libertà di manifestazione del pensiero fa affidamento sul fatto che chi prende parte alla discussione pubblica si concepisca come membro di una comunità politica alla quale è legato – qualsiasi sia l'esito della discussione, qualsiasi siano le sue opinioni – da un vincolo di fedeltà. E questa fedeltà ha significato soltanto nella misura in cui i presupposti fondamentali della vita associata, come definiti dal Patto d'unità nazionale, 523 P. BARILE, La libertà di manifestazione del pensiero, cit., 10.

risultino chiari almeno negli elementi portanti a tutti coloro che partecipano alla discussione.

Tutti gli uomini sono quindi liberi di manifestare il proprio pensiero, ma – senza che da questo possano derivare “preclusioni di contenuti” – sono al tempo stesso chiamati ad essere fedeli alla Repubblica. Si tratta allora di chiarire in che cosa consista tale

Nel documento L'esternazione del pubblico potere (pagine 141-200)

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