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La politica mediorientale degli Stati Unit

Prima di affrontare il tema delle relazioni che il movimento palestinese ebbe a livello internazionale con gli Stati Uniti, con l’Unione Sovietica e con l’Europa occidentale, sarebbe meglio anticipare che uno dei presupposti di questo lavoro si basa sulla convinzione dell’impossibilità di inserire gli avvenimenti e le realtà post belliche entro una rigida griglia, cristallizzata esclusivamente sulla divisione bipolare e sull’influenza delle due superpotenze nelle vicende mondiali. Sia il conflitto arabo-israeliano, sia la politica dei socialisti in Medio Oriente vengono infatti analizzate a partire dal riconoscimento dell’esistenza di una complessità di evoluzioni che non possono racchiudere il discorso sul confronto tra i due blocchi. In entrambe le realtà confluiscono al contrario altri fattori e molteplici variabili, legati ai processi interni e a specifiche ed autonome dinamiche regionali.

L’analisi degli sviluppi dell’area del Medio Oriente è realizzabile solo prendendo in considerazione le relazioni tra differenti dimensioni politiche, internazionali, ma anche locali ed interne ai vari paesi. Questo vale in particolare per la valutazione del conflitto arabo- israeliano, il quale, per diversi studiosi68, non può essere esaminato

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Georges Corm, Joseph Smith, Alberto Tonini. Ennio Di Nolfo.

«(…) Ci fu un rifiuto sempre più esteso rispetto alla tendenza delle superpotenze ad allargare a tutto il globo la portata del loro conflitto. Era il rifiuto della “guerra fredda” concepita come obbligo per tutti i paesi di prendere partito per uno dei due contendenti, sino ad accettare di legarsi a questo mediante alleanze o mediante prove di obbedienza e lealtà univoche ancorché non formalizzate, con l’effetto di vincolare in prospettiva la vita mondiale all’esistenza di un solo problema, quando al contrario la tendenza del tempo (nei primi anni Cinquanta, ma noi crediamo di poter estendere questo principio anche per gli anni che seguono, ndr.) era il diversificarsi delle situazioni. Ma proprio questo diversificarsi costringeva governanti e

esaurientemente se inserito solo all’interno degli equilibri della Guerra Fredda. Al contrario, le linee politiche e strategiche delle due superpotenze non riuscirono ad influire fino in fondo sul corso degli eventi, né a indirizzare le soluzioni nel contesto mediorientale: nel suo saggio sulle relazioni internazionali del Medio Oriente, Louise Fawcett69 porta due eventi bellici a dimostrazione di questa tesi, la Guerra dei Sei Giorni, in cui nessun intervento riuscì a bloccare Israele ed Egitto prima delle ostilità, e il conflitto tra Iran e Iraq, che si prolungò per otto anni senza che nessuna delle due superpotenze vi traesse alcun vantaggio.

Tuttavia, nonostante il Medio Oriente, e nello specifico il movimento rivoluzionario palestinese, siano sembrati a volte anche molto distaccati rispetto all’influenza ideologica dominante nel clima bipolare70, e sebbene i regimi della regione abbiano utilizzato le

popolazioni a considerare con crescente distacco, come problema non proprio, quello rappresentato dal conflitto globale. (…) Si manifestavano in tutti i continenti nuovi sviluppi, che ponevano problemi di fondo interni a ciascun paese ma che si riflettevano anche sul piano internazionale, per la tendenza, opposta a quella poc’anzi rilevata, di certe forze politiche a trarre forza dalla speranza di un appoggio esterno che una determinata scelta di campo nel conflitto bipolare le avrebbe potuto assicurare (…)», E. Di Nolfo,

Storia delle relazioni internazionali (1918-1999), Editori Laterza, Roma-

Bari, 2003, p. 808. 69

L. Fawcett, (a cura di) International Relations of the Middle East, Oxford University Press, 2005.

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«The Fateh leaders’ declared ideology (…) was always one of avoiding any identification with potentially divisive social or political ideologies, in pursuance of the national cause, and this approach was carried over as the basis for its approach to world politics», H. Cobban, op. cit., p. 216.

A tale proposito sono indicative le parole del sindaco di Nazareth, Tewfiq Zayyad, sugli orientamenti politici dell’OLP, riportate in un’intervista su MERIP nell’ottobre del 1976: «(…) La sua strategia politica, ovviamente, non è quella del socialismo, ma di implementare il diritto all’autodeterminazione e costruire uno Stato. Per la stessa natura della lotta e dell’equilibrio di forze all’interno del popolo palestinese - la cui stragrande maggioranza sono rifugiati e poveri - è naturale che quando questo popolo avrà l’opportunità di rendere effettivo il diritto ad avere un proprio Stato,

dinamiche del confronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica come strumento per portare avanti i propri interessi specifici, sarebbe comunque limitativo analizzare le dinamiche del conflitto israelo- palestinese come fenomeno isolato71. Questo discorso vale per lo Stato di Israele, che da una parte ha agito quasi sempre in autonomia e in base ai propri interessi specifici, dall’altra è una realtà che deve molto all’appoggio statunitense; ma il ragionamento vale anche per l’entità palestinese, che ha sempre inseguito il proprio interesse di carattere nazionale, ma che, nonostante all’inizio fosse poco conosciuta a livello internazionale oltre i confini del mondo arabo, a partire dai primi movimenti di lotta è cresciuta proprio basandosi sulle sue relazioni internazionali. Con il mondo arabo, ma anche con i movimenti di indipendenza del Terzo Mondo, con gli organismi internazionali, nonché con i governi e i partiti amici dei vari Stati del mondo: tutte queste relazioni, influenze, o particolarità specifiche della lotta palestinese hanno contribuito nella stessa misura a costruire la storia del movimento.

Dopo questa premessa, si può cominciare ad analizzare la politica degli USA in Medio Oriente precisando che, sebbene dopo il secondo

questo Stato sarà democratico e rivoluzionario». (T. Zayyad, «A Communist view of the Middle East», MERIP Reports, n. 55, pp. 18-20, J-STOR). 71

Appare interessante, a questo proposito, anche il “consiglio” offerto al nuovo Stato di Israele dal settimanale socialista italiano Mondo Operaio: «Prescindendo da considerazioni ideologiche è dubbio assai se ad Israele convenga farsi trascinare nella politica dei blocchi. Se è vero che Israele non sarebbe mai esistito senza l’aiuto americano, è altrettanto vero che non sarebbe mai esistito senza l’aiuto russo. Ragione di più questa per evitare di impegnarsi in una politica che favorisca una parte a detrimento dell’altra. Israele continuerà ad avere bisogno dell’America e della Russia, e sarebbe questa una ragione sufficiente per una politica di equilibrio e di leale amicizia verso le due parti», M. Bellini, Mondo Operaio, 5 febbraio 1949, p. 7.

conflitto mondiale gli Stati Uniti avessero mostrato un interesse solo accessorio rispetto al Medio Oriente, dal momento in cui nel 1948 la Gran Bretagna ritirò le sue truppe dalla regione, l’amministrazione Truman cominciò a guardare con preoccupazione il vuoto che gli inglesi avevano lasciato, temendo che in quello spazio avessero potuto insediarsi le aspirazioni dell’espansionismo sovietico. Anche se in verità in quegli anni Stalin aveva concentrato le forze del suo regime più che altro sulla ricostruzione post bellica, e nonostante le pressioni sovietiche sulla regione fossero dunque all’inizio praticamente inesistenti, per gli americani il Medio Oriente acquistò una grande importanza strategica, seconda solamente a quella del continente europeo72. Ne sarà dimostrazione lo stanziamento della imponente Sesta Flotta nelle acque del Mediterraneo.

Le relazioni tra gli Stati Uniti e il mondo arabo si aprirono in un clima positivo per via dell’appoggio che gli americani concessero al processo di decolonizzazione, mostrando tutto il loro supporto ai paesi che cercavano di affrancarsi dalla dominazione europea. Questa nobile convinzione politica si concretizzò con l’intervento degli USA nella

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«Se nei primissimi anni di Guerra Fredda gli analisti del Pentagono erano stati poco disposti a destinare risorse finanziarie al Medio Oriente perché la difesa dell’Europa occidentale non era ancora sufficientemente organizzata, dopo la guerra di Corea l’aumento dei fondi a disposizione permise agli Stati Uniti di riconsiderare l’importanza strategica del Medio Oriente e la necessità di non lasciare vuote le posizioni gradualmente abbandonate dalla Gran Bretagna. (…) La naturale conclusione di questa revisione strategico- militare fu l’ingresso della Turchia nella Nato, così da legare la difesa dell’Europa a quella del Medio Oriente», A. Tonini, Un’equazione a troppe

incognite. I paesi occidentali e il conflitto arabo-israeliano (1950-1967),

crisi di Suez del 195673, e fu quello infatti il conflitto che segnò il declino definitivo dei tentativi coloniali delle due ex potenze imperialiste del Mediterraneo, Francia e Gran Bretagna. La linea anticoloniale degli USA favorì i loro rapporti di amicizia con i paesi arabi, i quali guardavano con interesse e ammirazione la cultura democratica statunitense, considerandola un possibile modello di riferimento per la costruzione delle nuove società post-coloniali74. Fu l’ossessione della minaccia sovietica l’elemento che indirizzò in seguito la politica americana verso l’assunzione di un ruolo più incisivo nella regione mediorientale: allo stanziamento della Sesta Flotta, si aggiunsero la strutturazione di intensi rapporti diplomatici con l’Arabia Saudita, l’appoggio al colpo di Stato in Iran, nonché la relazione speciale che gli USA ebbero con lo Stato di Israele fin dalla sua fondazione75.

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«Gli Stati Uniti, in armonia con la loro tradizione anticolonialista, adottarono un atteggiamento più comprensivo verso il nazionalismo arabo, anche perché l’amministrazione Eisenhower desiderava impedire che Nasser cercasse l’appoggio dell’Unione Sovietica. I funzionari americani guardarono dunque con favore ai tentativi egiziani di introdurre riforme economiche nel paese e si impegnarono a fornire assistenza finanziaria al gigantesco progetto di irrigazione della diga di Assuan», J. Smith, La guerra

fredda (1945-1991), tr. it. Il Mulino, Bologna, 2000, p. 109.

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«A differenza della Gran Bretagna, Washington non poteva fare affidamento su passate relazioni con il mondo arabo, ma se apparentemente questa condizione poteva costituire uno svantaggio, in realtà essa si rivelò favorevole. Agli occhi dell’opinione pubblica dei paesi mediorientali, infatti gli Stati Uniti non apparivano compromessi con quel passato imperialista cui invece era legata la monarchia britannica», A. Tonini, ibidem.

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«Molto controversa fu la decisione dell’amministrazione Truman di riconoscere lo Stato di Israele solo dieci minuti dopo la sua proclamazione, il 14 maggio 1948: “Non c’è un voto arabo in America, ma c’è un consistente voto ebraico e gli americani sono sempre in campagna elettorale” spiegò il primo ministro britannico Clement Attlee. Il successivo sviluppo di un rapporto “speciale” tra gli Stati Uniti e Israele suscitò l’ostilità dei paesi arabi e pregiudicò i tentativi americani di condurre una politica imparziale nella regione», J. Smith, op. cit., p. 108.

Tutte queste relazioni e azioni politiche, legate al principio di interventismo, culminarono con la “dottrina Eisenhower” nel 195776, e introdussero definitivamente gli Stati Uniti nell’asse degli equilibri della regione insieme all’Unione Sovietica, la quale aveva visto la propria posizione rafforzata dall’andamento della guerra del 1956. Con la crisi di Suez i paesi arabi compresero quali fossero le nuove dinamiche internazionali, e capirono per la prima volta che lo strumento politico della guerra avrebbe provocato una serie di conseguenze al di là del loro controllo. Per questa ragione il principio della stabilità politica dei paesi più importanti dell’area divenne fondamentale e, sia gli Stati Uniti, sia l’Unione Sovietica, cercarono di mantenere relazioni politiche e commerciali con i paesi loro amici. La crisi favorì lo spostamento dell’Egitto nasseriano, seguito poi da Iraq e Siria, sull’asse di influenza sovietica, ma, nonostante queste scelte, nessun regime si identificò completamente con il modello proposto da Mosca, né il nazionalismo arabo ricalcò puntualmente i principi del comunismo sovietico77. Le mosse strategiche delle due superpotenze

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«Nel gennaio 1957 il presidente americano enunciava al Congresso la “dottrina Eisenhower”, cioè i lineamenti della politica americana verso il Medio Oriente, assicurando che questa si sarebbe basata sulla continuazione degli aiuti economici e militari a quei paesi che, minacciati da un’aggressione militare, li avessero richiesti. Gli Stati Uniti erano risoluti a “sostenere la sovranità e l’integrità territoriale delle azioni libere del Medio Oriente”, appoggiando la loro volontà di resistere all’aggressione comunista. (…) la dottrina Eisenhower mirava a impedire che, sotto le spoglie di un nazionalismo arabo estremista, dilagasse l’influenza sovietica», E. Di Nolfo (2003), op. cit., p. 901.

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«Quando Nasser arrestò alcuni comunisti egiziani nel 1959, Chruščëv descrisse il leader egiziano come una “giovane testa calda”. I crescenti prodotti petrolieri, inoltre, non solo diedero agli stati arabi un maggiore senso di indipendenza e fiducia in se stessi, ma assicurarono loro anche le risorse finanziarie per prepararsi a muovere guerra a Israele. Dunque, anche se Stati Uniti e Unione Sovietica furono pronti a fornire le armi, non fornirono la motivazione del conflitto arabo-israeliano: (…) entrambe le superpotenze furono molto attente a non assumere un ruolo attivo nella

non erano alla radice delle tensioni che il mondo arabo stava attraversando: le élites arabe, sempre contrarie alle interferenze esterne, mostravano una certa inquietudine rispetto soprattutto alle ideologie rivoluzionarie che il panarabismo nasseriano stava diffondendo nella regione mediorientale, e più in generale gli Stati mediorientali erano presi da altri problemi rispetto alla contrapposizione Est-Ovest: «(…) l’aspirazione all’unità araba, il compimento della piena indipendenza per tutti i popoli della regione, la necessità di migliorare la qualità della vita dei propri concittadini, la difesa rispetto al presunto disegno espansionista israeliano, la questione palestinese; erano, in altri termini e più prosaicamente, la conservazione del consenso interno e la conquista della leadership del mondo arabo»78. La luce di cui godettero gli Stati Uniti inizialmente fu offuscata dal loro insistente interventismo, e soprattutto dalla loro leale posizione a fianco dello Stato di Israele; inoltre l’aspirazione quasi ossessiva che essi ebbero nel cercare di limitare la penetrazione sovietica nella regione a volte si scontrò con la malafede di alcuni governanti arabi, che rintracciavano nella politica americana i principi imperialisti delle potenze coloniali europee.

Rispetto al conflitto arabo-israeliano gli Stati Uniti, seguiti dalle diplomazie occidentali, cercarono sempre di non assumere una posizione troppo netta, da una parte perché per loro la questione era subordinata alla necessità di contenere l’espansionismo sovietico, dall’altra perché il conflitto mostrava di essere una controversia

successione di crisi interne che interessò la regione», J. Smith, op. cit., p. 112.

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complessa, e incancrenita su posizioni opposte e difficilmente conciliabili. D’altra parte nessuno, nella regione, voleva che le superpotenze intervenissero direttamente in questa difficile guerra, e il mondo occidentale cercò di adottare la strategia della mediazione attraverso lo strumento delle Nazioni Unite, in particolare dell’UNRWA79, senza impegnarsi mai fino in fondo nella ricerca di una soluzione al conflitto. L’Occidente antepose sempre i propri interessi, che confluivano essenzialmente nelle necessità strategiche della Guerra Fredda e nelle mire degli approvvigionamenti energetici, alla politica nei confronti del conflitto arabo-israeliano, tirandosi indietro ogni volta che le situazioni imponevano di esercitare pressioni sui governi coinvolti nella questione. La paura della penetrazione sovietica in Medio Oriente, che spinse il mondo “atlantico” ad esitare continuamente, rispetto alla presa di posizioni nette nel conflitto, produsse un’approssimatività che lasciò un ampio margine di operazione ai governi arabi e israeliani per piegare gli equilibri verso vantaggi di carattere nazionale.

A partire dagli inizi degli anni Sessanta la politica mediorientale degli Stati Uniti si irrigidì ancora di più sulla percezione del mondo arabo come un universo passibile di entrare nella sfera di influenza sovietica, e il principale timore per l’amministrazione americana fu

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«Da parte americana si raggiunse la convinzione che ogni tentativo di premere apertamente per una soluzione della questione palestinese sarebbe stato controproducente, dal momento che gli Stati Uniti non erano visti dagli Stati arabi come un soggetto del tutto imparziale; oltre a questo genere di valutazioni, ciò che influì sull’atteggiamento americano fu anche la considerazione che un’eventuale iniziativa appoggiata dal Dipartimento di Stato avrebbe probabilmente indotto anche i governi di Francia, Gran Bretagna e Unione Sovietica a prendere posizione, e ciò non era considerato desiderabile negli ambienti diplomatici statunitensi», A. Tonini, op. cit., p. 162.

quello di vedere l’URSS appropriarsi delle fonti petrolifere del Medio Oriente per avere una posizione di vantaggio rispetto ai paesi dell’Alleanza atlantica80. Per evitare ciò la strategia adottata dagli USA fu quella della prudenza, della moderazione: Washington fu attenta a non creare mai un corto circuito tra il sostegno ad Israele e l’amicizia con alcuni Stati arabi. La reazione alla fondazione dell’OLP non esulò da questo atteggiamento, e la notizia fu accolta con cautela. La missione dichiarata del movimento palestinese contro lo Stato di Israele non poteva ricevere il consenso dell’amministrazione statunitense, che al contrario era impegnata a garantirne l’esistenza, ma, nonostante il mancato riconoscimento dell’organizzazione promossa da Nasser come rappresentante del popolo palestinese, il Dipartimento di Stato americano dichiarò di voler comunque intraprendere con i dirigenti dell’OLP relazioni a livello individuale, a dimostrazione dell’amicizia americana con i palestinesi e con il mondo arabo. Si trattò insomma di un’accoglienza allineata alla strategia politica mediorientale degli USA, abili nel non mostrare troppo il loro sostegno ad Israele81.

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«Per molto tempo l’Iran, sotto il regno dello shah, e Israele erano stati i suoi (dell’America, ndr.) bastioni per combattere contro l’influenza sovietica e proteggere i pozzi petroliferi della penisola arabica. L’Egitto, l’Iraq e la Siria erano percepiti come le pedine di Mosca nel Vicino Oriente, i Palestinesi come delle bande di “terroristi”, ampiamente sottomesse all’Unione Sovietica», G. Corm, L’egemonia americana nel Vicino Oriente, tr. it. Jaca Book, Milano, 2004, p. 27.

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«(…) Fino alla guerra dei Sei Giorni (e anche in seguito, ndr.) non vi furono sostanziali cambiamenti nell’atteggiamento verso l’Olp, che si ispirò fondamentalmente a due principi generali: evitare ogni forma di riconoscimento ufficiale (sconsigliate anche le telefonate da sedi diplomatiche americane a uffici dell’organizzazione palestinese) ma mantenere i contatti, quando già esistenti, a livello puramente personale», A. Tonini, op. cit., p. 225.

Il conflitto del 1967, e ancora di più la guerra dello Yom Kippur nel 1973, come abbiamo visto, avviarono il processo di declino del panarabismo e il conseguente distacco dei paesi arabi dalla causa palestinese: essi si ripiegarono sugli specifici interessi nazionali e sul problema del loro sviluppo economico, mostrando segnali di apertura verso il mondo occidentale e verso il modello economico del mercato libero.

Anche se la politica statunitense inseguiva, secondo gli schemi della Guerra Fredda, la distensione e l’equilibrio tra potenze, le nuove scelte dei paesi arabi non potevano essere inserite in questi schemi: furono improntate piuttosto a perseguire politiche nazionali concrete82, indirizzate alla ricerca delle condizioni per lo sviluppo economico attraverso un potenziamento delle relazioni commerciali con i paesi occidentali. Dunque fu principalmente l’interesse per la crescita che spinse i paesi arabi, tranne la Siria, ad avvicinarsi all’Occidente, di certo non l’ideologia dell’anticomunismo, dal momento che né i regimi arabi erano soggetti a minacce particolari da parte dei partiti comunisti al loro interno, né l’Unione Sovietica era particolarmente interessata ad appoggiare quei partiti. Questi orientamenti non lasciarono indietro comunque i problemi di sicurezza a vantaggio delle politiche economiche; al contrario, le garanzie di difesa militari che gli Stati Uniti erano pronti ad assicurare nell’area, riuscirono a far rientrare tutte le questioni più incalzanti all’interno delle nuove strategie. Ancora una volta è facile dimostrare che, nonostante il

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«(…) Né Israele né l’Egitto furono satelliti obbedienti delle superpotenze: entrambi i paesi considerarono la politica della guerra fredda come un prezioso mezzo per un fine che essi avrebbero definito in modo autonomo», J. Smith, op. cit., p. 146.

sostegno militare e finanziario, le due potenze mondiali non giunsero mai ad influenzare nel profondo i rapporti di forza dell’area, e che i paesi arabi che gravitavano nelle due aree di influenza non furono mai alleati fidati e stabili.

La guerra dello Yom Kippur del 1973, che vide un forte sostegno degli Stati Uniti ad Israele e dell’URSS all’Egitto, si concluse con l’affermazione del prestigio statunitense nell’area: l’Unione Sovietica venne esclusa quasi completamente dagli equilibri dell’area e gli USA divennero i mediatori del conflitto che aveva visto contrapporsi Egitto ed Israele. L’OLP si ritrovò dunque costretta a prendere una posizione nei confronti degli Stati Uniti, ormai divenuti protagonisti indiscussi