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L’OLP e il mondo arabo

Dopo essersi affermata presso il popolo palestinese, l’OLP concentrò il suo impegno per ottenere un appoggio esterno alla causa palestinese, per un sostegno finalizzato a conquistare la legittimità necessaria per essere riconosciuta come rappresentante del popolo palestinese in contesto internazionale. Questa intensa attività diplomatica fu destinata in primo luogo ai governi dei paesi arabi, inserita nel progetto più ampio di trovare una soluzione alla questione territoriale54, e al problema dei finanziamenti necessari per la lotta e per le attività di assistenza sociale. Tuttavia per l’OLP era di fondamentale importanza ottenere un riconoscimento pubblico, per poter partecipare ai tavoli delle negoziazioni diplomatiche, strumento che, fin dall’inizio, ha affiancato il metodo della lotta armata.

Nel cavalcare l’onda del forte sentimento di solidarietà della umma, presente sopratutto a livello popolare in molti paesi della regione, i dirigenti dell’OLP erano consapevoli del fatto che i governi arabi non avrebbero potuto rinunciare completamente a politiche di sostegno, anche solo finanziario o logistico, alla causa palestinese. I governanti della regione, ai tempi del panarabismo, avevano dichiarato che quella palestinese era una causa comune araba, un dovere religioso, anche se alcuni dei paesi, come Siria ed Egitto, avevano interessi che andavano ben oltre il sentimento panarabo. Si trattava di obiettivi individuali e specifici, di carattere nazionale, legati alla questione delle privazioni territoriali subite a causa del confronto con lo Stato di Israele, per cui

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Era necessario avere un territorio, possibilmente adiacente allo Stato di Israele, dove poter dislocare le proprie risorse militari e una rete di servizi.

l’impegno a fianco del popolo palestinese avrebbe potuto determinare anche un riscatto nazionale sul nemico israeliano da esibire come successo di fronte alle loro stesse popolazioni. Sarebbe interessante poter valutare quanto i governi arabi abbiano a loro volta sfruttato la retorica pro-palestinese per ragioni di politica interna, e quanto in alcune occasioni essi siano stati prigionieri di tale meccanismo, impossibilitati a seguire la loro volontà di orientarsi verso posizioni più pragmatiche55, o semplicemente a mettere in atto le aspirazioni di alcune parti delle loro popolazioni, disaffezionate alla causa palestinese.

La sconfitta del 1967 causò, come abbiamo visto, uno stravolgimento senza precedenti nella regione, e i paesi arabi reagirono in prima battuta riunendosi al Vertice di Khartoum, un summit che, caratterizzato da un notevole realismo politico, vide il mondo arabo fare i conti, per la prima volta esplicitamente, con la superiorità militare di Israele. Inevitabilmente l’appoggio alla causa palestinese in tale contesto subì un ridimensionamento: «Il panarabismo, che aveva infiammato il mondo arabo dal Nord Africa alla Mezzaluna Fertile, lasciò gradualmente il passo a rapporti fra Stati simili a quelli di altre regioni. L’appello di Nasser all’unità, rivolto ai popoli del Medio

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Edward Said si sofferma a tale proposito sulla natura dei movimenti arabi come il nasserismo, il ba’thismo, il movimento nazionalista arabo, il fondamentalismo islamico tradizionale o i partiti di sinistra che declinarono drammaticamente dopo la guerra del 1967. Per l’intellettuale palestinese la guerra dei Sei Giorni segnò la rovina dei movimenti nazionalisti arabi, e da quel momento storico essi non si sarebbero mai più ripresi, ma Said inserisce il loro declino entro le griglie interpretative del post-colonialismo: «(…) la maggior parte di quei movimenti era solo parzialmente in contatto con le realtà socio-politche e culturali a cui intendevano rivolgersi; per il resto erano ideologie prese in prestito da altre parti del mondo, e da differenti periodi della storia, senza essere state assorbite e sufficientemente rielaborate per poter giocare il ruolo loro assegnato», E. Said, op. cit., p. 205.

Oriente sopra la testa dei loro governi, venne così affievolendosi e i capi di Stato cercarono di affrontare i loro contrasti con i normali strumenti della diplomazia e del negoziato internazionale. Persino i dinosauri delle vecchie dinastie riacquistarono, in questa nuova fase, una legittimità nazionale. L’interesse dei governi arabi per l’OLP andò così scemando. Il nome di questa organizzazione non venne neppure menzionato nel comunicato finale del Vertice di Khartoum, durante il quale la Lega Araba pronunciò i suoi tre famosi no contro Israele: no ai negoziati, no al riconoscimento, no alla pace»56. Tutti gli Stati che parteciparono al vertice sudanese condivisero la preoccupazione e l’interesse di recuperare i loro territori perduti. Si delineava in questo modo una forte distanza tra gli interessi strategici degli Stati arabi, che aspiravano a ripristinare gli equilibri geopolitici e i confini precedenti al 1967, e l’obiettivo primario dell’OLP, che puntava alla costruzione di uno Stato indipendente attraverso la rimessa in discussione di tutti i confini precedentemente assestati a partire però dal 1948.

Alla fine degli anni Sessanta i governi arabi si concentrarono dunque più sulla difesa dei regimi esistenti e del principio di nazionalità che sulla comune causa panaraba, la quale cominciava a prendere la forma di un riferimento politico ideale a cui pagare un tributo scomodo, rispetto soprattutto alle proprie opinioni pubbliche57. Molti Stati arabi cominciarono a rendersi conto del costo finanziario che lo stato di guerra incessante contro Israele comportava, e si indirizzarono verso

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B. Kimmerling, J.S. Migdal, op. cit., p. 301. 57

W. Kazziha, Palestine in the Arab Dilemma, Barnes and Noble, New York, 1979, pp. 36-37.

un atteggiamento più favorevole a una contrattazione della pace che implicasse anche una cooperazione economica regionale58.

In linea con questa ridefinizione dei propri interessi, e soprattutto delle singole politiche economiche, a partire dall’inizio degli anni Settanta alcuni regimi arabi cominciarono a ricercare il sostegno degli Stati Uniti, causando forti difficoltà all’OLP. Furono quelli gli anni in cui i dirigenti dell’organizzazione palestinese, dopo l’espulsione dalla Giordania, rimisero in discussione i propri obiettivi politici, cercando di attenuare i dissapori interni dovuti al ricorso al terrorismo da parte delle fazioni più radicali, che compromettevano il favore dell’opinione pubblica internazionale. Nonostante ciò, e grazie anche a questo nuovo orientamento verso la strada della politica, l’OLP uscì vincente dalla crisi, fino ad ottenere il riconoscimento ufficiale dai paesi arabi nell’ottobre del 1974 al vertice della Lega Araba a Rabat, oltre a quello, un mese dopo, dell’Assemblea delle Nazioni Unite.

Molto probabilmente fu il successo di questi riconoscimenti, unito agli avvenimenti del Settembre Nero, e in seguito della guerra civile libanese, che spinsero l’OLP sempre di più verso una politica basata sulla concretezza e sul realismo: al XIII Consiglio Nazionale Palestinese, tenutosi nel 1977, l’OLP confermò l’obiettivo di una «(…) national, independent and fighting authority on every part of

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«Per molti Paesi arabi, comunque, il conflitto con Israele può diventare obsoleto da un punto di vista finanziario. La borghesia egiziana degli anni ‘70 non considera più l’esistenza dello Stato di Israele come una minaccia ai suoi interessi economici ma guarda piuttosto ai guadagni futuri che relazioni d’affari con Israele potrebbero comportare». Per questo la stessa borghesia egiziana non ha più interesse nel mantenere relazioni geopolitiche con l’URSS, preferendovi piuttosto lo sviluppo di legami e contatti con gli Stati Uniti: la politica di Anwar Sadat sarà espressione degli interessi di tale classe. W. Kazziha, op. cit., p. 87.

Palestinian land liberated»59. L’organizzazione guidata da Arafat sarebbe rimasta comunque inserita nel sistema delle relazioni interarabe, dipanandosi sempre tra il tentativo di mantenere un approccio indipendente della lotta palestinese e la necessità di assicurarsi alleati e protettori, tra gli Stati arabi, a sostegno della propria causa.

Con la Giordania di Re Hussein, Al-Fatah entrò in conflitto rivendicando la Cisgiordania come territorio autonomo palestinese, mentre la monarchia giordana la considerava a tutti gli effetti parte integrale del proprio regno. Sia Al-Fatah che la Giordania dopo il 1967 puntavano ad un riscatto e per questo si ritrovarono su posizioni comuni, ma gli obiettivi di fondo delle due parti rimasero comunque distanti. La monarchia hashemita avrebbe voluto recuperare i territori perduti nel conflitto in una forma negoziabile di autonomia: fu dunque contraria, almeno quanto Israele, all’idea della creazione di uno Stato autonomo palestinese ai suoi confini. Re Hussein era poi molto diffidente rispetto alla linea ideologica laica e democratica di Al- Fatah, e più in generale dell’OLP60. Un elemento che inquinò sempre le relazioni tra le due parti fu il timore di un colpo di stato da parte della consistente componente palestinese presente in Giordania: per il Re Hussein quella dell’OLP fu sempre una presenza scomoda,

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H. Cobban, op. cit., p. 85. 60

C’è da rilevare il paradosso di un paese come la Giordania, considerato moderato presso il mondo Occidentale, che mostrò tutta la sua riluttanza rispetto ai principi di laicità e democrazia proclamati dall’OLP. Laddove i palestinesi venivano considerati terroristi intransigenti presso l’opinione pubblica internazionale, la monarchia giordana, conservatrice nel contesto delle dinamiche politiche interne, godeva al contrario di una buona considerazione presso il cosiddetto “mondo libero”. A tale proposito, e più in generale su questo tipo di riflessioni, si rimanda nuovamente agli studi di Edward Said.

dannosa anche dal punto di vista dei possibili contatti con Israele; l’esito di queste preoccupazioni fu la repressione del Settembre Nero nel 1970. L’impatto principale di questa misura fu quello di amplificare la distanza, emotiva, organizzativa e fisica tra la dirigenza palestinese della diaspora e la composizione popolare dei Territori. Il rapporto con la Siria ba’thista fu legato a una gestione collegiale del potere almeno fino al colpo di stato del 1970 realizzato da Hafez Assad. Al contrario della Giordania, l’ideologia laica, nazionalista e socialista dominante in Siria, dove vigeva un regime arabo che si definiva “progressista”, indirizzato comunque al cambiamento politico e sociale, avrebbe potuto favorire una vicinanza con Al-Fatah. E in effetti, fino allo scoppio della guerra civile in Libano nel 1975, la Siria sostenne apertamente l’OLP, mostrandosi favorevole anche ad una sua indipendenza rispetto al mondo arabo, ma le evoluzioni interne al regime, unite ad una crescente volontà politica di potenza a livello regionale, compromise il rapporto di collaborazione fino ad arrivare allo scontro, non dichiarato ma palese. La Siria non aveva interesse a eliminare del tutto l’OLP, ma voleva circoscriverne la portata ed il raggio di azione per sottometterla ai suoi obiettivi strategici: per questa ragione assicurò all’OLP la sussistenza in una striscia territoriale nel sud del Libano, compresa tra Beirut ovest e la zona che si estendeva immediatamente a sud di Tiro, assicurandosi contemporaneamente sempre una presenza dominante nel paese. Nel 1977 la Siria fu protagonista del Fronte del Rifiuto contro il processo di pace separata tra Israele e l’Egitto, ritrovando su questo terreno, dopo la guerra civile libanese, l’affinità politica con l’OLP. Tuttavia,

al di là degli avvicinamenti storici e degli interessi comuni, le divergenze tra l’OLP e la Siria furono causate, e questo fu confermato anche in occasione del conflitto del 1982, dagli interessi che i due paesi avevano in Libano, oltre che, in seguito, dal problema dell’autonomia di un attore non statale e destabilizzante come l’OLP nel contesto regionale. Fu poi dalla Siria che provenne il sostegno per lo scontro interno all’OLP, scatenatosi in seguito alla guerra libanese del 1982, tra i gruppi di combattenti che si opposero alla leadership di Arafat: la Saiqa filosiriana, il Fronte Popolare guidato da Jibril e il colonnello di Al-Fatah Abu Musa sfidarono con la violenza le forze militari del dirigente dell’OLP. Queste fazioni contestavano la politica moderata e conciliatoria dell’OLP, oltre che la rinuncia dell’Organizzazione al rimpatrio dei palestinesi della diaspora che implicava l’accettazione di uno Stato indipendente nei territori di Gaza e Cisgiordania. Oltre alla Saiqa la Siria, insieme alla Libia, sostenne anche Abu Musa, giungendo ad espellere Yasser Arafat da Damasco, il quale fu costretto a riparare a Tunisi. Furono momenti duri per l’OLP, e la Siria contribuì senza scrupoli al tentativo di affondare le sorti dell’organizzazione e della sua leadership.

L’OLP si affiancò all’Egitto nella rivendicazione della Striscia di Gaza, conquistata da Israele nel conflitto del 1967, anche se, a differenza della Giordania, il regime egiziano non mostrò mai un attaccamento nazionale alla Striscia, né cercò mai di annetterla. L’interesse egiziano per la causa palestinese fu profondo, almeno fino al momento del declino del nazionalismo panarabo nasseriano dopo il conflitto dei Sei Giorni, dopo di che anche la “nobile” ideologia di

Nasser fu appannata dal ripiegamento sui propri interessi specifici nazionali. L’Egitto continuò comunque a farsi promotore dell’OLP, nonché sponsor del neonato movimento di Al-Fatah sulla scena internazionale, introducendo Arafat presso il regime dell’Unione Sovietica61.

Il problema che l’OLP ebbe con il regime egiziano fu di natura diversa rispetto agli altri Stati arabi della regione: il Cairo non fu contrario né all’esistenza né all’autonomia, sebbene parziale, dell’Organizzazione palestinese. Ma dopo l’era Nasser, sotto la guida del presidente Sadat, l’Egitto non approvò mai l’intransigenza palestinese rispetto alle condizioni della pace, né, all’indomani della guerra del Kippur nel 1973, la convinzione dell’OLP di poter protrarre un conflitto così poco vincente a livello militare contro Israele. Egitto ed OLP si sarebbero scontrati sopratutto sul terreno del realismo politico, nel contesto dell’interesse specifico egiziano a porre termine ad un conflitto che impediva al paese di crescere economicamente e di capovolgere l’orientamento delle sue alleanze internazionali. Solo dopo la rielaborazione del colpo di Camp David e della pace separata israelo-egiziana, dunque in seguito all’eliminazione di Sadat dalla scena, Egitto ed OLP tornarono a convergere sul terreno politico. E questo non avvenne perché l’Egitto, con il nuovo presidente Mubarak, cambiò la propria linea politica, ma perché negli anni Ottanta, oltre all’assunzione da parte dell’Egitto di posizioni più moderate, si sarebbero create le condizioni e l’interesse reciproco per il recupero di un dialogo, basato sulla preoccupazione egiziana di svincolarsi da uno

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stato di isolamento, e su quella palestinese di ripristinare i rapporti con uno Stato amico di grande importanza strategica, ed estraneo agli eventi della guerra in Libano.

I rapporti dell’OLP con il Libano rientrano invece in un sistema di relazioni molto più complesso: la storia libanese, caratterizzata da una divisione tra diverse comunità etnico-religiose che ha reso difficile una normale composizione nazionale, si è intrecciata con quella palestinese e questo ha provocato una miscela esplosiva, che ha reso ancora più complessa la frammentazione interna. La mancanza di un governo centrale solido, e la spinta dei paesi arabi che volevano per i palestinesi un territorio il più possibile neutrale, resero possibile la ratifica degli Accordi del Cairo del 1969, che, come abbiamo visto, garantivano ufficialmente la presenza dei palestinesi nel sud del paese. La portata rischiosa di questa intesa saltò immediatamente agli occhi dei libanesi, che dibatterono a lungo su di essa in sede parlamentare: «I dirigenti maroniti sostengono con ragione che è per le pressioni della comunità sunnita, detentrice della presidenza del Consiglio, che sono addivenuti a questa concessione esorbitante, dando agli Israeliani un pretesto legale per operazioni di rappresaglia. Infatti, cedere nel 1969 è stata una soluzione di comodo che ha soltanto ritardato le scadenze, aggravandole in maniera considerevole»62. Il peso di questi accordi gravò in seguito sull’equilibrio interno libanese e si aggiunse alle tensioni già presenti, contribuendo all’esplosione della guerra civile del 1975. L’OLP fu a tutti gli effetti protagonista della guerra civile in Libano, non solo come parte coinvolta, ma soprattutto come

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causa delle tensioni: senza la presenza palestinese la guerra civile non sarebbe stata la stessa e il Movimento Nazionale Libanese forse non avrebbe potuto condurre lo scontro con la Falange Maronita. L’OLP costituì un fattore di forte destabilizzazione anche in quanto componente straniera, a sua volta impegnata e rivolta verso un conflitto esterno con Israele, e dunque portatrice di problemi anche a livello internazionale. Il dilemma palestinese in Libano si dipanò tra una consistente presenza nel paese e la necessità di non perdere di vista i rapporti con le popolazioni locali: nel Sud del Libano l’OLP commise l’errore di non raggiungere un accordo con la popolazione locale a maggioranza sciita, che si organizzò nella milizia paramilitare di Amal63. Da questo errato calcolo degli interessi locali sciiti si sarebbe diffusa la convinzione, in tali popolazioni, che l’OLP intendesse costituire un proprio Stato nel sud del Paese, autonomo e totalmente distaccato dalla realtà locale, o, ancor peggio, che «l’OLP andasse costruendo un proprio Stato al prezzo della distruzione di un altro»64. L’esilio forzato dell’OLP nel 1982, dopo sette anni di lotte ininterrotte, non sarebbe stato infatti rimpianto nemmeno da quella stessa componente progressista che pure aveva appoggiato l’ingresso dei palestinesi in Libano, difendendo la loro legittimità in passato. Per quanto riguarda i paesi più lontani dal cuore geografico del conflitto mediorientale, c’è da dire innanzitutto che la loro adesione alla causa palestinese fu sopratutto retorica, e che essi furono coinvolti nel conflitto arabo-israeliano nella misura in cui ricercavano il

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W. Claiborne and J. Randal, Palestinians struggle to keep last redoubt, Washington Post, March 17, 1981.

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J. Randal, Obstacles Keep New Blood from PLO leadership, Washington Post, March 3, 1980.

consenso ai loro regimi, piuttosto che dal punto di vista del confronto militare e dell’impegno reale. La lontananza dalle zone di guerra li esonerò dallo scontro effettivo, sebbene essi si dichiararono sempre in lotta contro il sionismo e lo Stato di Israele. Questo fu il caso dell’Iraq, probabilmente il paese più coinvolto nel conflitto, sicuramente il più schierato contro “il nemico sionista”. Le relazioni tra l’OLP e l’Iraq, diventato dal 1979 uno Stato a regime dittatoriale guidato da Saddam Hussein, furono ottime, considerato il fatto che il paese della Mezzaluna Fertile fu un grande sostenitore della causa palestinese, tuttavia da queste amichevoli relazioni la lotta palestinese ricevette scarsi vantaggi. Utile appoggio presso le piattaforme internazionali, difensore della lotta contro Israele, l’Iraq fu troppo distante dall’Organizzazione palestinese sia dal punto di vista logistico sia da quello ideologico. Questo paese, come anche l’Iran a cui l’OLP avrebbe esplicitamente fatto riferimento come modello rivoluzionario dopo il successo della Rivoluzione islamica del 1979, costituì un supporto solo nel contesto arabo, senza portare vantaggi concreti alla lotta di liberazione palestinese. L’Iraq si mostrò poi sempre intransigente contro qualsiasi risoluzione negoziale del conflitto, anche quando la linea politica dell’OLP intraprese la strada della soluzione politica, e questo atteggiamento non costituì dunque un’eccezione rispetto alle altre relazioni interarabe dell’OLP: tutti erano disposti a riconoscere la legittimità dell’OLP, solo fino al momento in cui essa coincideva con gli interessi nazionali dei vari Stati. Altrimenti la sovranità dell’OLP veniva messa in discussione, e spesso subiva anche pesanti e violente ingerenze. In seguito

all’insediamento dell’OLP a Tunisi, l’Iraq ospitò alcuni centri di addestramento della lotta palestinese e fu questo fattore che creò definitivamente i presupposti per l’appoggio che Arafat offrì a Saddam Hussein in occasione dell’invasione del Kuwait. Va detto comunque che, dopo gli accordi di Camp David, il dittatore iracheno ridimensionò sensibilmente i toni polemici della propaganda irachena, almeno fino alla Guerra del Golfo, momento in cui la questione palestinese ritornò al centro della scena soprattutto nel contesto dell’opposizione di alcuni paesi arabi alla reazione dei paesi dell’Occidente. La risposta occidentale all’invasione del Kuwait fu commentata dal mondo arabo come esempio dell’incoerenza internazionale rispetto all’intervento delle forze multinazionali nei diversi conflitti: tutto il mondo arabo si chiese come mai l’intervento dell’Occidente sia arrivato tempestivamente e con vigore per il