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La rivelazione finale (atto quinto, vv 1156-1280).

Fedra, con ancora nella mano la spada di Ippolito, entra di nuovo in scena, per la finale rivelazione della verità, dopo la morte del giovane, seguita alla maledizione di Teseo e narrata interamente dal messo nel quarto atto107.

La donna dà inizio all’ultimo monologo pronunciato all’interno del dramma con una triplice anafora del pronome di prima persona me, prendendo dunque su di sé l’intera responsabilità degli avvenimenti, senza cercare scuse né attenuanti di sorta:

me me, profundi saeve dominator freti, invade et in me monstra caerulei maris emitte, quidquid intimo Tethys sinu extrema gestat, quidquid Oceanus vagis

complexus undis ultimo fluctu tegit (vv. 1159-1163).

All’assunzione della responsabilità personale di quanto avvenuto segue però immediata, durissima, l’accusa contro Teseo, il padre inflessibile, il cui ritorno ha causato ora la morte di Ippolito, così come, un tempo, quella del padre Egeo:

o dure Theseu semper, o numquam tuis tuto reverse: gnatus et genitor nece reditus tuos luere; pervertis domum

amore semper coniugum aut odio nocens (vv. 1164-1167).

Due sono nelle parole di Fedra le colpe imputate a Teseo, che lo rendono ugualmente funesto ai suoi: l’amore o l’odio nei confronti delle spose. E’ con questi sentimenti estremi che Teseo manda in rovina, sovvertendone l’ordine, la propria casa.

Alla fine di questa catena di atroci perversioni familiari, malignità e furori, la donna si rivolge a Ippolito, come se potesse vedere il volto del giovane sulla scena e guardare nei suoi occhi martoriati:

Hippolyte, tales intuor vultus tuos talesque feci ? […] (vv. 1168-1169).

In queste parole è contenuta tutta la desolazione di chi è costretto ad assistere passivamente ad uno spettacolo orrendo, con la consapevolezza però di averlo indirettamente provocato con il proprio comportamento ; l’assunzione di responsabilità da parte di Fedra è completa, ma dalle accuse rivolte a Teseo capiamo che la colpa è in qualche modo condivisa e che non ricade unicamente sulla donna adultera e incestuosa.

Ella non riesce a capacitarsi di quello strazio compiuto sul bel giovane e si chiede smarrita quale mostro mai può averlo perpetrato:

[…] membra quis saevus Sinis

aut quis Procrustes sparsit aut quis Cresius, Daedalea vasto claustra mugitu replens, taurus biformis ore cornigero ferox divulsit? […] (vv. 1169-1173).

Gli esseri crudeli citati sono Sini, Procruste e il Minotauro: tutti e tre uccisi da Teseo, sono immagini sintesi del destino di Teseo e Fedra che, unite, significano la compartecipazione dei due all’uccisione del giovane Ippolito.

Attonita, sconvolta, Fedra rivolge quindi una serie di domande all’uomo amato, come per convincersi della sua morte:

[…] heu me, quo tuus fugit decor

oculique nostrum sidus ? exanimis iaces ? (vv. 1173-1174). A questo punto, il dolore sembra assumere le forme di un delirio folle: Fedra, infatti, invita Ippolito a rimanere ancora per un po’ e ad ascoltare le sue parole:

ades parumper verbaque exaudi mea (v. 1175).

Parole che il giovane può udire perchè, questa volta, non sono turpi :

nil turpe loquimur […] (v. 1176).

La donna, infatti, ha intenzione di conficcarsi la spada nel petto, liberando così se stessa, contemporaneamente, dalla vita e dalla colpa:

[…] hac manu poenas tibi

solvam et nefando pectori ferrum inseram,

animaque Phaedram pariter ac scelere exuam (vv. 1176-1178). Prima del suicidio, impellente però è la necessità di stabilire attraverso le parole un ultimo contatto con quell’uomo così ardentemente desiderato, l’amore per il quale ha alla fine rovinato entrambi. Devastante, invincibile è la passione di questa donna così tragicamente elegiaca: ella, come in vita si era dichiarata disposta a seguire Ippolito attraverso i luoghi impervi sede della caccia, afferma ora la volontà di continuare a seguirlo, anche nella morte, lungo le paludi e i fiumi infuocati del Tartaro:

et te per undas perque Tartareos lacus,

per Styga, per amnes igneos amens sequar (vv. 1179-1180). Degna di nota è l’aderenza stilistica e sintattica dei versi appena riportati a quelli rivolti da Fedra a Ippolito nel momento culminante della confessione (cfr vv. 700-702), ad indicare un amore che persiste, dopo la piena travolgente del furor, anche nel momento della razionale, obiettiva assunzione di responsabilità e che continua, come prima, ad essere folle, sfrenato, amens.

Prima di compiere il suicidio, la regina offre al defunto la propria capigliatura:

placemus umbras: capitis exuvias cape

laceraeque frontis accipe abscisam comam (vv. 1181-1182) ; il gesto, a mio parere, è espressione della volontà di stabilire con l’uomo amato un contatto che, almeno oltre la vita, possa essere puro e pacifico.

Anche nella morte unico desiderio di Fedra è congiungere il proprio destino a quello dell’uomo amato:

non licuit animos iungere, at certe licet iunxisse fata […] (vv. 1183-1184).

La volontà di unirsi per sempre nella morte all’uomo amato rende il comportamento Fedra moralmente inaccettabile. Mentre la donna casta, quella che vive secondo il modello tradizionale, muore per il marito, ricavando anche da questo parte della sua castità e della lode che ne deriva, la donna adultera e incestuosa, quella che, abbandonati i valori di purezza e morigeratezza dei costumi, ha completamente sconvolto il modello matronale sancito dalla tradizione, muore per il suo amore, accettando per di più tale morte non in un pudico e vergognoso silenzio ma, significativamente, nella sofferta, e tuttavia decisa, proclamazione dell’assoluta invincibilità dell’amore che la causa:

[…] morere, si casta es, viro;

Secondo l’ottica del moralista romano tradizionale queste parole sono sicuramente sconvolgenti e tacciabili di negatività e follia, ma tuttavia vengono pronunciate, sono parole lacerate, sofferte, destinate a rimanere comunque nella mente del lettore/spettatore, anche di colui che ne dà un giudizio negativo.

La stessa Fedra sembra non sapersi decidere tra l’essere casta o incesta e riassestarsi su binari tradizionali nel momento in cui, dopo essersi più volte riferita al marito in termini dispregiativi, si chiede come potrebbe recarsi al letto nuziale dopo averlo insozzato con un tanto grande misfatto:

[…] coniugis thalamos petam

tanto impiatos facinore? hoc derat nefas,

ut vindicato sancta fruereris toro (vv. 1185-1187).

La morte è quindi invocata dalla donna come unico sollievo di un amore colpevole e decoro estremo di un pudore ferito:

o mors amoris una sedamen mali, o mors pudoris maximum laesi decus,

confugimus ad te : pande placatos sinus (vv. 1188-1190).

Mi pare di poter sottolineare come il pudor, concetto certamente non fondante nell’ottica e nelle parole della protagonista del dramma, venga richiamato qui come valore degno di tributo, che tuttavia nulla può togliere alla forza devastante della passione: mi sembra chiaro infatti per chi Fedra ha deciso di morire.

Fedra interrompe a questo punto il dialogo con Ippolito e con se stessa e, prima di darsi la morte, torna a rivolgersi agli interlocutori realmente presenti sulla scena, il popolo di Atene e, in seconda battuta, Teseo. A lui la donna rivolge parole durissime, significative della pesante parte di responsabilità che il padre, peggiore della matrigna apportatrice di morte, ha nella rovina del figlio:

audite, Athenae, tuque, funesta pater peior noverca […] (vv. 1191-1192).

Immediata arriva quindi, con parole severe e che nulla vogliono togliere alla responsabilità che lei stessa ha negli avvenimenti, la confessione del crimine:

[…] falsa memoravi et nefas,

quod ipsa demens pectore insano hauseram, mentita finxi […] (vv. 1192-1194).

In questi versi, Fedra non solo ammette la sua parte di colpa nell’uccisione di Ippolito, di aver architettato cioè una menzogna (falsa memoravi, mentita finxi) ai suoi danni, ma riconosce anche di aver concepito la passione incestuosa in uno stato di alterazione della mente (ipsa demens, pectore insano); la follia è dunque passata e ha lasciato il posto a una calma, lucida capacità di analisi degli eventi che prelude al suicidio.

Il discorso che Fedra rivolge quindi nuovamente a Teseo il quale, nonostante fosse pater e anzi proprio in qualità di pater, ha punito colpe inesistenti, è destinato a rimanere come tremenda accusa nella mente tanto dello spettatore/lettore quanto dell’interlocutore presente sulla scena, che, come vedremo, ne rimarrà profondamente scosso; le parole di Fedra servono anche a mettere in maggior risalto, contro la brutalità e la mancanza di giudizio del padre, la purezza e l’innocenza del figlio:

[…] vana punisti pater,

iuvenisque castus crimine incesto iacet, pudicos, insons- […] (vv. 1194-1196).

La figura di questo pater così violentemente irascibile e manchevole nella capacità di dare i giusti giudizi e le giuste punizioni resta inevitabilmente intaccata dalle parole dell’adultera morente.

Fedra, in un ultimo, delirante contatto comunicativo con l’uomo amato, invita quindi Ippolito a riprendersi la sua vera natura, la purezza e la castità così brutalmente dilaniate, prima di conficcare la giusta spada nel suo empio petto, rendendo il sangue da lei versato come sacrificio dovuto ad un eroe innocente:

[…] recipe iam mores tuos

mucrone pectus impium iusto patet

cruorque sancto solvit inferias viro (vv. 1197-1198).

Il dramma di Fedra e Ippolito, sostanziatosi esclusivamente di comunicazione lungo l’intero corso degli eventi, vive al termine della loro tragica vicenda, dopo la morte del giovane, il suo atto finale. L’ultimo monologo di Fedra è espressione di tale dramma e ne propone anche l’interpretazione conclusiva.

Ciò che ella ha fatto è stato concepire una passione incestuosa per il giovane figliastro e comunicargliela direttamente: in questo consiste la sua colpa, nonché l’origine dei mali che sono seguiti. La comunicazione, il contatto con l’uomo amato è stato dunque il desiderio di Fedra, inseguito e realizzato fino ai limiti dell’incesto.

La comunicazione diretta è iniziata con un abbraccio di Ippolito a sostegno della donna svenuta e si è protratta, lungo un crescendo di ambiguità e incomprensioni, fino al radicale rifiuto da parte del giovane dell’interlocutrice e alla conclusiva, irrevocabile disconferma: egli, infatti, astenendosi, pur di evitare il contatto e quindi il riconoscimento di colei che gli sta davanti, perfino dal vagheggiato omicidio, abbandona sul luogo la spada con cui ha sfiorato la donna e se ne torna, attonito e sconvolto, nelle selve, a chiudersi nel suo mondo autonomo, isolato e privo di interazione con l’esterno.

Tragicamente fallimentare è stata dunque la comunicazione tra i due, il cui buon esito già il contrasto dei loro interventi, la monodia di Ippolito e il monologo di Fedra, prefigurava come impossibile.

Fedra, tuttavia, folle d’amore anche al termine del dramma, a tragedia consumata e a riconoscimento di colpa avvenuto, continua a desiderare la comunicazione e il contatto con l’uomo amato ed è pronta a portare tale comunicazione, tale contatto, anche oltre la morte. Così, in un delirio che indica il persistere della passione, dopo aver accusato di quanto avvenuto se stessa e il marito, ella invoca Ippolito, comunica con il fantasma di lui come se lo avesse di fronte e potesse guardarlo negli occhi, addirittura gli chiede di rimanere e di ascoltare le sue parole, che non saranno turpi come quelle precedenti, perché sono le ultime esternazioni di una donna riconosciutasi colpevole e prossima al suicidio.

L’ultimo tentativo di comunicazione è accompagnato dall’ultimo tentativo di contatto gestuale e anche il gesto in questione è più puro dei precedenti, fatti da una donna folle che si getta alle ginocchia dell’amato e vorrebbe preludere ad un congiungimento dei destini riappacificati in una placida morte.

La disperata inutilità anche di questo tentativo di comunicazione e contatto finale risulta tuttavia evidente: Fedra sta infatti rivolgendo parole non più incestuose, e per questo degne stavolta di essere ascoltate, al fantasma di un defunto, che non la può udire, né le può rispondere, né può accettare la sua purificata offerta finale.

La delirante volontà di interazione con Ippolito si protrae fino al termine del dramma ed è ulteriormente frustrata dalla –stavolta ancor più radicale- impossibilità di vera comunicazione e contatto. Ippolito si è definitivamente chiuso, con la morte, nel suo isolato silenzio, dal quale non uscirà ora, come in vita per macchiarsi dell’immondo contatto con Fedra, per ascoltare le più pure parole di lei e accettare il suo sacrificio, né farà mai ritorno. Nonostante ciò, nonostante si sia placata la piena del furor e sia sopravvenuta la ragionevolezza, Fedra dichiara ancora il suo disperato desiderio di seguire l’amato, anche oltre la vita, anche attraverso le paludi del Tartaro, lo Stige, i fiumi infuocati. Perfino davanti al fantasma dell’uomo amato, perfino nella morte Fedra porta il suo disperato tentativo di comunicare con lui. L’eroina senecana mantiene così fino alla fine l’ethos, il carattere di amans/amens, perfino quando la comunicazione con Ippolito, da impossibile ad obliqua, contorta, ambigua, ha assunto infine, nella verità della rivelazione finale, carattere di paradosso.

I.6- La comunicazione mancata: il dialogo a distanza tra Teseo e