6. C OMPLICANZE IN CORSO DI CHIRURGICA COMBINATA
6.3 La sindrome da distress respiratorio acuto
La sindrome del distress respiratorio acuto (ARDS) è una malattia acuta grave del polmone, che di solito si manifesta in terapia intensiva (ICU). Può essere causata da numerosi fattori scatenanti, compresi la polmonite e il trauma. È caratterizzata da un danno diffuso della membrana alveolo‐capillare, che determina un edema polmonare non cardiogeno ed insufficienza respiratoria acuta (ARF). L’ARDS provoca una grave ipossiemia, che è refrattaria all’ossigeno‐terapia e necessita di ventilazione assistita. Questa sindrome rientra in un continuum[32,33] caratterizzato da insorgenza acuta,
presenza di infiltrati alla radiografia del torace e rapporto PaO2 / FiO2 inferiore a 300
L’ARDS può essere innescata da varie condizioni, distinte tra di loro, che portano a un percorso fisiopatologico comune. Gli eventi scatenanti possono essere raggruppati in due classi: condizioni dirette, “polmonari”, e indirette, “extrapolmonari”. Le cause dirette comprendono numerose condizioni che provocano danni al parenchima polmonare, come la polmonite o l’ab ingestis. Il danno indiretto più frequente è costituito dalla sepsi (che è una causa comune e altamente letale di ARDS), ma questo gruppo comprende anche la pancreatite acuta, l’overdose di certe sostanze (oppioidi e tiazidici), la coagulazione intravascolare disseminata e trasfusioni molteplici (Transfusion Related
Acute Lung Injury ‐ TRALI). Nonostante la varietà dei fattori scatenanti, l’ARDS che ne
risulta mostra nei suoi stadi più tradivi un aspetto clinico e anatomopatologico uniforme, anche se modi di esplicarsi e meccanismi possono essere variabili, in base alle caratteristiche degli eventi nocivi per i polmoni.
La fase acuta dell’ARDS è caratterizzata dal danno della barriera alveolo‐capillare, la cui distruzione ne aumenta la permeabilità. I leucociti si accumulano nei capillari polmonari e invadono gli spazi aerei. Le conseguenze comprendono la vasocostrizione infiammatoria, riduzione della compliance polmonare ed atelettasia, a causa della perdita dello strato di surfattante che in condizioni di normalità riduce la tensione superficiale dei fluidi che rivestono gli alveoli, e in questo modo li stabilizza. L’insufficienza respiratoria che ne consegue è peggiorata da gravi alterazioni del rapporto ventilazione/perfusione, che comprendono sia zone polmonari ove gli alveoli sono perfusi ma non ventilati (“shunt”), sia zone ove gli alveoli sono ventilati, ma non perfusi (“spazio morto”). Secondo i reperti istopatologici vengono evidenziate tre fasi durante l’evoluzione dell’ARDS:
1. essudativa, precoce, nella quale si evidenziano danni alveolari diffusi e lesione endoteliali;
2. proliferativa, che inizia circa 7 – 14 giorni dopo la lesione, caratterizzata dalla riparazione del danno alveolare e dal ripristino della funzione di barriera, insieme con la proliferazione di fibroblasti;
3. in alcuni pazienti segue la fase fibrotica, caratterizzata dall’infiammazione cronica e dalla fibrosi degli alveoli.
L’esordio è spesso sfumato, caratterizzato da tachipnea seguita acutamente da edema polmonare, ipossemia refrattaria (basso gradiente alveolare‐arterioso) e ipercapnia (aumento dello spazio morto alveolare) [32]. La diagnosi è fondamentalmente di esclusione
e viene ipotizzata solo quando non vi siano segni clinici o radiologici di una polmonite da aspirazione, di una polmonite infettiva, di uno scompenso cardiaco, di tromboembolia polmonare o di fistola broncopleurica.
L’edema polmonare post‐chirurgico, più frequente dopo pneumonectomia, può complicare anche la lobectomia e persino le resezione videotoracoscopiche (VATS), sebbene, in una percentuale di casi di gran lunga inferiore. Può verificarsi a distanza di 2 ‐ 3 giorni dalla procedura intervento chirurgico, con un’incidenza del 2,5 ‐ 5% dopo pneumonectomia ed inferiore all’1% dopo lobectomie o resezioni limitate. Il suo tasso di mortalità è estremamente alto, compreso fra 80 e 90%[32]. Una volta iniziato, il processo
può progredire con notevole rapidità ed in poche ore portare ad intubazione e ventilazione meccanica.
Nelle forme severe, l’edema post‐chirurgico si evidenzia radiologicamente con un quadro sovrapponibile a quello di un’ARDS. Nelle forme meno severe i segni radiografici sono meno evidenti, equivalenti a quelli di un edema idrostatico con aspetto sfumato dei vasi, cuffing peribronchiale e strie di Kerley di tipo B. In quest’ultimo caso, risolto l’edema, le alterazioni radiologiche descritte tendono a regredire in pochi giorni a dimostrazione del fatto che si tratta di un edema idrostatico senza danno alla barriera alveolo‐capillare. I meccanismi fisiopatologici alla base dello sviluppo dell’edema polmonare comprendono una complessa interazione fra cambiamenti fisiologici, anatomici, danno parenchimale diretto e predisposizione individuale del paziente. La causa scatenante è da attribuire all’improvviso sovraccarico di volume ed iperperfusione del parenchima residuo; fattori predisponenti sono rappresentati da un sovraccarico di liquidi nel perioperatorio, da elevato numero di trasfusioni di plasma, insorgenza di aritmie e dalla riduzione della pressione osmotica del siero. Studi recenti hanno dimostrato come cambiamenti nella permeabilità endoteliale a livello del parenchima polmonare residuo dopo resezione, associati a disprotidemia e rilascio di mediatori di danno ossidativo, siano presenti nella maggior parte dei pazienti con edema polmonare[32,33].
Anche la funzione polmonare preoperatoria può aumentare il rischio di edema polmonare post chirurgico, questo sembra infatti più frequente in pazienti con grave enfisema polmonare ed in soggetti anziani[32,33].
Nonostante si instauri una terapia adeguata, la mortalità associata ad edema polmonare post‐operatorio ed ARDS è molto elevata.
È facile comprendere come, in pazienti sottoposti a CPB, per i meccanismi fisiopatologici già descritti, le probabilità che queste complicanze si verifichino aumentano.
Accanto a questi scenari, va associata anche la possibilità che si verifichi un’insufficienza respiratoria acuta post‐cardiochirurgia. Descritta negli anni Cinquanta, come "pump lung" ed associata ad un alto tasso di mortalità, in prima istanza questa sindrome è stata correlata alla formazione microemboli durante il CPB, attualmente, secondo numerosi studi, la lesione polmonare acuta sarebbe mediata dall'attivazione del complemento[18].
Vi è infatti una relazione significativa tra durata del CPB, attivazione del complemento con aumento dei livelli circolanti di C3a e grado di disfunzione polmonare dopo CPB. In molti studi sperimentali, il complemento determina sequestro leucocitario a livello del parenchima polmonare con rilascio di Trombossano A2 che produce vasocostrizione polmonare ed ipertensione. C'è anche un aumento della permeabilità vascolare polmonare che conduce alla formazione di edema.
L’utilizzo di filtri nel circuito di perfusione previene la formazione di microemboli e riduce il numero di leucociti circolanti, limitando il danno da essi mediato[18].
Oltre al fatto che il parenchima polmonare rappresenta un bersaglio per la risposta infiammatoria sistemica durante e dopo CPB, che ne influenza anche l’attività metabolica, il collasso di polmoni durante il bypass cardiopolmonare determina la formazione di aree atelettasiche che possono persistere nel postoperatorio. L'atelettasia è la complicanza polmonare più comune dopo cardiochirurgia[18]. Molti pazienti sottoposti a procedure
chirurgiche cardiache ne sono predisposti a causa di una storia di fumo, bronchite cronica, obesità o presenza di edema polmonare. Inoltre, durante la procedura, molti aspetti tecnici possono contribuire alla formazione di zone atelettasiche, come ad esempio l’apertura delle pleure. Una volta che la cavità pleurica viene esposta, sangue e liquidi di lavaggio possono raccogliersi nello spazio e causare compressione del parenchima, va inoltre considerato che, una volta iniziato il CPB, il cuore poggia sul lobo inferiore sinistro e questa può essere una spiegazione per l’alta frequenza di atelettasia inferiore del LIS. L'aspirazione endotracheale durante la procedura può causare lesioni dirette alla mucosa, così come l’inibizione del surfattante, associato all’attivazione del complemento durante il CPB possono predisporre il paziente alla formazione di aree atelettasiche. Il grado di atelettasia varia da paziente a paziente, ma la capacità residua funzionale può diminuire fino al 20%[18]. Le alterazioni a carico della compliance polmonare, l’aumento delle
membrana alveolo‐ capillare sono destinate a durare diversi giorni dopo il CPB, e variano in risposta alle condizioni preoperatorie del paziente. Tutti questi aspetti portano, in definitiva, ad un aumento del lavoro respiratorio. In generale, non ci sono evidenze scientifiche che dimostrino quale sia la metodica chirurgica migliore per prevenire l’atelettasia post cardiochirurgia, anche se, molti autori ritengono che evitando l’ingresso nello spazio pleurico si possa migliorare notevolmente la compliance polmonare. Numerose strategie di gestione del ventilatore durante il CPB, inclusi la ventilazione a bassi flussi o l’insufflazione intermittente, hanno prodotto risultati conflittuali in relazione alla funzionalità polmonare pre‐ e post‐operatoria[32]. Dopo l'operazione, il trattamento
più efficace per prevenire l'atelettasia è, comunque sia, la ventilazione a pressione positiva che viene utilizzata nella maggior parte dei pazienti. 6.4 Complicanze cardiovascolari La chirurgia toracica, come la maggior parte delle chirurgia maggiori è stata classificata dall’American College of Cardiology e dall'American Heart Association come una chirurgia potenzialmente ad alto rischio per complicanze cardiovascolari[34]. Circa il 30% dei pazienti
sottoposti ad interventi cardiochirurghi e toracici svilupperà nel postoperatorio un’aritmia, di cui la più comune è il flutter / fibrillazione atriale[34]. L’insorgenza di queste
aritmie aumenta la morbilità, il tempo di degenza in terapia intensiva ed in ospedale, la mortalità complessiva postoperatoria, i costi di gestione del paziente ed in generale predispone a successivi ricoveri. La fibrillazione atriale di per se stessa aumenta il rischio di stroke ed embolia cardiogena[34]. I meccanismi sottostanti allo sviluppo di questa
complicanza non sono del tutto chiari, l’età superiore a 60 anni, un’anamnesi positiva per precedenti episodi di aritmia, cardiopatia e patologia vascolare periferica, sembrano essere, in numerosi studi, i principali fattori predisponenti[34]. È logico presuppore che un
paziente cardiochirugico, già di per se stesso compromesso dal punto di vista cardiologico, spesso con anamnesi positiva per pregresse aritmie, è maggiormente predisposto a svilupparne una nel postoperatorio. A questo deve associarsi il rischio relativo dovuto alle alterazioni elettrolitiche, all’insulto meccanico a carico dell’atrio destro, trigger per eccellenza delle aritmie sopraventricolari, ed eventuali danni iatrogeni effettuati durante la procedura.
Un’altra possibile complicanza dopo chirurgia toracica è l’ischemia miocardica, che, normalmente, si sviluppa in una percentuale di pazienti molto bassa, compresa fra l’1,2
ed il 3,8%[34], con tassi di mortalità variabili dal 2 al 21%. Anche in questo caso la chirurgia
cardiaca, spesso trattamento di scelta in caso di stenosi emodinamiche a carico delle coronarie, aumenta, paradossalmente, il rischio di ischemia miocardica nel post‐ operatorio in caso di procedure combinate. Questo fenomeno è legato ad una cattiva protezione miocardica, allo stato critico del paziente e, nel caso di un paziente coronaropatico, predispone a un nuovo episodio ischemico con tassi di mortalità decisamente stimati fra il 32 ed il 70%.
Tra le complicanze cardiovascolari bisogna annoverare inoltre il tromboembolismo venoso (TEV). Solo un prospettivo studio non randomizzato[34] ha determinato la
frequenza e l’impatto del TEV dopo resezione polmonare. È una complicanza grave e potenzialmente mortale con un’incidenza complessiva che si aggira intorno al 20% dei casi. La trombosi venosa profonda e l’embolia polmonare che può conseguirne sono complicanze tipiche del postoperatorio[34], con un rischio più elevato nelle procedure
estese[34]. In questo caso una procedura cardiochirurgica che preveda nel perioperatorio
l’imbricazione del paziente con anticoagulanti, come ad esempio nelle sostituzioni valvolari o in pazienti affetti da FA cronica, riduce il rischio di TEV.
6.5 Complicanze dirette del CPB su altri apparati