Tesi di Specializzazione
Scuola di Specializzazione in Chirurgia Toracica
Università degli studi di Pisa
L
E RESEZIONI POLMONARI ATIPICHE
IN CORSO DI PROCEDURA
CARDIOCHIRURGICA
:
NOSTRA ESPERIENZA
Relatore
Chir.mo Prof. P. Paladini
Candidato
Dott. Giulio Tommasino
Anno Accademico 2015‐2016
Indice
1. INTRODUZIONE 1 2. CENNI STORICI 2 2.1. Il diciannovesimo secolo 2 2.2. Dal Primo Conflitto Mondiale agli anni ’30 4 2.3. Dagli anni ’30 agli anni ’50 ed il Secondo Conflitto Mondiale 5 2.4. Gli anni ‘50 e ’60 6 2.5. Dagli anni ‘70 agli anni ’90 7 2.6. Storia recente 8 3. PRINCIPI GENERALI DELLA CIRCOLAZIONE EXTRACORPOREA 9 3.1. Possibili modalità applicative 9 3.2. Cannule 10 3.3. Reservoir 11 3.4. Ossigenatore 11 3.5. Scambiatori di calore 13 3.6. Filtri 13 3.7. Pompe 14 3.8. Aspiratori 15 3.9. VENT 15 3.10. Cardioplegia 16 3.11. Eparinizzazione sistemica 18 3.12. Emodiluizione 18 4. LA RISPOSTA SISTEMICA AL BYPASS CARDIOPOLMONARE 20 4.1. Conseguenze dell'interfaccia del sangue 20 4.2. Il Complemento 20 4.3. Le conseguenze metaboliche del CPB 21 4.4. Conseguenze dell'ipotermia 23 4.5. Altri cambiamenti sierici 24 5. TECNICA CHIRURGICA 25 5.1. Nodulo polmonare 26 5.2. Indicazioni alla exeresi chirurgica 27 5.3. La resezione polmonare atipica 28 6. COMPLICANZE IN CORSO DI CHIRURGICA COMBINATA 31 6.1. Sanguinamento 31 6.2. CPB e sanguinamento 32 6.3. La sindrome da distress respiratorio acuto 336.4. Complicanze cardiovascolari 37 6.5. Complicanze dirette del CPB su altri apparati 38 6.5.1. Effetti renali del bypass cardiopolmonare 38 6.5.2. Effetti neurologici del CPB 39 6.6. Complicanze specifiche delle resezioni polmonari 40 6.6.1. Perdite aeree 40 6.6.2. Empiema 41 6.6.3. Altre complicanze 42 7. OBIETTIVI 43 8. MATERIALI E METODI 43 9. RISULTATI 43 10. DISCUSSIONE 48 11. CONCLUSIONI 53 12. BIBLIOGRAFIA 54
1. I
NTRODUZIONEIl cancro al polmone è il cancro più diffuso in tutto il mondo, con tassi di incidenza che continuano ad aumentare nei paesi in via di sviluppo[1]. Molti dei suoi fattori
predisponenti sono comuni ad alcune cardiopatie. Un’evenienza infrequente, ma che sempre più spesso si affaccia sullo scenario chirurgico, è la diagnosi contemporanea nello stesso individuo di una neoplasia polmonare e di una cardiopatia. Un paziente affetto da due patologie in grado di influenzare negativamente l’outcome a breve ed a lungo termine rappresenta un problema di difficile gestione. La diagnosi è per lo più occasionale, in alcuni casi la patologia cardiaca emerge in corso di esami effettuati in vista di una resezione polmonare, altre volte, un nodulo polmonare viene identificato con una radiografia del torace, eseguita di routine prima di una procedura cardiochirurgica[1].
In entrambi i casi si pone il problema di quale sia la strategia terapeutica più opportuna da scegliere. Le controversie relative alla gestione ottimale di questi pazienti ruotano per lo più attorno al timing delle procedure, vale a dire se le operazioni devono essere eseguite contemporaneamente o separatamente.
Alcuni autori, alla luce di un rischio perioperatorio aumentato, sia sul fronte della morbilità miocardica che respiratoria, preferiscono effettuare due procedure separate[1].
In molti centri, invece, la procedura combinata viene adottata di frequente, ma di rado essa rappresenta un case report degno di nota e, la mancanza di dati e risultati univoci in letteratura, permette che ancora non vi sia un comune accordo sulla strategia migliore da adottare.
Definire con precisione i limiti di un approccio chirurgico combinato, comprenderne la necessità, stabilire la strategia terapeutica migliore per il paziente riducendo i rischi e massimizzando i risultati, rappresentano un sfida per il chirurgo toracico. Sfida che, con l’aumentare della vita media e delle patologie concomitanti, sempre più spesso si troverà ad affrontare.
2. C
ENNI STORICIL'uomo si è ingegnato per migliorare le proprie condizioni di salute a costo di dolorose e pericolose operazioni chirurgiche fin dall’alba dei tempi. Le prime tracce di procedure chirurgiche sull’uomo risalgono al Neolitico, ma possiamo senza dubbio affermare che la chirurgia (dal greco “”, letteralmente “lavoro delle mani”), esista, in effetti, da poco più di due secoli. Prima del 1800, infatti, non vi era alcuna regola o procedimento scientifico degno di questo nome che regolasse gli “interventi” dell'uomo sull'uomo. Gli stessi medici erano una sorta di ibrido fra "stregoni" e “dotti” dell’epoca, che, autonominatisi chirurghi, effettuavano operazioni sui generis improvvisando metodiche discutibili, sulla base di conoscenze anatomiche e fisiologiche del tutto scarse.
Nonostante questo, l’evoluzione della medicina, e della scienza in generale, hanno permesso di effettuare importanti conquiste che ci hanno pian piano condotto alla chirurgia come la conosciamo oggi.
Il trattamento dei traumi e l’evacuazione di ferite infette rappresentano i primi passi della chirurgia toracica, di cui si trova documentazione già dal 2900 a.C. nel papiro chirurgico ritrovato da Edwin Smith, col tempo si svilupparono i trattamenti dell’empiema e dei traumi penetranti[2,3].
Le prime procedure su vasi arteriosi e venosi sono databili intorno al 1500, ma i chirurghi saranno in possesso degli strumenti necessari per compiere operazioni sul cuore, solo a partire dal primo decennio del Novecento.
Anche se molte intuizioni, che non si può esitare a definire geniali, sul funzionamento delle valvole cardiache, sulla ventilazione e sulle infezioni polmonari possono essere fatte risalire al 1400 o addirittura a molti secoli prima, è solo grazie allo sviluppo delle tecnologie in ambito diagnostico, anestesiologico e farmacologico che è stato possibile effettuare interventi chirurgici sull’apparato cardiocircolatorio e su quello respiratorio. Possiamo pertanto affermare che, per quel che concerne la chirurgia toracica, siano stati effettuati reali progressi solo a partire dalla fine del 1800.
2.1 Il diciannovesimo secolo
Senza alcun dubbio la storia della moderna chirurgia toracica è strettamente legata a quella della terapia della tubercolosi polmonare cavitaria, in particolare dal momento in cui, secondo la concezione fisiomeccanica di Carlo Forlanini, lo pneumotorace venne utilizzato come trattamento inteso a sottrarre dall'incessante "trauma respiratorio" la
lesione tubercolare. Tra la fine dell’ottocento ed i primi del novecento Brauer e Friedrich, in risposta all’empiema toracico post tubercolotico, effettuarono la prima "pleuro‐ pneumolisi totale con toraco‐plastica", procedura che prevede ampie resezioni costali estese a quasi tutta la parete laterale di un emitorace. In quel periodo vennero sviluppate diverse tecniche di toracoplastica che, sottoposte a continuo perfezionamento tecnico, costituirono anche in epoca antibiotica, l'intervento chirurgico di maggiore interesse, con larga applicazione e discreti risultati. Contemporaneamente a questi interventi demolitivi vennero eseguite le prime resezioni con successo dell’apice polmonare per la terapia della tubercolosi. Nel 1866 Sir Francis Richard Cruise effettuò la prima toracoscopia sull’uomo[4,5]. Il toracoscopio venne successivamente perfezionato con l’utilizzo delle
lampade ad incandescenza miniaturizzate, realizzate da Thomas Edison. La scoperta di Roetgen dei Raggi X nel 1895 fu un momento storico cruciale per la diagnostica, da questo momento in poi, le possibilità offerte dalla radiologia saranno innumerevoli e libereranno per sempre il medico dal vincolo del semplice esame clinico. Nel 1898, Murphy individuò i principali problemi polmonari suscettibili di intervento chirurgico come la bronchiectasia suppurativa, l’empiema, l’ascesso polmonare e la tubercolosi. Come è facile notare, le patologie più frequenti riconoscevano una chiara etiologia infettiva, il cancro al polmone era ancora piuttosto raro.
In ambito cardiochirurgico non si è assistito a miglioramenti tecnici fino a metà del 1900, prima di allora il cuore era considerato una sorta di muro invalicabile per il chirurgo, qualcosa che madre natura aveva voluto porre al di là delle possibilità umane. Basti pensare all’affermazione di Billroth nel 1881[6], il grande chirurgo austriaco che dichiarò:
"Il chirurgo che tenterà di suturare una ferita al cuore perderà il rispetto dei suoi colleghi". Nonostante questo, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, alcuni pionieri come Astley Cooper e Ludwig Rehn diedero importanti contributi al progresso della chirurgia in ambito vascolare e cardiaco. È proprio negli ultimi anni del diciannovesimo secolo che si ha documentazione dei primi interventi chirurgici al cuore. La risonanza che essi ebbero, come è facile immaginare, fu enorme.
La prima operazione cardiaca della storia fu effettuata il 4 settembre 1895 nell'ospedale dell'odierna Oslo, in Norvegia, dal chirurgo Axel Cappelen che suturò una ferita al ventricolo destro di un giovane paziente ventiquattrenne[6]. Tuttavia, poiché il ragazzo
morì subito dopo l'intervento a causa di un'infezione, si considera la vera nascita della disciplina il 9 settembre 1896, giorno in cui il professor Ludwig Rehn decise di operare
d'urgenza un ragazzo con una profonda ferita al torace. Rehn, dopo aver inciso la parete toracica, espose il pericardio e applicò tre punti di sutura sulla lacerazione, bloccando il copioso sanguinamento. Chiuse, infine, l'incisione toracica permettendo al paziente, dopo un periodo di riposo, di tornare ad una vita normale[6].
Agli inizi del ventesimo secolo, la chirurgia toracica era ormai in evoluzione mentre la chirurgia cardiaca era ancora in fasce. Murphy, Meyers, Robinson e altri avviarono la sperimentazione animale per esplorare tecniche di resezione polmonare. Questi uomini affrontarono numerosi problemi, scontrandosi con le diffidenze dell’epoca, superando difficoltà tecniche e scientifiche, permettendo infine notevoli progressi nella comprensione dell'anestesia, della fisiopatologia cardiopolmonare e degli antibiotici.
2.2 Dal Primo Conflitto Mondiale agli anni ‘30
Nonostante la tragica perdita di vite umane, la guerra ha tradizionalmente contribuito ad importanti passi avanti nella chirurgia. Infatti, i traumi ed i fenomeni infettivi della parete toracica, nel periodo a cavallo della prima guerra mondiale, hanno permesso il perfezionamento degli accessi toracici ed hanno migliorato la comprensione della fisiologia e della meccanica respiratoria. Ed è così che patologie come l’empiema, l’ascesso polmonare e le bronchiectasie, estremamente gravi, con una mortalità compresa fra il 30 ed il 70%, hanno permesso il miglioramento delle tecniche chirurgiche. Sulla base degli studi di questo periodo furono sviluppati nuovi sistemi di drenaggio toracico e venne migliorata la comprensione della fisiologia respiratoria.
L’evoluzione della cardiochirurgia, a sua volta, vede in questo periodo l’ascesa di Alexis Carrel, premio Nobel per la medicina nel 1913, il quale, oltre ad aver effettuato le prime suture vascolari, con l’aiuto di Charles Lindbergh, progettò e riuscì a costruire la prima pompa di perfusione[6,7].
Negli anni successivi al conflitto, la chirurgia del torace divenne cosa ordinaria, incentrandosi, comunque sia, nel trattamento delle infezioni. Il primo intervento riuscito di pneumectomia per carcinoma del polmone venne effettuato nel 1933[6]. Il carcinoma
del polmone era poco comune prima della diffusione del tabagismo ed a fine ottocento non era considerato un'entità patologica degna di nota[6]. Anche se differenti aspetti
istologici delle neoplasie polmonari erano già noti agli inizi del 1800, esse costituivano solo l'1% delle patologie osservate in corso di autopsia. È doveroso ricordare che la connessione fra il carcinoma del polmone e l’esposizione al Radon, era nota già dal 1870,
anno in cui tra i minatori delle riserve metallifere intorno a Schneeberg, si svilupparono una quantità sproporzionata di affezioni polmonari, ricondotte nel 1870 ai poliedrici quadri clinici sostenuti dalle neoplasie polmonari. È stato stimato che circa il 75% di questi minatori morirono per carcinoma del polmone[6]. La percentuale di neoplasie maligne del polmone sarà destinata a salire fino al 10‐15% nella prima metà del 1900[6]. I dati riportati nella letteratura medica, derivati dai referti autoptici, riferiscono un aumento dell’incidenza dallo 0,3% al 5,66% in poco meno di un secolo.
In Germania, nel 1929, il medico Fritz Lickint riconobbe la connessione tra il fumo di sigaretta e il carcinoma del polmone, evento che portò a un'imponente campagna anti‐ fumo nella Germania nazista[6].
Le conoscenze acquisite grazie alla chirurgia demolitiva per il trattamento della tubercolosi hanno fatto sì che i primi accessi al polmone fossero tutti basati su un’incisione postero‐laterale, ma negli anni Trenta si svilupparono man mano anche gli altri accessi chirurgici come oggi li conosciamo. Gli sforzi furono concentrati sul controllo del bronco come primo passo nella tecnica della resezione polmonare, ma bisognerà attendere quasi 30 anni per poter utilizzare un tubo endotracheale a doppio lume. Nel 1933 Churchill fu il primo a seguire con successo una lobectomia secondo Davies per neoplasia polmonare, nello stesso anno Graham e Singer eseguirono la prima pneumonetomia con clampaggio ilare. In questo periodo Crafoord descrisse diverse tecniche di approccio all’ilo polmonare compresa la resezione pericardica per l’accesso intrapericardico ai vasi polmonari[6].
2.3 Dagli anni ’30 agli anni ’50 ed il Secondo Conflitto Mondiale
Negli anni trenta e quaranta, nonostante la toracoscopia fosse ancora una metodica subordinata al trattamento della tubercolosi cavitaria, alcuni autori iniziarono ad apprezzarne le possibilità diagnostiche.
La scoperta e lo sviluppo degli antibiotici durante la Seconda Guerra Mondiale, così come i progressi in anestesiologia e nella comprensione della fisiologia della respirazione, divennero il fulcro di numerose ricerche, permettendo di ridurre notevolmente la morbidità e la mortalità delle procedure chirurgiche. Propedeutiche allo sviluppo della chirurgia cardiaca e toracica, così come oggi le conosciamo, furono le scoperte dei quattro gruppi sanguigni da parte del patologo viennese Karl Landsteiner, Premio Nobel per la
medicina del 1930[6]. Le tecniche trasfusionali conobbero un nuovo sviluppo quando
furono scoperti i metodi di conservazione del sangue, attraverso l'utilizzo di citrato di sodio e glucosio. Queste osservazioni furono messe in pratica massivamente dal medico dell'esercito statunitense, Oswald Robertson. Da questo momento, nacquero le prime banche del sangue negli USA, nell'Unione Sovietica e in Gran Bretagna.
Negli anni del dopoguerra, un ulteriore contributo fu dato dagli statunitensi Denton Cooley e Michael E. DeBakey, prima con la progettazione e costruzione del clamp, strumento indispensabile per il trattamento chirurgico delle patologie vascolari, ed in generale per eseguire suture sui vasi sanguigni, e successivamente con l'utilizzo di omoinnesti per il trattamento della patologia aneurismatica[6‐8]. Nello stesso periodo Carlens sviluppò il primo tubo endotracheale a doppio lume, cosa che cambiò radicalmente le tecniche di resezione polmonare[6]. 2.4 Gli anni ‘50 e ‘60 Il British Doctors Study, uno studio iniziatosi negli anni cinquanta, costituì la prima solida evidenza epidemiologica della connessione tra il fumo e il carcinoma del polmone[6]. Come risultato, nel 1964, il chirurgo generale degli Stati Uniti raccomandò a tutti i fumatori di interrompere l'abitudine al fumo. Intanto, la chirurgia toracica compiva passi da gigante, perfezionando le tecniche di lobectomia.
La fase primordiale della cardiochirurgia si conclude con l'invenzione della macchina cuore‐polmone, vera svolta in quest’ambito, in quanto consente sia di isolare il cuore durante le operazioni più complesse, rendendolo esangue e immobile, sia di mantenere in vita il paziente e gli organi vitali, favorendo l’ossigenazione ed il ricambio del sangue. Fu l’intuizione geniale di John Gibbon che cambiò radicalmente la concezione della chirurgia cardiaca[9‐11]. Egli era convinto che il problema principale per riuscire a sostituire
artificialmente la circolazione del sangue durante un intervento chirurgico a cuore fermo sarebbe stato quello di vicariare la funzione polmonare piuttosto che quella della pompa cardiaca[11]. Giorno dopo giorno i prototipi del sistema “pompa‐ossigenatore”
diventavano più efficienti, fino a quando non si riuscì ad ottenere negli animali da laboratorio una circolazione extracorporea completa, mantenendo una pressione sanguigna costante. La macchina dunque funzionava ma bisognava costruirne una adatta all'uomo e bisognerà attendere il 6 maggio 1953 per poterne vedere una in funzione che permise di portare a termine con successo un intervento a cuore aperto. A quel punto
però John Gibbon, dopo un lavoro durato quasi vent'anni, decise di non operare più e di lasciare lo sviluppo ulteriore della sua macchina ai colleghi più giovani. Fu, in effetti, John Kirklin della Mayo Clinic a perfezionare la macchina di Gibbon, con la collaborazione di quest'ultimo[8]. La chirurgia dell'aorta si perfezionò di pari passo con l’evoluzione della circolazione extra‐ corporea, che consentì di correggere le patologie con maggiori probabilità di successo. Cooley, resosi conto che era diventato ormai indispensabile affrontare il problema della chirurgia a cuore aperto[10], perfezionò la macchina cuore‐polmone, introdusse il concetto dell’emodiluizione e migliorò le tecniche chirurgiche permettendo procedure impensabili fino a pochi anni prima. Gli anni cinquanta segnarono anche l'inizio dell'era dei trapianti. Hardy ei colleghi hanno eseguito il primo trapianto di polmone umano nel 1963[6]. L'idea di trapiantare il cuore, invece, venne da un giovane chirurgo sudafricano, Christiaan Barnard, che, a partire dai primi anni sessanta cominciò le sperimentazioni sugli animali che gli permisero di realizzare, il 3 dicembre 1967, il primo trapianto di cuore nell'uomo[10]. 2.5 Dagli anni ‘70 agli anni ‘90 Negli anni immediatamente successivi, le ricerche si concentrarono sulla realizzazione di un sistema di assistenza che permettesse un sostegno temporaneo al cuore nei casi di insufficienza cardiaca acuta. Negli anni ‘70 si giunse alla progettazione e produzione dei primi sistemi ECMO. Nello stesso periodo, inoltre, vari laboratori avevano tentato l'impianto di diversi modelli di cuore artificiale negli animali, con risultati di sopravvivenza sempre migliori. La scoperta nel 1978 della Ciclosporina sarà una pietra miliare nell’avanzamento tecnico dei trapianti, specialmente nel trapianto di polmone, che dopo un inizio scoraggiante, andrà incontro a continui miglioramenti, sia in ambito tecnico che in termini di outcome.
Nel 1981, a Salt Lake City, l'équipe del medico olandese Willem Johan Kolff era riuscita a tenere in vita per più di nove mesi un vitello con un cuore di plastica ed era stata autorizzata dalla FDA a tentare un nuovo “primo impianto” su di un essere umano. Fu così che nel 1982 Kolff impiantò il Jarvik‐7 in un uomo di 61 anni affetto da una cardiopatia in fase terminale[10]. Sempre nel 1981, Reitz e collaboratori a Stanford hanno eseguito un
insufficienza cardiaca destra[11]. Il gruppo di Toronto nel anni Ottanta iniziò ad effettuare
trapianti di polmone singolo e polmone doppio, anche se con risultati altalenanti.
Sull’onda del successo della videolaparoscopia, tecnica introdotta alla fine degli anni ’80, prende gradualmente corpo un nuovo tipo di indagine toracoscopica, a valenza essenzialmente chirurgica.
Il passaggio dalla toracoscopia medica, eminentemente diagnostica, alla toracoscopia chirurgica di impronta operativa vera e propria avviene infatti agli inizi degli anni ’90: connettendo il toracoscopio ad un supporto video le fasi dell’intervento vengono seguite sul monitor, permettendo la partecipazione ed il coinvolgimento dell’intera equipe chirurgica. Con l’indispensabile supporto della tecnologia, come le videocamere miniaturizzate, le ottiche di diametro subcentimetrico, la strumentazione dedicata ed innovativa (rappresentata soprattutto dalle suturatrici meccaniche endoscopiche) la metodica si perfeziona ulteriormente in pochi anni, consentendo l’esecuzione di interventi anche complessi. È questo il periodo storico in cui la vecchia toracoscopia cede di diritto il passo alla videotoracoscopia.
2.6 Storia recente
L’evoluzione della specie ci ha insegnato che in natura sopravvive chi si adatta all’ambiente che lo circonda. È questo probabilmente il fulcro della chirurgia, branca della medicina che si è sempre adattata ai bisogni dell’epoca. Dalla terapia delle infezioni a quella del cancro, dalla terapia delle ferite vascolari a quella degli aneurismi aortici, sono centinaia gli esempi che si potrebbero fare. Sono state le continue ricerche e lo sviluppo tecnologico a portarci dove siamo oggi ed a permettere procedure chirurgiche del tutto inimmaginabili nel 1800. Esempi che dovrebbero far riflettere sono l’Ex‐vivo Lung Perfusion, metodica utilizzata per la prima volta da Steen nel 2001[12], oppure la realtà
odierna dei cuori artificiali e delle nuove valvole suture‐less, per non parlare della chirurgia robotica. La storia della cardiochirurgia e della chirurgia toracica non è ancora finita e chissà quali nuove scoperte, approcci e tecniche ci riserva il futuro.
3. P
RINCIPI GENERALI DELLA CIRCOLAZIONE EXTRACORPOREAPoiché il sistema della circolazione extracorporea (CEC) sostituisce, per un periodo più o meno lungo, le funzioni del cuore e dei polmoni mediante mezzi meccanici, la metodica deve essere in grado di perfondere e di nutrire tutti i distretti con una circolazione adeguata di sangue che deve essere artificialmente ossigenato. Ulteriori necessità sono rappresentate dal provocare il minor danno possibile agli elementi figurati e non figurati dal sangue ed il rispetto delle normali funzioni metaboliche dell’organismo[13].
Nella pratica clinica, nonostante i numerosi progressi tecnici compiuti negli anni, le condizioni che si instaurano in un organismo artificialmente perfuso in corso di CEC non sono identificabili con quelle fisiologiche, a causa del sistema meccanico di propulsione del sangue e a causa della procedura di ossigenazione artificiale della componente ematica.
3.1 Possibili modalità applicative
Si può definire la CEC in base alle seguenti modalità.
CEC Completa: qualsiasi circolazione extracorporea in cui vengano sostituite contemporaneamente sia la funzione biologica di pompa cardiaca che la funzione respiratoria, con la contemporanea presenza di tutte le componenti del circuito CEC (aspiratori, cardioplegia, controllo della temperatura, ecc.)
CEC Parziale: qualsiasi circolazione extracorporea in cui venga sostituita solamente la funzione di pompa svolta dal cuore, lasciando integra la funzione polmonare.
La condotta di una CEC completa, con circuito standard, necessita di un complesso sistema schematicamente suddivisibile come segue.
Un apparato principale: costituito dall’insieme di cannula di outflow, reservoir, ossigenatore, scambiatore di calore, filtri, pompa e cannula di inflow; queste componenti rappresentano nell’insieme il circuito vero e proprio. Un apparato secondario: comprende l’insieme delle linee o dei sistemi necessari ad aspirare il sangue dal campo operatorio o dalle cavità cardiache. Un sistema di gestione della cardioplegia. Un insieme di apparecchiature di supporto: della natura svariata seconda delle tecniche di applicare o delle patologie da affrontare.
La macchina cuore‐polmone e le varie metodiche di circolazione extra‐corporea sono gestite dal tecnico perfusionista.
3.2 Cannule
Le cannule utilizzate in circolazione extracorporea, sono tubi in materiale polimerico. Sono progettate in modo da far circolare il sangue con il minimo grado di turbolenza e devono anche essere sufficientemente robuste per evitare che si pieghino o collabiscano ma, allo stesso tempo, devono essere flessibili per essere maneggiate facilmente.
Per poter condurre una circolazione extracorporea è necessario disporre di due accessi al paziente per poter prelevare il volume necessario di sangue e poterlo restituire, dopo averne eventualmente modificato le caratteristiche biologiche. In generale si dovrà disporre di una linea per il prelievo di sangue venoso e di una linea per l’immissione di sangue arterializzato. La cannula di outflow, o linea venosa, permette il drenaggio di sangue dall’atrio destro. A seconda del tipo di intervento cardiaco programmato, la cannulazione venosa può essere eseguita attraverso le vene cave oppure attraverso l’atrio destro[13,14]. Le cannule venose sono normalmente costruite con materiali plastici di varia natura, con calibri e geometrie differenti, con strutture particolari per garantire flessibilità e massima resistenza allo schiacciamento. La punta è conformata o angolata per derivare funzioni variabili a seconda dell’uso e del sito di cannulazione, utilizzando materiali plastici o più resistenti come il metallo. Le dimensioni delle cannule venose sono determinate dalle dimensioni del paziente, dal flusso da garantire e dalle caratteristiche dichiarate dei costruttori (soprattutto per le resistenze al flusso).
Le cannule sono tipicamente introdotte con un’incisione dell’auricola o della parete laterale dell’atrio destro o direttamente nella vena cava inferiore e superiore, e tenute in sede da suture circolari a “borsa di tabacco”, fissate in tensione controllata mediante tourniquets. La chiusura della borsa di tabacco, garantirà, dopo l’asportazione delle cannule, la tenuta stagna della sutura.
Gli approcci di base per la cannulazione venosa sono tre:
BICAVALE: o sistema delle doppie cannule, nel quale vengono cannulate selettivamente la vena cava superiore ed inferiore; viene utilizzato negli interventi cardiochirurgici in cui è necessario aprire le cavità cardiache di destra (trapianti, correzione di difetti congeniti, patologie valvolari).
ATRIO DESTRO: oggi poco usato. ATRIO‐CAVALE: prevede il posizionamento di un’unica cannula “two‐stage” con un cestello che permette drenaggio contemporaneo dalla vena cava inferiore e dall’atrio destro; viene utilizzata in quasi tutti gli interventi coronarici ed in tutte le procedure aortiche, a meno che, ovviamente, non siano previste procedure che prevedano l’accesso anche alle sezioni destre. In alcuni casi, la cannulazione venosa è effettuata attraverso la vena femorale o la vena iliaca. Questo prevede il posizionamento, per via percutanea o mediante accesso chirurgico, di una cannula femoro‐atriale[13‐15].
La cannula di inflow, o linea arteriosa, permette l’immissione in circolo di sangue arterializzato. I siti anatomici disponibili per la connessione del ritorno arterioso al paziente includono l’aorta ascendente, l’arteria anonima, la parte prossimale della aortico, l’arteria femorale, l’arteria iliaca esterna, l’arteria ascellare e l’arteria succlavia[13].
La scelta è determinata dal tipo di intervento chirurgico pianificato e dalla distribuzione della malattia aterosclerotica del paziente. La punta della cannula arteriosa è, normalmente, la parte più distale del sistema di perfusione extracorporeo ed è la parte principale della cannula aortica che può determinare alte pressioni differenziali, jets, turbolenze e fenomeni di cavitazione[13,16]. Attualmente il sito di cannulazione più
utilizzato, per vantaggi pratici, nella maggior parte delle procedure che non prevedano la sostituzione dell’aorta ascendente o dell’arco aortico, è per l’appunto l’aorta ascendente[16]. La via transaortica appare la più fisiologica, poiché permette la perfusione
anterograda rispetto alla cannulazione femorale che impone una perfusione retrograda. La sede di scelta per la cannulazione, se non vi sono placche ateromasiche o calcifiche, è la parte ascendente dell’arco, prima del punto di emergenza del tronco arterioso brachiocefalico. Intorno al punto da cannulare si confezionano due borse di tabacco concentriche, a fili terminali contrapposti, avendo l’accortezza di prendere solo la tonaca avventizia. I due capi delle borse vengono inseriti ciascuno in un tourniquet. L’avventizia interna al punto circondato dalle borse, viene asportata. Una volta posizionata la cannula essa viene subito fissata con i tourniquets e connessa, con manovra sincrona del perfusionista e del chirurgo per assicurare l’assenza di bolle d’aria, alla linea arteriosa della macchina cuore‐polmoni. Il corretto posizionamento della cannula arteriosa è fondamentale e deve essere controllata la presenza di un’onda pulsatile sulle linee di
monitorizzazione e la concordanza della pressione misurata in arteria radiale e nel circuito per la CEC.
3.3 Reservoir
È un sistema di aspirazione formato da tubi collegati a un vuoto spinto e collegato al reservoir vero e proprio in cui il sangue va a depositarsi; questo dispositivo dà la possibilità di accumulare un certo quantitativo di sangue, svuotando il sistema circolatorio del paziente se il chirurgo ne ha l'esigenza e consente anche di evitare che le vene cave collabiscano a causa di un aumento dei giri della pompa o una vasodilatazione del paziente. Il circuito in fase iniziale deve essere preriempito con soluzione liquida o ematica [13,14].
3.4 Ossigenatore
L’ossigenatore è un sistema meccanico artificiale che durante la CEC ha la funzione di ossigenare la massa ematica che lo attraversa sottraendole anidride carbonica. Il processo di ossigenazione, in termini fisiologici, comporta la diffusione dell’ossigeno a livello della membrana dell’emazie e la formazione di ossiemoglobina sulla loro superficie. In CEC possono essere utilizzati quattro tipi fondamentali di ossigenatori: a bolle, a fibre cave, a dischi rotanti e a membrana[13,14].
L'ossigenatore a bolle permette un contatto diretto tra sangue venoso e ossigeno. È costituito da una colonna di ossigenazione nella quale simultaneamente sono immessi sangue venoso e ossigeno; segue un sistema di deschiumaggio per eliminare le bolle. I dispositivi più moderni presentano incorporato nell'ossigenatore lo scambiatore di calore.
L'ossigenatore a fibre cave è formato da fasci di sottilissime fibre cave semipermeabili al gas al cui interno fluisce ossigeno con sangue all'esterno. L'ossigenatore a dischi rotanti consiste di una serie di dischi coassiali che ruotano.
Quindi, il sangue venoso è distribuito sulla superficie di questi dischi in forma di pellicole per aumentare la superficie di contatto. Anche in questo caso il sangue venoso e l'ossigeno sono in contatto diretto.
L'ossigenatore a membrana permette scambi per diffusione attraverso una membrana semipermeabile di gomma siliconata che separa completamente gas e sangue. Evitare la formazione di bolle diminuisce i rischi di una embolia gassosa,
i danni da esposizione diretta ai gas (emolisi, consumo piastrinico e dei fattori della coagulazione) e aumenta il possibile utilizzo per periodi prolungati di CEC. Un ossigenatore ideale dovrebbe possedere i seguenti requisiti:
creare un’adeguata arterializzazione, ad una quota di circa 95‐100% di saturazione di ossigeno, di 5 l di sangue venoso al minuto;
simultaneamente sottrarre l’anidride carbonica prodotta dai tessuti nei limiti fisiologici, cioè fino ad una pressione parziale di 40 mmHg, evitando alterazioni verso l’acidosi o l’alcalosi respiratoria; evitare danni agli elementi figurati del sangue ed impedire la denaturazione delle proteine del plasma; garantire lunghi periodi di ossigenazione; non determinare modificazioni della carica elettrica del sangue;
essere semplice, sicuro, facilmente maneggiabile e velocemente collegabile al paziente.
Gli ossigenatori moderni rispecchiano molte di queste caratteristiche e si avvicinano maggiormente alla fisiologia polmonare[14].
3.5 Scambiatori di calore
Hanno la funzione di regolare la temperatura del sangue e di conseguenza la temperatura del paziente. Lo scambiatore di calore è posto a monte dell'ossigenatore: l'ossigenatore aumenta notevolmente la pressione parziale dell'ossigeno nel sangue, il quale si può trovare sia in forma legata all'emoglobina, sia in forma disciolta nel plasma; l'ossigeno disciolto, tende ad aggregarsi all'aumentare della temperatura, formando bolle[13,14]. Una caratteristica importante di questo dispositivo, posta a salvaguardia dell'asetticità del sangue, è quella di evitare, in caso di danneggiamento, che il liquido termovettore (acqua) vada a contatto col sangue ed entri in circolo. Questo è possibile mantenendo il liquido ad una pressione leggermente inferiore a quella del sangue, in modo tale che, in caso di danneggiamento, sia il sangue a trasferirsi nel circuito esterno e non viceversa. 3.6 Filtri Durante la circolazione extracorporea si possono formare un numero variabile ed elevato di particelle microscopiche vettoriate nel sangue circolante determinando la formazione di emboli particolati o gassosi. Per impedire ai contaminanti ed ai micro aggregati di
embolizzare, vengono inseriti nel circuito della CEC alcuni elementi filtranti. Grazie alla loro struttura microreticolata, impediscono il passaggio di microcoaguli, minuscoli frammenti di tessuto e piccolissime bolle[13,14].
3.7 Pompe
Il cuore di svolgere il lavoro di una duplice pompa con pressioni differenziate. Le due pompe hanno una parete settale in comune e due masse muscolari ventricolari, con prestazioni diversificate. In pratica, in condizioni ipotetiche, a parità di flusso/minuto, se il cuore destro è in grado di far salire il sangue al primo piano di un edificio, il sinistro ha la potenza di sollevarlo al terzo piano. Ogni metà del cuore può essere assimilata ad una semplice pompa a due tempi con valvole automatiche unidirezionali. Durante la circolazione extracorporea la pompa meccanica ha il compito di sostituire la funzione cardiaca e di muovere il flusso del sangue nel circuito e nel sistema vascolare dell’organismo. Le pompe utilizzate nel circuito per la circolazione extracorporea (di solito è presente anche una pompa d'emergenza) sono quattro: una è la main pump, cioè la pompa che mantiene il sangue in circolo, un'altra è utilizzata per la cardioplegia e le altre due servono per azionare gli aspiratori di campo[13,14].
La pompa principale può essere di due tipi: Roller o Centrifuga. Entrambe sono a flusso continuo, contrariamente al cuore che, invece, è una pompa pulsante. A seconda di parametri soggettivi, la pompa assicura la portata adeguata al paziente (dai 4 ai 7 l/m). La caratteristica teorica saliente della Roller, essendo una pompa volumetrica, è la capacità, grazie alla sua struttura meccanica, di mantenere costante la portata qualsiasi sia la resistenza a valle. Il principio di funzionamento della pompa Roller è il seguente: un tubo deformabile, viene posto in un vano semicircolare dove due o più rulli collegati ad altrettanti bracci, ruotando, lo comprimono, spingendo avanti il volume di sangue antecedente al rullo. La Roller è una pompa volumetrica; ciò vuol dire che, se il motore a disposizione è sufficientemente potente, la sua portata dipende esclusivamente dal volume di sangue spinto nel vano semicircolare e dal numero di giri, indipendentemente dal carico idraulico che deve vincere.
Al contrario con la pompa Centrifuga, la portata varia in relazione al carico (a parità di numero di giri). Il funzionamento di questo tipo di pompe si basa sul principio del trasferimento di un fluido mediante la forza centrifuga. Infatti con fluido viene sottoposto in una rotazione velocissima si viene a formare un vortice a forma di cono. La parte interna
centrale del cono a una pressione molto bassa o negativa, mentre la parte periferica una pressione più elevata. Il vortice la pompa centrifuga è contenuto nella campana di materiale plastico indotto da una serie di con i sovrapposti. All’interno della campana il sangue è costretto a girare vorticosamente pressione di un magnete e viene sollecitato verso il punto di uscita laterale alla base della campana. Il vortice segue il secondo II della dinamica diffusi di secondo la formula: F = m x a Dove F è la forza, m è la massa ed a rappresenta l’accelerazione. La massa è il fattore condizionante, nel senso che l’assenza di massa (cioè il volume di sangue aspirato) introduce un valore zero nell’equazione, che determinerà F = 0, cioè nessuna forza e quindi nessuna fuoriuscita di liquidi dalla campana. Questo è il principio su cui si basa la quasi totale impossibilità di determinare la spinta attiva d’aria all’interno del circuito, lungo la linea arteriosa, al paziente[13,17].
Visto il suo principio di funzionamento, provoca molta meno emolisi della Roller e rappresenta, inoltre, un sistema di sicurezza nei confronti dell’embolia massiva accidentale, non dipendente da meccanismi elettronici o meccanici, ma solo basato sulle leggi fisiche.
3.8 Aspiratori
Due delle quattro pompe presenti nel circuito per la CEC, sono usate per gli aspiratori. Vengono utilizzati due aspiratori, il primo per recuperare il sangue versato nella cavità toracica a causa, per esempio, delle ferite chirurgiche, il secondo per recuperare il sangue dal ventricolo sinistro proveniente dalle vene di Tebesio. Il sangue recuperato viene poi filtrato, ossigenato e reimmesso nel circuito a livello del reservoir. In alcune procedure particolarmente complesse spesso si ricorre ad un terzo aspiratore connesso o ad una pompa supplementare o direttamente al reservoir. Per il loro principio di funzionamento e le tecniche costruttive, gli aspiratori sono altamente emolitici, poiché sottopongono i globuli rossi a depressioni e a moti turbolenti considerevoli[13,14].
3.9 VENT
Nonostante la CEC, ci possono essere altre fonti che, nonostante l'aspirazione cavale, possono portare sangue alle cavità cardiache: il seno coronario, il sangue sfuggito alla aspirazione cavale e le vene di Tebesio. Nei primi due il sangue in eccesso si trova nell'atrio
destro e sarà pertanto aspirato dalla cannula venosa già ivi precedentemente posizionata; nel caso delle vene di Tebesio esse sono vene cardiache che anziché defluire verso il seno coronario (e quindi all'atrio destro) si gettano direttamente nelle cavità sinistre del cuore, costituendo in questo caso un carico al ventricolo sinistro, che deve essere aspirato[13,14].
Per avere campo completamente esangue bisogna quindi introdurre un altro aspiratore nel ventricolo sinistro (il cosiddetto VENT ventricolare). Le vie utilizzate per il suo posizionamento sono: il ventricolo sinistro; l'auricola di sinistra; la vena polmonare superiore destra. 3.10 Cardioplegia
Il tessuto miocardico, essendo particolarmente vulnerabile ad un insulto ischemico, andrebbe incontro a danno irreversibile nell’arco di 20 minuti dopo clampaggio aortico. La cardioplegia permette di aumentare i tempi di ischemia, che possono essere sensibilmente prolungati al punto che periodi di arresto di 3‐4 ore vengono tranquillamente tollerati dai tessuti senza che vi sia la minaccia di un danno irreversibile[13,14]. Si tratta fondamentalmente di una soluzione iperkaliemica che può
essere somministrata in varie modalità e permette di:
arrestare rapidamente il cuore in diastole, riducendone l’attività metabolica del 95%;
creare uno stato di quiescenza, che garantisce una protezione contro l’ischemia e il danno da riperfusione.
La cardioplegia può essere cristalloide o ematica, sulla base del mezzo che veicola la soluzione, ed attualmente ne esistono tre tipi:
a) Soluzione di Custodiol. È una soluzione comunemente utilizzata negli interventi cardiochirurgici complessi e che prevedono una lunga durata. L’uso di questo tipo di soluzione cardioplegica permette la protezione miocardica per almeno 180min. La composizione è di tipo intracellulare, con potassio e sodio a basse concentrazioni e calcio mantenuto a una concentrazione uguale a quella intracellulare. Inoltre contiene anche istidina/triptofano e chetoglutarato (HKT), che hanno il compito di inattivare la funzione cellulare grazie alla fuoriuscita di sodio e calcio (per l’azione dell’istidina). Il triptofano garantisce un’ulteriore
protezione delle membrane cellulari e il chetoglutarato è un substrato importante per la produzione di energia anaerobica, utile sia per l’induzione cardioplegica sia per il ripristino della contrattilità cardiaca. b) Soluzione di Buckberg. Metodica ampiamente applicata che si basa sull’utilizzo del sangue quale veicolo per la somministrazione della cardioplegia. Il protocollo di utilizzo prevede tre differenti concentrazioni elettrolitiche specifiche per le fasi di induzione, mantenimento e riperfusione; la composizione della soluzione cardioplegica (B1, B2, B3) varia a seconda della fase di utilizzo e in generale contiene KCl, citrati, glucosio, sodio, potassio, fosfati, aspartato‐glutammato, etc. Tutte e tre le soluzioni hanno un pH di 7,5‐7,6. La soluzione è composta da sangue arterioso prelevato all’uscita dell’ossigenatore e miscelato con una soluzione cristalloide, in rapporto 4:1. Questa soluzione viene applicata negli interventi lunghi, su pazienti con funzione ventricolare bassa.
c) Soluzione di St. Thomas. È molto diffusa nella pratica clinica, grazie alla sua facile preparazione, all’economicità, all’efficace protezione del miocardio dal danno ischemico e dall’avere una composizione prestabilita e costante. Si tratta di una soluzione ionica e il suo effetto si basa sostanzialmente sulle variazioni delle concentrazioni extracellulari, che si traducono in un aumento di concentrazione del potassio (iperpolarizza la membrana cellulare e arresta il cuore in diastole) mantenendo uno stato di riposo elettrico di membrana. La soluzione è composta da sodio, potassio, calcio, magnesio, cloro, bicarbonato con un pH di 7,8.
È possibile somministrare la cardioplegia per via anterograda (mantenendo il normale flusso anatomico, perfondendo il bulbo aortico o direttamente gli osti coronarici), retrograda (invertendo in modo retrogrado il flusso attraverso il seno venoso coronarico) o mista (sfruttando ambedue le tecniche) [13,14].
La temperatura di infusione può essere variabile e rappresenta una scelta legata al tipo di procedura ed alle condizioni coronariche del paziente. È possibile effettuare una cardioplegia ipotermica (con temperature comprese fra i 4°‐8° C), moderatamente ipotermica (25°‐30°C) o normotermica[13,14].
Inoltre, si potrà effettuare in modalità intermittente, cioè alternando periodi di perfusione con periodi di ischemia, o continua, utilizzando il sangue del paziente prelevato dal circuito di CEC.
L’infusione della cardioplegia, infine, può avvalersi di una pompa, come generalmente accade utilizzando le soluzioni ematiche, oppure utilizzare la forza di gravità, come in genere accade quando si utilizzano le soluzioni cristalloidi.
3.11 Eparinizzazione sistemica
In condizioni normali, a meno che non sono stati adottati mezzi farmacologici, il sangue inizia a coagulare pochi minuti dopo aver perso il rapporto diretto con l’endotelio vascolare e, pertanto, quando giunge a contatto con una qualsiasi delle parti del circuito della CEC, anche se questo è perfettamente levigato, comincerebbe a coagulare, con conseguente diffusione di emboli del paziente e blocco completo in breve tempo della macchina cuore‐polmone. Per ovviare a questa situazione catastrofica è necessario scoagulare il paziente ricorrendo all’eparinizzazione[13,14].
L’eparina non è una sostanza ma una popolazione di molecole di diversa massa, di diverso indice di solfatazione e di diversa struttura. Non ha un’azione diretta anticoagulante, ma funge da catalizzatore, legandosi all’antitrombina III (AT III) circolante, e potenziandone l’attività di almeno 1000 volte. Il risultante complesso eparina‐AT III ha maggiore affinità per la trombina di quanta non ne abbia la sola AT III. In base a questo meccanismo d’azione la somministrazione di eparina per via endovenosa produce una rapida scoagulazione conseguente alla deplezione della trombina e dei procoagulanti sierici. Il protocollo standard di somministrazione prevede, per gli interventi cardiochirurgici che necessitano di CEC, un bolo di 300‐400 UI/Kg. Il livello di eparina va monitorato mediante test funzionali, quali l’ACT cioè l’Activating Clotting Time, e test quantitativi, come l’HPT cioè l’analisi della concentrazione dell’eparina. È possibile iniziare la circolazione extracorporea con un ACT di almeno 480 secondi. Secondo l’accezione comune, durante la CEC, si deve mantenere un ACT di almeno 500‐600 secondi indipendentemente dal tipo di circuito[13,14]. 3.12 Emodiluizione I tubi della CEC sono preriempiti da una soluzione liquida particolare che prende il nome di prime volume o priming. Tale fluido, di solito formato da soluzioni cristalloidi con o senza aggiunta di albumina, costituisce il volume necessario per riempire il circuito, evitando che all’interno dello stesso si possa formare o ci sia aria, e per impedire che ci sia una massa volumetrica più bassa di quella addizionale tra quella del paziente e quella
del circuito (infatti se non ci fosse il prime volume si andrebbe in shock ipovolemico); deve inoltre soddisfare tre caratteristiche importanti:
non deve provocare alterazioni chimico‐fisiche; non deve causare danni biologici;
deve essere isotonico con il sangue (285±5 mOsm/l).
L’utilizzo del prime volume ha anche un’importante funzione di protezione d’organo: infatti provoca emodiluizione, evitando lo “sludging” periferico, cioè l’impilamento dei globuli rossi per aumento della viscosità. L’ematocrito viene infatti fatto scendere all’incirca al 25‐27%, questo permette di ridurre la viscosità del sangue, migliorando la perfusione a livello del microcircolo. Nonostante questo indubbio vantaggio in grado di diluizione delle albumine e delle globuline può esitare in edema tissutale e ridotta coagulabilità.
4. L
A RISPOSTA SISTEMICA AL BYPASS CARDIOPOLMONAREL'uso di un Bypass Cardio‐Polmonare (CardioPulmonary Bypass ‐ CPB) produce effetti fisiopatologici in quasi tutti gli organi del corpo. Anche se molti di questi effetti non possono essere considerati complicanze nel senso stretto del termine, rappresentano il substrato necessario e sufficiente allo sviluppo di gran parte della morbilità associata all’utilizzo della Circolazione Extra Corporea (CEC).
4.1 Conseguenze dell'interfaccia del sangue
Di norma, il sangue ed il plasma entrano in contatto solo con vasi rivestiti da endotelio. La loro esposizione a superfici estranee all’organismo rappresenta, ematologicamente parlando, la situazione antifisiologica per eccellenza. Come risultato di questo contatto, si innescano una serie di reazioni specifiche che comportano una risposta sistemica al CPB[18].
Quasi subito dopo il contatto con una superficie non endoteliale, le proteine plasmatiche subiscono una degradazione, con formazione di numerosi monomeri, la cui tipologia e funzione è determinata dal particolare tipo di superficie coinvolta[18]. Il fibrinogeno,
precursore della fibrina, è una tra le proteine plasmatiche prevalentemente coinvolte nella reazione al CPB[18,19]. Durante la CEC si verifica l’attivazione sia della via intrinseca
che della via estrinseca della coagulazione. La prima collegata all’esposizione del sangue al circuito di perfusione; la seconda dovuta ai numerosi danni endoteliali durante l’intera procedura chirurgica[18]. Il risultato finale è la formazione di una proteasi circolante, la
trombina. Uno degli effetti della trombina è l'attivazione delle cellule endoteliali che portano al rilascio dell'attivatore del plasminogeno tissutale (t‐PA) che si lega alla fibrina. Questa cascata trasforma il plasminogeno in plasmina, responsabile della fibrinolisi.
4.2 Il Complemento
Anche la cascata del complemento è coinvolta nella reazione sistemica. Nel circuito di perfusione, il contatto del sangue con le superfici sintetiche, porta all'attivazione della via classica, fenomeno che viene amplificato al termine della CEC, dopo la somministrazione della protamina, quando si verifica la formazione dei complessi eparina‐protamina[18]. La
via alternativa, attraverso i fattori B e D, porta alla formazione di C3b. Sembrerebbe la via alternativa la principale responsabile della risposta sistemica complemento‐mediata al CPB[18]. Una volta attivate le vie del complemento, esse determinano la formazione del
complesso terminale che innesca la lisi cellulare. L’intero processo aumenta la formazione di trombina, favorisce i fenomeni vasoattivi ed incrementa la risposta neutrofila[18].
Numerose sono le linee cellulari coinvolte nella reazione sistemica. Le piastrine, per prime, una volta attivate, formano aggregati con monociti e neutrofili[18,20,21], portando al
rilascio di una grande varietà di sostanze in grado di danneggiare le membrane cellulari. Anche se l'effetto finale dipende da molti fattori, sia relativi al paziente che alla procedura chirurgica, il numero di piastrine circolanti durante CPB viene tipicamente diminuito del 30‐50%[18]. Studi microscopici hanno dimostrato la presenza di numerosi frammenti
piastrinici circolanti al termine della CEC[18]. La funzionalità piastrinica complessiva, quindi,
è ridotta, con conseguente aumento del tempo di sanguinamento[18].
L’azione del complemento, associata all’effetto diretto della trombina e di numerosi altri fattori; tra i più importanti ricordiamo l’Interleuchina‐1 (IL‐1) ed il fattore di necrosi tumorale (TNF); porta all’attivazione delle cellule endoteliali[20], con vasodilatazione ed
amplificazione della reazione sistemica.
I neutrofili, una volta attivati, sono i principali responsabili della reazione infiammatoria post‐CEC. Queste cellule, rilasciano una grande varietà di sostanze dannose, tra cui elastasi, lisozima, mieloperossidasi, idrolasi acide, collagenasi, perossido di idrogeno e radicali idrossilici[18].
I monociti, attivati dal complemento e dal rilascio di IL‐1 e frammenti cellulari, esprimono il fattore tissutale, sia nel circuito di perfusione che nella ferita chirurgica[18]. Inoltre,
producono diverse citochine (come ad esempio IL‐1, IL‐6 e TNF‐) con un picco di concentrazione diverse ore dopo il CPB[18], che determina un aumento dei monociti
circolanti a distanza di molte ore dalla procedura[21].
In risposta all’aumento dei neutrofili e dei monociti si assisterà ad una riduzione del numero della funzione della linea linfocitaria nei giorni successivi al CPB[18].
4.3 Le conseguenze metaboliche del CPB
Il bypass cardiopolmonare produce una serie di cambiamenti nelle funzioni endocrine, umorali e metaboliche del corpo. A livello pituitario questi cambiamenti si traducono in un notevole aumento della produzione di vasopressina, che persiste per diverse ore nel postoperatorio[22]. Questa risposta esagerata dell'ADH può essere dovuta a una serie di
cause, tra cui: ipotensione transitoria all'avvio della CEC, diminuzione del volume ematico e diminuzione della pressione atriale sinistra con l'avvio del CPB. L'ADH produce un
aumento delle resistenze vascolari periferiche, una diminuzione della contrattilità miocardica, una diminuzione del flusso sanguigno coronarico, un aumento delle resistenze vascolari a livello renale e un aumento del rilascio del fattore von Willebrand[18].
Durante un CPB condotto in ipotermia, la concentrazione plasmatica di catecolamine aumenta da 4 a 10 volte, portando ad una maggiore vasocostrizione periferica e cambiamenti del flusso ematico a livello splancnico[23].
Il cortisolo, ormone rilasciato in risposta allo stress dopo qualsiasi intervento chirurgico maggiore, di solito aumenta rapidamente la sua concentrazione nell’immediato postoperatorio, riducendosi lentamente fino al raggiungimento dei valori basali entro 24 ore[18]. Durante gli interventi condotti con CPB, sale ad un'alta concentrazione durante la
circolazione extracorporea e rimane notevolmente elevato nelle successive 48 ore[18].
Anche l'ormone adrenocorticotropo (ACTH) sembra comportarsi in maniera analoga, secondo numerosi studi.
Anche se esistono pareri discordanti, la maggior parte dei lavori scientifici ha dimostrato ridotti livelli di fattore natriuretico atriale durante il CPB, specialmente nei pazienti che presentano elevati livelli nel preoperatorio (ad esempio in pazienti affetti da patologia valvolare) [18]. Il fattore natriuretico atriale viene rilasciato in risposta alla distensione
atriale e agisce aumentando la filtrazione glomerulare, inibendo il rilascio della renina, riducendo la concentrazione sierica di aldosterone e quindi la pressione arteriosa. I normali meccanismi fisiologici sembrerebbero essere repressi durante il CPB, e restano tali per le successive 24 ore postoperatorie[18].
Non è tuttora chiarito il ruolo dell'asse renina‐angiotensina‐aldosterone, secondo molti studi, anche se le concentrazioni di questi ormoni variano molto durante la CEC e nell’immediato postoperatorio, in realtà non sembrerebbero rappresentare un problema degno di nota[18,24].
Nel postoperatorio di pazienti sottoposti bypass cardiopolmonare sono state messe in evidenza, inoltre, ridotte concentrazioni di T3, T4, tiroxina libera con concentrazioni di tirotropina normali[18].
Le principali modificazioni del metabolismo glucidico sono strettamente dipendenti dalle reazioni endocrino‐metaboliche tipiche indotte dal trauma operatorio, consistenti fondamentalmente in iperglicemia e glicosuria, che si normalizza normalmente nella prima giornata del decorso postoperatorio. Le alterazioni a carico del metabolismo proteico consistono in un aumento delle reazioni metaboliche con bilancio negativo
dell’azoto e conseguente aumento della sua eliminazione urinaria. A tale risposta dell’organismo al trauma chirurgico si aggiungono gli effetti provocati dalla circolazione extracorporea:
diminuzione delle proteine plasmatiche che rimangono in parte adese alla superficie interna del circuito;
denaturazione proteica nell’ossigenatore, nell’interfaccia sangue‐ossigeno e formazione di radicali liberi.
Questi processi fisico‐chimici liberano molecole e frammenti molecolari anomali che possono avere effetti dannosi nell’organismo perfuso e cioè: attivazione delle proteinasi cellulari, delle chinine vasoattive e della fibrinolisi, fenomeni questi che stanno alla base dell’attivazione della flogosi post‐perfusionale e dell’instaurarsi in uno stato di shock. Per quanto riguarda il metabolismo lipidico non sono mai state descritte alterazioni degne di nota. 4.4 Conseguenze dell'ipotermia Di norma durante le procedure cardiochirurgiche, in base anche alla tipologia d’intervento previsto, viene indotta nel paziente un’ipotermia. Che sia lieve o moderata (34‐25°C), viene utilizzata in combinazione con il CPB per fornire un certo grado di protezione d’organo dal danno ischemico durante tutta l’operazione. La riduzione della temperatura, infatti, determina una ridotta richiesta e consumo di ossigeno da parte dei tessuti dell’organismo, con conseguente riduzione del metabolismo cellulare. Questo permette un certo margine di sicurezza nelle procedure cardiochirurgiche, specialmente se sono previsti lunghi tempi di circolazione extracorporea[25]. Nei tessuti neurali esiste anche un
effetto beneficio diretto dell'ipotermia in termini di conservazione dei depositi ad alta energia e di una riduzione del rilascio di neurotrasmettitori[1]. La riduzione del consumo
di ossigeno durante l'ipotermia, permette di mantenere flussi di perfusione più bassi durante il CPB, con numerosi vantaggi sia per il paziente che per il chirurgo, tra cui la ridotta lisi cellulare e miglior esposizione del campo operatorio[26].
Nonostante questi indubbi effetti positivi, l’ipotermia produce diversi effetti sistemici[18].
In quasi tutti i tessuti, diminuisce il flusso sanguigno, ma questo è maggiormente evidente nel muscolo scheletrico, a livello renale, nel distretto splancnico, ed ovviamente, a livello cardiaco e cerebrale. A livello miocardico l’ipotermia, fisiologicamente associata all’arresto cardiaco, aumenta le aritmie atriali e ventricolari. Nel polmone, il ridotto
metabolismo cellulare, porta alla diminuzione della ventilazione. Nei reni aumenta le resistenze vascolari, con una riduzione del riassorbimento tubulare. In generale sia il metabolismo epatico che quello pancreatico sono rallentati dalle basse temperature. Il CPB ipotermico incrementa la gluconeogenesi e la glicogenolisi, con contemporanea diminuzione della produzione di insulina endogena e relativa insensibilità alla somministrazione di insulina esogena.
La riduzione della temperatura sistemica porta, inoltre, ad una diminuzione della clearance dell'acqua ed alterazioni elettrolitiche come la riduzione della concentrazione di potassio per aumentata osmolalità del siero. A temperature inferiori ai 26°C si assiste a vasocostrizione sistemica e polmonare, con formazione di shunt artero‐venosi, che hanno un effetto deleterio sulla disponibilità di ossigeno tissutale. Questo fenomeno, associato all’aumento della viscosità ematica con formazione di microtrombi, contribuisce a ridurre ulteriormente la Delivery di O2 tissutale. 4.5 Altri cambiamenti sierici Immediatamente dopo l’inizio del CPB, vi è un calo dei livelli serici di calcio ionizzato e magnesio[18]. Queste variazioni sono da mettere in relazione all’utilizzo di soluzioni
cristalloidi come priming, la caduta della concentrazione di questi ioni è inevitabilmente legata all'emodiluizione. Dopo CPB, i livelli di magnesio sierico ritornano alla normalità solo molto lentamente[18]. Nel periodo postoperatorio, l'ipomagnesemia si traduce in una
maggior predisposizione del paziente allo sviluppo di aritmie atriali e ventricolari[18].
Anche i livelli di potassio sierico possono variare sensibilmente durante il CPB. I livelli fisiologici che tendono ad abbassarsi durante il bypass ipotermico, tenderanno ad aumentare dopo la somministrazione della cardioplegia. Al termine della circolazione extracorporea è tipica una riduzione della concentrazione di potassio sierico con aumentata escrezione urinaria[18].