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LA STRADA L’importanza delle pratiche di vicinato

LA BIDDINA Il mito

UNIVERSITÀ E ISTRUZIONE

2.2 STORIE DI LUOGH

2.2.3 LA STRADA L’importanza delle pratiche di vicinato

Guardando alla strada dal punto di vista del paesaggio, essa presenta una doppia funzione. La prima considera la strada funzione della circolazione, la seconda è quella di “relazione” tra gli edifici. Imparando dalle pratiche del quotidiano (Crawford, Chase, John, 1999), che vedono nella possibilità del recupero di determinati luoghi in declino di un carattere socialmente e spazialmente democratico, capace di accogliere contemporaneamente la dimensione sociale, emotiva, figurativa e funzionale del fenomeno urbano, la strada si configura come campo di sperimentazione particolarmente adatto per la capacità di rappresentare un tessuto adattivo incline ad accogliere e intercettare tutti gli stimoli vitali auto-prodotti dal sistema urbano. Attivare processi nei margini, nelle strade, nelle soglie, nei luoghi che catalizzano la crisi della città ma anche dove capacità ed immaginazione possono manifestarsi, significa promuovere l’interazione sociale, invertendo il processo di marginalità e di disgregazione. La strada ha la potenza di assurgere a spazio spontaneo di gioco, che ridefinisce la percezione di chi vi abita, trasfigurandola da potenziale luogo d’insicurezza a spazio presidiato spontaneamente, grazie alla presenza continua di una forza sociale attiva e alla costruzione di nuovi equilibri di fiducia e reciproco interesse verso l’altro.

Le cosiddette “relazioni di vicinato” svolgono quindi un ruolo centrale. Porsi come “vicini di casa” garantisce un sentimento di solidarietà, una complicità tra comunità interessata, artisti e organizzazione, che non necessariamente porta a “partecipare” alla realizzazione

dell’intervento, ma ne garantisce il mantenimento, offrendo un’occasione di incontro costruttiva, che svincola dalla concezione di dover delegare tutto alla pubblica

amministrazione, portando alla riscoperta del bene pubblico, in quanto tale. La strada diventa uno spazio da (ri)abitare Il processo di ri-appropriazione sociale permette anche di superare questioni lesive dell’equilibrio urbano come segregazione e marginalizzazione di fasce deboli della popolazione, vittime delle dinamiche disgreganti in atto nei territori urbani fuori

controllo. La strada si presta ad accogliere e rappresentare, in una sorta di racconto spazialmente articolato, visioni derivanti dall’immaginario e dalla memoria collettivi e proposte alternative suggerite da sguardi esterni e molteplici. Si tratta di incentivare e produrre strategie di riappropriazione sensibile della strada che, in quanto spazio pubblico e

comune, può costituirsi come spazio di rappresentazione, ossia luogo nel quale riversare immaginari e contenuti immateriali (Celestini, Russo, Sciarrone, 2017). Strategicamente si tratta di operare azioni di rilocalizzazione e rifunzionalizzazione all’interno del tessuto stradale. Ciò significa reinventare usi per categorie di spazi, rintracciate e sistematizzate in base ad una indagine rivolta più specificatamente ai desideri, alle esigenze e alle abitudini delle persone. L’azione progettuale dell’associazione ruota, dunque, fondamentalmente su due domande: - Chi sono i miei vicini “di casa”? - Cosa faccio per rendere accogliente e ricco di incontri e di scambi il luogo in cui vivo? Queste domande consentono all’associazione di programmare l’azione progettuale, individuando il target di riferimento, con i relativi bisogni, desideri inespressi, urgenze, in modo d’agire più efficacemente, valutando la tipologia di intervento più adatta da “innestare” in quel dato spazio. Pensare alla strada come strumento di connessione di relazioni, permette di ragionare in un’ottica di quartiere, un quartiere in cui si instaurano rapporti di vicinato nuovi, allargati, inclusivi, che vedono protagonisti dello spazio considerato, non solo gli effettivi “vicini di casa”, ovvero esclusivamente chi abita su quella strada, ma ingloba anche chi “vive” quella strada, grazie alla riattivazione attraverso gli

interventi, temporanei, e non proposti. Questo nuovo rapporto di vicinato si costruisce, quindi, sulla base di “relazioni di prossimità”, che ruotano su due componenti: spazio e società. Questa coppia viene richiamata da molti autori per aiutare ad osservare a livello micro i modi in cui le configurazioni spaziali e le organizzazioni sociali interagiscono, per ovviare all’evanescenza della nozione di quartiere/vicinato. Se lo si pensa come una delimitazione territoriale, si rischia di incorrere in una mancata rappresentatività di usi e comportamenti dei suoi

frequentatori. Concentrandosi, invece, sulle relazioni sociali, è possibile che queste non siano “geograficamente sincronizzate”. Ad ogni modo, le due componenti sono in qualche modo crucialmente interdipendenti.

tentato diverse definizioni, tuttavia la discussione non può definirsi conclusa, in quanto le aggregazioni sociali mutuano rapidamente.

È opportuno, a questo punto, fare riferimento a Ferdinand Tönnies, che nella sua opera “Comunità e società” (Tonnies, 1887) delinea due tipi alternativi di organizzazione sociale: la comunità (Gemeinschaft), appunto, e la società (Gesellschaft).

Per Tönnies, la comunità è organica (Gemeinschaft), un rapporto reciproco sentito dai partecipanti, fondato su di una convivenza durevole, intima ed esclusiva. Questo rapporto è improntato a intimità, riconoscenza, condivisione di linguaggi, significati, abitudini, spazi, ricordi ed esperienze comuni. I vincoli di sangue (famiglia e parentela), di luogo (vicinato) e di spirito (amicizia) costituiscono delle totalità organiche in cui gli uomini si sentono uniti in modo permanente da fattori che li rendono simili gli uni agli altri e al cui interno le

disuguaglianze possono svilupparsi solo entro certi limiti oltre i quali i rapporti diventano così rari e insignificanti da far scomparire gli elementi di comunanza e condivisione. All’interno della comunità, rapporti non sono segmentati in termini di ruoli specializzati, ma comportano che i membri siano presenti con la totalità del loro essere. Nulla di tutto ciò avviene

nell’ambito della società. Suggerisce a tal proposito Tönnies che tale teoria della società

riguarda una costruzione artificiale, un aggregato di esseri umani che apparentemente sembra somigliare alla comunità, poiché anche in essa gli individui vivono gli uni accanto agli altri. Quello che li distingue è che mentre nella comunità gli individui restano essenzialmente uniti nonostante i fattori che li separano, nella società restano separati nonostante i fattori che li uniscono.

Nella società, infatti, gli individui vivono per conto loro, separati. Il rapporto societario tipico è il rapporto di scambio, nel quale i contraenti non sono mai disposti a dare qualcosa di più rispetto a quel che ricevono. Questo rapporto non mette in relazione gli individui nella loro totalità, ma soltanto le loro prestazioni.

Comunità è una parola che piace, evocativa di un ambiente tranquillo, in armonia, spesso

legata ad un contesto contadino, di piccoli villaggi. Utilizzata per definire un modo di relazionarsi tendenzialmente positivo, in cui si intessono rapporti di reciprocità non

Di fatto, è quell’entità a cui un individuo appartiene, più grande della famiglia, più piccola della società, un gruppo di persone che condivide spazio e consuetudini.

Tuttavia, da alcuni decenni, nuovi stili di vita e l’avvento della rete, hanno invertito la

percezione dello spazio rispetto alle persone: lo spazio condiviso e la prossimità sembrano non essere più condizioni basilari per le relazioni, percezione che porta alla perdita della

concezione di una comunità che si basa su un insieme di relazioni sociali, concentrate in un luogo e che presuppongono l’esistenza di obblighi e responsabilità reciproche.

Ma, riprendendo Cesare Pavese, “un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti” (Pavese, 1949). Una comunità ha bisogno di confini, di appartenenza, una linea che separi il noi dall’altro. Un confine necessario che permetta di definire sé stessi e, di conseguenza, gli altri. Si fonda sulla percezione che i membri hanno di loro stessi. Ha soprattutto bisogno di un apparato simbolico, sul quale depositare significati e identità. Lo spazio pubblico urbano, in particolare modo “la strada” e il “quartiere”, giocano un ruolo importante all’interno dell’apparato simbolico, essendo i luoghi per eccellenza delle relazioni primarie, nonostante oggi venga percepita quasi esclusivamente nella prospettiva della sua funzionalità, frammentando i legami tra le persone e dando vita eventualmente ad aggregazioni ridotte, che non sono percepibili come comunità vere. Nonostante nei piccoli paesi la dimensione comunitaria viva le dinamiche della città in maniera contenuta, tuttavia la modernità, accompagnata dal benessere, ha prodotto i suoi frutti, andando soprattutto ad intaccare i rapporti di vicinato, basati sulla prossimità, fondati dal confine dato dal quartiere o dalla strada, riducendo soprattutto il bisogno del mutuo aiuto. Vengono meno i punti di riferimento che rendevano l’ambiente sociale più stabile, più sicuro. I

nella memoria collettiva urbana.

Vi sono tre approcci che ci permettono di comprendere il concetto teorico di

quartiere/vicinato: quello dell’attività umana di vicinato e di quartiere, quello delle

architetture e delle pianificazioni e quello relativo alle funzioni, alle pratiche e alla memoria collettiva. Per scongiurare il pericolo della perdita definitiva del senso di comunità, che comporterebbe la crescita di un individualismo sfrenato, deleterio, perché ridurrebbe la capacità della società di percepirsi e auto-definirsi, trasformando le comunità in “comunità diluite” (Aime, 2018) diventa necessario riconquistare lo spazio pubblico, basato sulla

partecipazione.

Per costruire comunità che reggano i ritmi e tempi della contemporaneità, si è diffusa una certa “filosofia del co-” (Aime, 2018), che ha assunto una valenza sociale quasi rivoluzionaria, basata su stili di vita che si fondano sulla “condivisione”, ovvero sulla messa in comune dei beni e delle idee, riecheggiando quel passato nostalgico della piccola comunità in cui tutti si aiutavano.

Centrale la concezione del “dono” e della “fiducia”, fattori di rischio che contraddistinguono l’economia collaborativa, proprio perché la cooperazione è un comportamento economico, in cui gioca un ruolo definitivo la “reputazione del gruppo”, grazie alla quale gli individui interagiscono strategicamente tra di loro, tenendo in considerazione il movente di tutti, che non tenga conto esclusivamente della razionalizzazione delle risorse, ma che crei soprattutto socialità. Il concetto del “dono”, poi, è dominante in qualsiasi impresa comunitaria, in quanto presuppone che venga riposta una grande “fiducia” negli altri, poiché il suo valore intrinseco risiede nell’assenza di garanzia per il donatore di venire contraccambiato. Il contraccambio, dall’altra parte, gode del valore della libertà e non dell’obbligo, che detta la volontà di prolungare la durata nel tempo di quel rapporto. In questo modo è possibile individuare il motivo per cui il dono diventa promotore di relazioni: l’uomo non dona per creare rapporti sociali, ma perché gli è necessario produrre la società per vivere.