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La teoria del capitale sociale alla prova

SVILUPPO SOCIALE E MUTAMENTI PRODUTTIVI NEL MONDO RURALE EUROPEO CONTEMPORANEO

4.3 La teoria del capitale sociale alla prova

Le ricerche sociologiche sull'economia diffusa in Italia si sono svolte prima che si affermasse la cosiddetta teoria del capitale sociale, oggi usata nell'interpretazione dei processi di modernizzazione e di sviluppo econo-mico. Le ricerche italiane non hanno dunque fatto riferimento al vocabo-lario e agli schemi di questo approccio, pur sviluppando interpretazioni e strumenti spesso in sintonia. A volte poi sono anche state utilizzate da chi era impegnato a svilupparla o ad applicarla.

Nella versione più corrente, il nucleo della teoria si basa anzitutto sul riconoscimento che la cultura è importante per il funzionamento dell'eco-nomia. Importanti, in particolare, sono quegli aspetti di una specifica cul-tura che abituano e predispongono in generale gli individui a rapporti di fiducia nelle relazioni interpersonali. La fiducia diventa così una risorsa an-che per l'azione economica e per lo sviluppo. Famiglia e credenze religiose sono riconosciute come istituzioni decisive per la produzione e riproduzio-ne di atteggiamenti di questo geriproduzio-nere, riscontrandosi empiricamente culture che appaiono più o meno favorevoli. Queste sono affermazioni che i socio-logi fanno da molto tempo, se sono ora riprese è perché hanno cominciato a rendersi conto della loro importanza anche gli economisti.

La teoria del capitale sociale ha due punti delicati. Il primo è la defini-zione stessa del suo oggetto. Resta la sensadefini-zione che il punto di partenza

non sia abbastanza chiarito: la formulazione originaria del concetto da par-te di J. Coleman è più complessa di quanto non la facciano molti che lo citano, così come gli esiti sono per lui più problematici: l'esistenza di capi-tale sociale può favorire oppure ostacolare lo sviluppo, favorire certe azioni e ostacolarne altre. L'esistenza di norme cooperative rispettate non solo ostacola comportamenti devianti che danneggiano gli altri, favorendo fidu-cia e cooperazione, ma può anche ostacolare innovazioni che avrebbero vantaggi per tutti. Torneremo su entrambe le questioni.

Il secondo punto delicato sta nella tendenza a sovraccaricare il capitale sociale di potere esplicativo. Ciò deriva dalla natura «simpatica» della teo-ria, che attira l'attenzione su risorse latenti e su processi endogeni, che mol-tiplicano il valore delle relazioni esistenti. Abbiamo già visto la questione in riferimento alle ricerche sull'economia diffusa. Chi usa il concetto spesso si rende conto dei rischi, ma non sempre e non sempre in modo adeguato. Il caso italiano ha attirato l'attenzione di due analisti che fanno riferi-mento, in due libri importanti, alla teoria del capitale sociale: R. Putnam e F. Fukuyama. Il primo intende per capitale sociale «la fiducia, le norme che regolano la convivenza, le reti di associazionismo civico» che facilitano e promuovono iniziative prese di comune accordo (tr. it., 1993, p.196). Di queste risorse si trova un ricco giacimento nelle regioni del centro-nordest, che devono dunque essere intese come società ad alto capitale sociale, fat-tore decisivo per il migliore funzionamento delle istituzioni amministrative e anche per il successo economico. Fukuyama è più direttamente interes-sato all'economia, in un quadro comparativo di diversi casi nazionali (1995, tr. it. 1996). Egli riporta l'idea di capitale sociale essenzialmente alla fiducia interpersonale come risorsa generalizzata e individua due vie alla formazione della socialità fiduciaria: la famiglia e le comunità non basate sulla parentela. Il capitale sociale delle società familistiche - come quella italiana - è più limitato e si è rivelato produttivo non a caso di piccole im-prese. Al sud, dove la famiglia è nucleare, questa risorsa non sarebbe pe-raltro disponibile.

Non considereremo qui in dettaglio le analisi di Putnam e Fukuyama e il loro modo di intendere il concetto di capitale sociale che entrambi ri-prendono, ma con accenti diversi, da Coleman. Torneremo invece - al punto (b) - alla definizione originaria di questo per mostrare come il suo vocabolario e suoi schemi analitici sono effettivamente applicabili all'analisi del caso italiano. Per il resto, si tratterà di osservazioni orientate a rendere evidenti - sulla base dell'esperienza di ricerca in Italia - la necessità di re-strizioni, chiarimenti o specificazioni nella futura messa a punto della teoria e nel suo uso come approccio a problemi di sviluppo.

(a) Il capitale sociale non sembra essere la risorsa decisiva che spiega l'anda-mento dell'economia in casi macroscopici

Possiamo assumere - come Putnam e Fukuyama, il secondo giustamen-te in modo più circospetto - che nelle nostre regioni un significativo capi-tale sociale sia stato importante nell'attivazione dello sviluppo. Tuttavia, è solo verso la fine del grande periodo di crescita dell'economia mondiale, dopo i «trenta gloriosi» anni del dopoguerra, che queste società locali si fanno avanti, in corrispondenza alla crisi del fordismo. In precedenza, era-no state le società regionali del era-nord-ovest, a miera-nore o anche scarso capitale sociale, ad alta conflittualità e polarizzazione sociale, ad aver attivato il «mi-racolo economico» italiano.

Questa osservazione che viene dall'esperienza italiana richiama altri ca-si imbarazzanti. Per tutta la durata dei trenta glorioca-si, gli Stati Uniti, con-siderati luogo di alta cultura civica e capitale sociale, hanno avuto tassi di sviluppo inferiori a tutte le grandi economie europee, Italia compresa, ge-neralmente considerata a bassa cultura civica. Gli assetti istituzionali rego-lativi dell'economia, ed eventualmente altre variabili, sembrano dunque es-sere stati più importanti di un capitale sociale prodotto in famiglie e asso-ciazioni. Di recente, come sappiamo, si è verificata una inversione di ten-denza: in condizioni mutate, assetti più liberisti sembrano consentire migliori performance dell'economia americana. E curioso osservare che questo avviene proprio mentre cresce la denuncia di una pericolosa perdita di capacità associativa e di spirito comunitario in quel paese.

La non operatività del capitale sociale per lo sviluppo nelle regioni ita-liane di piccola impresa durante gli anni della grande crescita del dopo-guerra non significa che lo spirito e la fiducia comunitaria non fossero in precedenza attivi. Per esempio, in Veneto parrocchie e associazioni religio-se erano state molto attive in passato nell'organizzare l'emigrazione da zone sovrapopolate. Le cose dette sembrano sostenere sia l'idea che il capitale sociale deve essere opportunamente relativizzato rispetto ad altre variabili, sia l'idea che esistono tipi diversi di capitale sociale, attivi a seconda delle circostanze. L'idea di varianti del capitale sociale è presente in Fukuyama, che però è interessato a individuare l'effetto costante di tipiche culture na-zionali sulla forma di industrializzazione, piuttosto che la variabilità con-giunturale delle possibilità di adattamento e la cumulabilità adattiva delle esperienze. In effetti, l'idea di capitale sociale sviluppato da molti autori è piuttosto quella di una riserva di fiducia prodotta spontaneamente dalla cultura tradizionale di una società locale. Resta da parte, o comunque sottovalutata, la possibilità presente nella formulazione iniziale di Coleman -che la fiducia possa essere prodotta dall'interazione sociale an-che dove non

c'è. In questa direzione si può anche sostenere che l'attitudine a collaborare può essere sviluppata dall'azione politica, dagli assetti regolativi dell'econo-mia posti in essere e dal successo stesso dell'interazione che ne deriva. Per questo ultimo motivo - osserviamo incidentalmente - bisognerebbe sem-pre valutare bene se e quanto gli studi condotti a verifica della teoria, per mezzo di correlazioni statistiche che associano indicatori generici di ducia e rendimento economico, non siano tautologici, dal momento che fi-ducia e successo si rafforzano a vicenda.

(b) Il capitale sociale non è comunque solo legato a una cultura fiduciaria, e non è il solo capitale in gioco in una eredità sociale

Nella versione originale della teoria - quella di Coleman - piuttosto che alla cultura fiduciaria, il capitale sociale è riferito a specifici assetti delle re-lazioni sociali che consentono a una persona di agire in vista dei propri fini, orientando e riorientando le relazioni stesse. Si tratta di una prospettiva più complessa: le possibilità di manovra che in questo modo si aprono nell'a-nalisi sono maggiori e più ricche.

È opportuno ripercorrere brevemente l'impostazione generale della prospettiva teorica di Coleman, sino all'introduzione del concetto di capi-tale sociale. Nella costruzione della sua teoria della società, egli immagina inizialmente attori che dispongono di risorse delle quali detengono il con-trollo e alle quali sono interessati. In conseguenza del fatto che un attore ha interessi in eventi che sono sotto il controllo di altri, si attivano scambi e trasferimenti di controllo fra attori che conducono alla formazione di rela-zioni sociali stabili nel tempo. Relarela-zioni di autorità, di fiducia e norme re-lative alla allocazione consensuale di diritti prendono così forma - secondo questa sequenza logica - come principali componenti della struttura socia-le. Questi elementi, tuttavia, possono essere visti sia come componenti della struttura sociale (che spiegano, per così dire, il funzionamento della società pensata come un sistema), sia come risorse per gli individui che perseguono scopi propri. Il termine capitale sociale serve per indicare queste risorse, diverse da persona a persona. Relazioni di autorità, di fiducia e norme, con-siderate da questo punto di vista, sono forme o generatori di capitale socia-le. Si possono a questo punto individuare tipi significativi di questo, parti-colarmente significativi per lo studio dello sviluppo economico, rinvenibili nelle strutture e attivabili da attori:

(a) credit-slip, vale a dire crediti basati su obbligazioni a restituire, co-me per esempio nel caso ben noto del prestito a rotazione osservato dagli antropologi in molte società; questi sono legati all'esistenza di un ambiente affidabile, ma dipendendone da molte circostanze, non solo da una cultura

fiduciaria: per esempio, non aver bisogno dell'aiuto degli altri diminuisce la formazione di crediti e di crediti incrociati;

(b) canali informativi, che si possono stabilire per diminuire i costi dell'informazione utilizzando reti di relazione presenti per altre ragioni;

(c) norme e sanzioni efficaci, come in particolare norme e forme di controllo che richiedono di uniformare l'interesse personale a quello della collettività, fermo restando che allo stesso modo che le norme ostacolano la devianza, possono anche ostacolare l'innovazione.

Posto che tutte le relazioni e le strutture sociali mettono a disposizione forme diverse di capitale sociale, si può osservare che certi tipi di strutture sociali sono a questo riguardo particolarmente importanti. Coleman ne in-dividua alcune, in particolare:

(a) Network di relazioni chiusi, o più in generale densi, nei quali gli attori sono tutti collegati trasversalmente fra loro; queste strutture aumen-tano la possibilità di monitoraggio reciproco, generano aspettative e norme reciproche e migliorano l'affidabilità dell'ambiente;

(b) organizzazione sociale appropriabile, espressione con cui intende la possibilità di orientare un tessuto di relazioni nel suo insieme a scopi nuovi rispetto a quelli per cui si è formato; questa possibilità è connessa in molti casi al carattere molteplice delle relazioni (la multiplexity degli an-tropologi): per esempio, relazioni fra persone legate in più di un contesto, famigliare, di lavoro, religioso, ecc.

Va infine osservato - ma il punto è molto importante - che se il capitale sociale considerato finora appare come una specie di sotto-prodotto delle strutture sociali, che riguarda aspetti per così dire informali di queste, ci sono forme di capitale sociale che derivano da uno specifico investimento nella creazione di strutture capaci di generarlo: è il caso delle organizzazio-ni intenzionali create a fiorganizzazio-ni specifici - associazioorganizzazio-ni e orgaorganizzazio-nizzazioorganizzazio-ni in sen-so stretto.

Il capitale sociale è dunque qualcosa di più complesso di una attitudine culturale a cooperare, coincidente con la fiducia reciproca. Come concetto analitico per l'individuazione di risorse degli attori, si aggiunge poi da un punto di vista specificamente sociologico ai concetti di capitale finanziario e capitale umano. L' impostazione complessa di Coleman e il suo vocabo-lario sono più congruenti di altre varianti semplificate della teoria del capi-tale sociale con l'esperienza di ricerca in Italia.

La famiglia allargata della tradizione contadina e mezzadrile, così im-portante nell'attivazione dell'economia diffusa (sappiamo peraltro che si tratta solo di uno degli ingredienti), non lo è stata solo e genericamente per la socializzazione di base a rapporti fiduciari e collaborativi fra le per-sone. Si trattava di un'unità sociale - o se vogliamo di un sistema di

rela-zioni - che si prestava a essere anche una unità organizzativa efficiente per la gestione unitaria di risorse in uno specifico contesto, rispetto a partico-lari possibilità offerte dal mercato in espansione. Intanto - sia nell'agricol-tura che nell'artigianato preesistente - si trattava di una famiglia che già era una unità di produzione, dove era presente una articolata divisione del la-voro fra i membri, con linee di autorità e socializzazione differenziata. Ap-partiene a quel tipo di strutture capaci di generare capitale sociale che Co-leman chiama organizzazioni appropriabili. Nel suo patrimonio, inoltre, era compreso anche un saper fare specifico, che poteva essere orientato a nuovi prodotti o tipi di lavorazione: non a caso per queste famiglie piuttosto che di socializzazione comunitaria i ricercatori parlavano spesso di socializza-zione manifatturiera. Inoltre, i rapporti di produsocializza-zione esistenti - mezza-dria, piccola proprietà, affitto, per quel che riguarda la campagna - aveva-no permesso piccole e diffuse accumulazioni di capitale in famiglie che già conoscevano il mercato e le sue regole. L'eredità sociale che queste hanno fatto fruttare non era dunque solamente un tessuto di relazioni cooperative e fiduciarie fra un certo numero di persone, ma anzitutto un particolare si-stema di relazioni cooperative e fiduciarie, connesso poi a uno specifico ca-pitale fisico e finanziario, e a uno specifico caca-pitale umano, tutti direttamen-te e facilmendirettamen-te spendibili, in quel momento, in nuove direzioni rispetto alla vecchia economia agricola. Tutte queste cose sono mescolate nel patrimo-nio sociale ereditato dalla famiglie agricole nelle aree a economia diffusa, e rischiano di essere comprese in modo indistinto in una idea generica di ca-pitale sociale come attitudine cooperativa. Eppure proprio tutte queste co-se sono necessarie per capire - nella prospettiva di Coleman - perché in questo caso, le relazioni famigliari fiduciarie e cooperative sono state attiva-trici endogene di sviluppo.

Anche l'ambiente comunitario era produttivo di capitale sociale adatto a quella specifica forma di industrializzazione. Più che direttamente in ri-ferimento alla cultura, questo è visibile nelle reti di relazione chiuse e dense dell'ambiente sociale dei distretti, con gli effetti indicati sulla circolazione dell'informazione, il monitoraggio reciproco, l'affidabilità dell'ambiente. Quanto alla cultura, se quella comunitaria cattolica è più facilmente visibile come capitale culturale in quelle circostanze, lo è meno la tradizione socia-lista e marxista nelle regioni rosse. Forse si tratta di un caso in cui l'intera-zione produce capitale sociale nella forma di un adattamento selettivo del patrimonio culturale, nel quale cioè l'atteggiamento cooperativo in riferi-mento al mercato nasce da un processo di apprendiriferi-mento, come esperi-mento di possibilità nell'interazione diretta. Un caso dunque in cui la fidu-cia deriva meno da un serbatoio culturale e in misura relativamente impor-tante da interazioni di successo ripetute.

Nella sua formulazione originaria, come si è accennato più sopra, la teoria del capitale sociale lascia indeterminati gli effetti di questa risorsa per lo sviluppo. Così, per esempio, nella famiglia agricola tradizionale, in molte agricolture povere, le relazioni sociali e lo spirito cooperativo sono gestite dal capofamiglia e dagli anziani in modo tradizionale e a proprio be-neficio: rompere le obbligazioni familiari, incrinare il tessuto denso di rela-zioni sociali, può essere necessario per attivare una accumulazione da parte dei membri più attivi che diventano autonomi. Max Weber indicava nell'e-tica individualista calvinista una risorsa culturale attiva in questo riorienta-mento. Oggi peraltro sappiamo che rapporti capitalistici cooperativi posso-no generarsi anche su altre radici di tradizione religiosa, posso-non individualisti-che. Torniamo, in sostanza, alla questione che non il capitale sociale, gene-ricamente inteso o inteso secondo uno stereotipo semplificato, ma un certo tipo di capitale sociale può essere attivo in un certo tipo di sviluppo. Solo attrezzandoci concettualmente per gestire in tale modo complesso il pro-blema del capitale sociale possiamo sfuggire a interpretazioni banali che trovano atteggiamenti cooperativi nei processi di sviluppo. In particolare, troviamo la possibilità di comprendere come un capitale sociale (un tessuto di relazioni) può essere attivo in un momento e non in un altro, o utile in una direzione di sviluppo piuttosto che di ostacolo, al cambiare delle cir-costanze. Questa è la questione posta al prossimo punto.

(c) Il capitale sociale cresce con l'uso, ma può anche svalorizzarsi

In tutti questi anni di crescita economica, il successo misurabile in ric-chezza prodotta e diffusa nel corpo sociale verificava agli occhi degli attori la bontà e accettabilità del modello. Per questa via il capitale sociale si ri-costituiva nel tempo e anche cresceva con l'uso. Ci sono però almeno due punti critici che conviene esplicitare per confermare il significato relativo di una dotazione di capitale sociale.

Le relazioni familiari e comunitarie possono essere adattate in modo se-lettivo secondo le opportunità dello sviluppo a economia diffusa; se si trat-ta di un'azione economica di successo, questo gioca a rinforzare la selezio-ne fatta e a confermarla selezio-nel tempo. Tuttavia famiglia e comunità sono fe-nomeni sociali complessi, con valenze plurime in termini di relazioni sociali e in quanto strutture con prestazioni funzionali per il sistema sociale. La selezione operata in funzione del mercato deve essere in equilibrio con la riproduzione di contenuti affettivi, espressivi, di lealtà, che famiglia e co-munità locale assicurano. Queste strutture e relazioni primarie non posso-no essere semplicemente strumentalizzate. La selezione operata - per esem-pio la attivazione discontinua di relazioni a seconda delle circostanze - è in

tensione con la tenuta complessiva del rapporto. A questo proposito non sappiamo come famiglia e comunità locale abbiano finora retto allo stress del mercato, non sappiamo se e quanto sia intervenuta una usura di questo complesso di relazioni multiple. L'uso strumentale tende a impoverire il patrimonio. Di per sé modificazioni delle strutture sono inevitabili e anzi parte dello stesso processo di modernizzazione: in tal caso, però, deve in-tervenire un robusto processo di crescita culturale e di costruzione istitu-zionale in grado di garantire integrazione sociale nella nuova società. Dif-ficoltà a questo riguardo si riscontrano in un caso molto evidente. La forte specificità della forma economica rende necessario un riavvicinamento re-gionale del livello di governo politico, oggi generalmente riconosciuto. In alcune zone, questa necessità funzionale si è associata a spinte secessioniste sostenute da presunte specificità etniche, espresse in toni e forme che ap-paiono facilmente come una regressione comunitaristica piuttosto che co-me creazione di nuova cultura adatta. Questa regressione della cultura po-litica - sostitutiva della creazione funzionale di una cultura e di istituzioni politiche adatte - può essere anche interpretata come espressione parossi-stica di un più generale malessere da stress di relazioni sociali troppo stru-mentalizzate e non modernizzate gradualmente negli anni.

Il secondo punto critico riguarda ancora questioni di adattamento e spe-cifica quanto detto nel primo. Non solo è in gioco l'usura da stress strumen-tale delle istituzioni tradizionali; queste sono messe in questione anche da do-mande organizzative dell'economia in profondo cambiamento, come si è vi-sto all'inizio. Il capitale sociale utile nelle nuove circostanze non è tout court il capitale sociale della prima fase, che risulta dunque almeno in parte svaloriz-zato. Un esempio al riguardo può essere la questione della maggiore com-plessità organizzativa delle imprese, che richiede una gestione manageriale. La resistenza dei piccoli imprenditori a decentrare potere manageriale rivela in termini culturali e di relazione aspetti di svalorizzazione del vecchio capi-tale sociale a base famigliare e comunitaria. Si tratta di un esempio importan-te, perché tocca elementi di capitale sociale che si rivelano in potenza

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