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La natura spontanea dei processi: sviluppo endogeno o esogeno? Uno dei caratteri che hanno maggiormente attirato simpatia politica

SVILUPPO SOCIALE E MUTAMENTI PRODUTTIVI NEL MONDO RURALE EUROPEO CONTEMPORANEO

4.1 La natura spontanea dei processi: sviluppo endogeno o esogeno? Uno dei caratteri che hanno maggiormente attirato simpatia politica

sullo sviluppo a economia diffusa è certamente il suo carattere spontaneo. L'aggettivo sta qui a significare che si è trattato di uno sviluppo senza una esplicita politica per lo sviluppo regionale. Ciò non significa che la politica non abbia avuto un ruolo, o che specifici provvedimenti politici non abbia-no avuto conseguenze favorevoli. Significa invece che i risultati soabbia-no stati per molti aspetti inattesi, come conseguenza indiretta, e che - per così dire - la società civile ha fatto in gran parte da sola. Molti meccanismi nel senso detto spontanei hanno attivato lo sviluppo, anche diversi da caso a caso. Per fare un primo esempio: sia per la tradizione cattolica, sia per l'esistenza di un forte partito comunista in anni di guerra fredda, le coalizioni di go-verno guidate ininterrottamente dalla democrazia cristiana hanno sempre sostenuto in Italia la piccola proprietà contadina e l'attività artigiana, ovve-ro i ceti medi indipendenti, anche se questo poteva essere costoso in termi-ni di efficienza produttiva. Per molti antermi-ni queste forme di orgatermi-nizzazione economica sono state considerate come un residuo del passato, un costo economico da pagare alla politica. Nessun politico pensava che qui si na-scondessero risorse per un tipo di sviluppo con caratteri che nessun econo-mista riusciva a prevedere.

Altre risorse nascoste - e altri meccanismi attivatori - avevano certa-mente a che fare anche con la politica. Il capitale sociale del quale

parlere-mo all'ultiparlere-mo paragrafo è una eredità della cultura locale che ha radici lon-tane nel tempo, ma rinnovato e sostenuto in tempi successivi, che deve molto anche alle tradizioni marcate di cultura politica cattolica, in alcune regioni, e socialista, poi comunista in altre. Un momento importante è quello immediatamente successivo all'Unità politica dell'Italia: in quel pe-riodo, tanto i cattolici - per il divieto a occuparsi di politica, a causa del conflitto aperto con il papato a seguito dell'annessione degli Stati pontifici - quanto i socialisti - troppo deboli nel paese - erano di fatto esclusi dal gioco politico nazionale. Si impegnarono così, in queste regioni dove erano forti, nella politica locale, creando istituzioni e organizzazioni di governo, e specializzandosi nella gestione di società locali, di cui sostenevano l'identità culturale e gli interessi nei confronti dell'esterno.

Quando le possibilità dello sviluppo cominciano a realizzarsi, l'azione politica le asseconda in diversi modi. Così, per esempio, l'indulgenza fiscale favorisce le piccole imprese, ma non è pensata esplicitamente per loro o per i distretti industriali; oppure: una politica per lungo tempo di moneta de-bole favorisce le esportazioni, ma non si tratta di una politica pensata per lo sviluppo regionale di piccole imprese. Misure come queste valgono in tutto il paese, ma solo in alcune regioni sono fattori indiretti di sostegno a inizia-tive che nascono con riferimento anche ad altre risorse. Più esplicite sono le politiche degli enti locali, nei limiti in cui questi possono intervenire. In ge-nerale, si può però dire che di nuovo si tratta di un sostegno indiretto, non sull'economia, che si attiva e organizza per lo più per conto proprio, ma per così dire sulla società, orientato a rafforzare servizi e infrastrutture, in mo-do da sostenere famiglie e comunità, rendenmo-dole capaci di adattarsi. Con il tempo gli interventi politici tendono ad aumentare e la carenza di una po-litica adeguata diventa un problema per certe regioni e distretti. Questa pe-rò è la storia più recente.

In sostanza, il termine spontaneo serve anche a indicare che si è trattato in gran parte di un processo inatteso e non guidato, conseguenza di una miriade di iniziative che si attivavano in punti diversi, ma non ovunque, al concorrere di circostanze favorevoli. A questo punto però, «spontaneo» tende ad associarsi a «endogeno». Le circostanze, ovvero le risorse che di-scriminano le possibilità di alcune e non di altre regioni sono caratteri di quelle società locali. Lo sviluppo spontaneo appare perciò anche come svi-luppo endogeno. Ci imbattiamo così in una delle questioni ricorrenti della teoria dello sviluppo: se questo debba spiegarsi in termini endogeni o eso-geni a un sistema sociale isolato.

Prima di rivedere cosa ci ha insegnato al riguardo l'esperienza del caso italiano, torniamo un momento a quella che abbiamo chiamato la simpatia politica per il modello. La spontaneità richiama anche un'idea di facilità

dell'attivazione, un'ampia accettazione sociale, una continuità culturale senza fratture. In sostanza si genera l'idea che ci sono risorse nascoste nel patrimonio culturale di una società locale, che possono attivarsi se rico-nosciute. Probabilmente in ogni società locale ci sono più risorse di quanto di solito non pensiamo, ma il punto è che non tutte sono risorse per qual-siasi circostanza e che, quando si tratta di eredità, spesso si trovano figli e figliastri. Se una società locale non ha ricevuto quella ricca eredità di carat-teri originari adatti all'economia diffusa delle regioni centro-nordorientali dell'Italia, deve dimenticarsi le possibilità della piccola impresa? Quasi cer-tamente bisogna rispondere di no. L'analisi comparativa mostra che il mo-do di organizzarsi e di legarsi alla società della piccola impresa ha una gran-de varietà, e che se si va per il sottile non ci sono due casi uguali.

Gli incastri fra azione pubblica e azione privata, fra risorse trovate e costruite, la ricerca di alternative funzionali e le possibilità di innovazioni per mettere a frutto risorse specifiche aprono quadri di possibilità molto ampi. Le condizioni sociali e istituzionali che favoriscono uno dei possibili modi di crescita di piccole imprese sono un insieme complesso di elementi che si incontrano, ma è anche vero che spesso si notano resistenze di una società locale a procedere in direzione dello sviluppo. Per molti aspetti il caso fortunato di alcune regioni italiane è un'eccezione.

Una prima lezione che viene dalla comparazione di studi in paesi diver-si è che bisogna abbandonare diver-sia l'idea di ricette direttamente ricavate da un caso, sia di una teoria generale dello sviluppo, capace di spiegare ogni processo. Per l'analisi e la pratica dello sviluppo l'esperienza suggerisce piuttosto di adottare una strategia di spiegazione per modelli di attivazione della crescita, che si sono mostrati utili in un caso, ma non necessariamente applicabili a un altro: quanto più ne conosceremo, tanto più saremo capaci di riconoscerne di nuovi, adattando, combinando, superando i precedenti. Questo stile di ricerca è anche il più adatto a non dare per scontato che in una situazione non esistono risorse locali per lo sviluppo.

La teoria dello sviluppo sembra essere piuttosto l'insieme di questi mo-delli che non un insieme di proposizioni generali e astratte dalle quali è possibile dedurre la spiegazione di ogni caso concreto (su questo si veda il successivo punto). Ciò non toglie che i casi locali siano all'interno di un sistema mondiale dell'economia che le condiziona, e dipendenti da altre condizioni generali influenti. Con questo siamo tornati all'alternativa spie-gazione endogena-spiespie-gazione esogena.

Porre la questione ritenendo di dover decidere una volta per tutte se lo sviluppo derivi da cause e meccanismi interni a un sistema isolabile oppure esterni, significa non riconoscere quella che i filosofi chiamerebbero una antinomia. Il termine si riferisce a una alternativa che non può essere risolta

una volta per tutte, teoricamente, ma caso per caso, nella pratica e con l'os-servazione empirica.

L'analisi del caso italiano mostra bene il gioco di cause esogene ed en-dogene, che possono alternarsi nel tempo. Senza mutamenti del quadro economico generale un ritorno in forza della piccola impresa non sarebbe stato possibile. Una analisi corretta dello sviluppo a economia diffusa deve porre all'inizio la fine dei «trenta gloriosi» - della fase di crescita eccezio-nale del dopoguerra - l'accelerazione dei tempi dell'economia, la fine della produzione di massa per ragioni diverse, che possono essere indagate, ma che riguardano in generale l'economia globalizzata e la cultura contempo-ranea. Si tratta di cause o fattori esogeni. Si tratta però subito dopo di spie-gare perché alcune regioni riescono ad agganciare le nuove possibilità e al-tre no. Qui l'attenzione deve andare a sistemi sociali locali isolabili, ai loro caratteri e alle loro capacità di adattamento.

In questo momento siamo attenti ai fattori causali endogeni. L'econo-mia di piccola impresa all'inizio è ad alta intensità di lavoro e poco capace di far fronte a una crescita del costo di questo con investimenti tecnologici: molti pensavano che per una dinamica endogena, esaurito il mercato del lavoro locale, aumentata di conseguenza la pressione salariale, la crescita si sarebbe arrestata. Questa tendenza si è sviluppata, ma il problema è stato risolto di nuovo da un fattore esogeno: la tecnologia della microelettronica e le macchine a controllo numerico nate e sviluppate fuori dai distretti -consentono applicazioni elastiche e poco costose anche in piccoli impianti e permettono la modernizzazione tecnica degli impianti, l'aumento di pro-duttività, e salari maggiori.

4.2 Che tipo di teoria: modelli e meccanismi

Bisogna usare con cautela le correlazioni statistiche fra dati aggregati. Trovare una correlazione statistica fra due fenomeni e dire che uno è la causa dell'altro non basta. Bisogna spiegare come da uno si passa all'altro (Elster, 1989).

Per spiegare i processi sociali, è poi necessario tener conto delle con-giunture e far posto all'innovazione, o più in generale comprendere come gli attori definiscono e si adattano alle situazioni mutevoli in cui si trovano.

James Coleman (1986) ha dato un'indicazione di metodo importante che tocca entrambi questi punti: invece di analizzare direttamente relazioni tra fenomeni a livello macrosociale (per esempio, con correlazioni fra dati aggregati), bisogna sempre cercare di stabilire come eventi o condizioni macro influenzano individui in situazioni specifiche, bisogna poi vedere

co-me questi assimilano i cambiaco-menti, elaborando strategie adattive, e suc-cessivamente stabilire gli effetti aggregati di nuovo macrosociali delle azioni dell'insieme di individui coinvolti. Se non si stabilisce questo percorso a U si fa una specie di cortocircuito e la spiegazione sociologica salta. A partire da qui si possono immaginare un metodo e un'idea di teoria adatti a una età dell'incertezza, di trasformazioni veloci e di giochi aperti, che tenga dunque conto degli attori e delle loro interazioni.

Livello macro

Livello micro

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Relazioni macro-micro-macro secondo J. S. Coleman (1986).

Lo sviluppo è un processo che tocca una società. Questa società può essere rappresentata da un modello semplificato della sua struttura, che isola alcuni suoi caratteri ritenuti importanti, in relazione fra loro. E però necessario individuare i processi attraverso i quali la struttura sta insieme e si mantiene nel tempo, quelli che l'hanno resa possibile e quelli che la mo-dificano. Questi processi sono chiamati meccanismi sociali (Hedstròm e Swedberg, 1996).

Le teorie dello sviluppo si sforzano di individuare meccanismi di questo genere. Alcune volte sono teorie che mettono direttamente a contatto aspet-ti macro e vanno in cortocircuito: non spiegano le correlazioni che trovano. Altre volte attivano il circuito più lungo e arrivano a spiegare processi acca-duti o a orientare alla comprensione di processi in corso. Naturalmente l'a-spirazione degli scienziati sociali è produrre teorie che vadano al di là della spiegazione di un singolo caso, e si sono così cumulate molte teorie con que-sta aspirazione. Se si fa un bilancio, si arriva però a una conclusione scon-certante: non ce n'è una che non abbia ricevuto qualche smentita. Questo è appunto il bilancio che fa Raymond Boudon riconsiderando la tradizione di ricerca (1984). Egli osserva però che, a ben vedere, non si tratta di un bi-lancio fallimentare. E difficile che una teoria abbia completamente torto, e non è il caso di buttare via tutto, ma di capire come le teorie disponibili pos-sano essere utili più in generale, al di là del caso o dei casi che hanno spie-gato. La risposta è che queste devono essere intese come modelli, validi a

certe condizioni e non in altre, che sono di carattere generale non in quanto capaci di spiegare tutte le stesse situazioni osservabili, ma perché possono essere utilizzati, come lui dice, per spiegare situazioni molto diverse, a con-dizione di fornire le opportune precisazioni in ogni caso osservato.

Non si tratta quindi di inseguire una teoria generale dello sviluppo, sempre vera e buona per ogni occasione, ma di individuare sempre più meccanismi; con una immagine, si tratta di arricchire quanto più possibile la nostra cassetta degli attrezzi, rifornirla di modelli formali che indicano delle possibilità empiriche, e che hanno mostrato la loro utilità in qualche caso. Le stesse condizioni di quei casi non si ripeteranno mai esattamente. A volte una teoria non spiegherà proprio niente di una nuova situazione che osserviamo; spesso avremo bisogno di combinare diversi modelli per capire un caso, o anche di costruirne di nuovi. Le teorie dello sviluppo e le ricerche svolte hanno individuato moltissimi meccanismi sociali, hanno sbagliato quando li hanno proposti come teorie generali.

Si tratta di meccanismi che mostrano come condizioni generali hanno conseguenze per le credenze, i desideri, le opportunità di attori localizzati in situazioni particolari, relativi cioè alla linea 1 della figura; di meccanismi relativi al modo in cui gli attori elaborano i dati esterni con le loro intera-zioni (linea 2) ; e infine di meccanismi relativi agli effetti aggregati di queste interazioni, che possono essere previsti o inattesi, voluti o subiti.

Possiamo a questo punto riprendere ancora una volta quanto abbiamo detto sullo sviluppo a economia diffusa. Vedremo che la metodologia se-guita è proprio del tipo indicato, anche se in concreto il processo di ricerca è stato molto più confuso e disordinato di quanto possiamo ora a posteriori razionalizzare.

Gradualmente, è emerso dalla ricerca un modello della struttura sociale regionale a economia diffusa, che abbiamo qui ricordato per sommi capi. Abbiamo indicato alcune nuove condizioni esogene alla sua origine e poi ricostruito un insieme di caratteri di società locali che potevano essere ri-sorse per sfruttare nuove possibilità imprenditoriali: le medie città con le loro tradizioni economiche e comunitarie, unite alle campagne con grandi famiglie di contadini e mezzadri, decisive per un mercato del lavoro elasti-co e poelasti-co elasti-costoso. Per elasti-comprendere le risorse di queste società locali, e elasti- co-me queste venivano percepite e utilizzate, la ricerca ha dovuto investire sul-lo studio ravvicinato degli attori in situazioni sul-locali. In questo modo sono stati individuati molti meccanismi relativi agli effetti delle condizioni gene-rali sulle situazioni locali, all'interazione degli attori locali e agli effetti ag-gregati delle loro azioni. Questi effetti finali erano appunto lo sviluppo in-dustriale di piccola impresa in settori e combinazioni organizzative diverse, vale a dire il problema da spiegare.

Possiamo fare, più in dettaglio, un esempio delle strutture e dei mecca-nismi che si distinguono con lo studio ravvicinato di situazioni locali. Una ricerca in Veneto (riassunta in Bagnasco,1988) ha mostrato la compresen-za, in un distretto, di imprese meccaniche e dell'abbigliamento, senza rela-zioni commerciali fra loro. I due settori sono diversi per tecnologia, pro-duttività del lavoro, livelli dei salari e stabilità dei mercati: l'abbigliamento ha una minore produttività, paga salari più bassi e ha rapporti di lavoro più precari. Non si verificano tuttavia tensioni sul mercato del lavoro per que-sta convivenza, e più in generale si pone la questione di come e perché i due settori stanno bene insieme. Questo si capisce se si osservano da vicino gli attori e le loro strategie. Il settore della meccanica occupa uomini, quello dell'abbigliamento donne. La strategia tipica degli uomini è di migliorare i salari e sviluppare la carriera professionale, più spesso essi sono iscritti a un sindacato e se possono si mettono in proprio. Le donne sono poco preoc-cupate di professionalità e carriera e meno orientate all'azione collettiva. Questo non deriva da un atteggiamento culturale per cui le donne «si ac-contentano». Le donne giovani sono infatti pagate come gli uomini giovani all'inizio della carriera, quando anche loro hanno basse qualifiche; il fatto è che le donne sono sempre giovani, e qui la cultura entra di nuovo in gioco con il modello della grande famiglia con molte funzioni: le donne dell'ab-bigliamento sono spesso figlie e mogli appena sposate di operai del tessile, che escono definitivamente dal mercato del lavoro con il primo figlio.

Se guardiamo alle strategie degli imprenditori, troviamo che si integra-no a quelle degli operai in modo speculare. Gli imprenditori dell'abbiglia-mento operano su mercati molto instabili, in un settore in cui la tecnologia non è molto dinamica, ciò che rende rischiosi investimenti fissi importanti. Ottenere un costo del lavoro relativamente basso e un uso elastico della forza lavoro è conveniente. Nella meccanica, un mercato più stabile e inve-stimenti più importanti consentono un sentiero di crescita della produttivi-tà e dei salari.

Si possono a questo punto trovare gli effetti di aggregazione. Le impre-se hanno relazioni di lavoro adatte, i due mercati del lavoro sono accettati socialmente come distinti, la famiglia allargata abbassa i costi di riproduzio-ne sociale e dunque la pressioriproduzio-ne sui salari in geriproduzio-nerale. L'effetto aggregato finale sono dunque alti tassi di attività, costo medio del lavoro piuttosto basso, ma differenziato a seconda della produttività del settore, continuità culturale. Gli attori hanno selezionato nel loro patrimonio culturale risorse sociali impiegate in nuove direzioni.

Il modello di meccanismo descritto spiega quella specifica situazione studiata, e probabilmente può essere applicato a diverse altre. Ma in genere bisognerà adattarlo, fornire, come si diceva sopra, le opportune

precisazio-ni. Una ricerca in un distretto simile, con gli stessi settori, in una regione vicina a economia di piccola impresa, la Toscana, ha trovato una situazione e strategie parzialmente diverse. Anche qui i due settori hanno un mercato del lavoro distinto per sesso, ma si trovano anche la tradizione di una cul-tura politica di sinistra, maggiori tradizioni sindacali, un minor peso e mi-nori funzioni economiche della famiglia. Le donne escono dal mercato del lavoro quando hanno i figli piccoli, ma poi se possono rientrano. Dobbia-mo allora aspettarci una maggiore pressione sui salari, una maggiore spinta all'innovazione tecnologica e una maggiore produttività del lavoro rispetto al primo caso. Al momento della ricerca questo è stato appunto verificato. Gli studi localizzati hanno individuato una quantità di meccanismi di questo genere, diversi anche da distretto a distretto. I loro modelli formali sono stati applicati, modificati, sostituiti. Un ricercatore che affronti lo stu-dio di un distretto può cominciare facendo ricorso alla scatola degli attrez-zi, può anche non trovare niente che gli serva davvero, ma provando gli strumenti disponibili potrà rendersi conto della differenza e troverà più fa-cilmente quale sia il diverso meccanismo in gioco nel suo caso.

Questi modelli possono essere anche applicati in situazioni dove lo svi-luppo non c'è e servono allora per scovare ostacoli e risorse latenti. Spesso le situazioni locali saranno molto diverse da quelle fortunate descritte. Ve-diamo due esempi a questo proposito. Il primo riguarda un meccanismo dello sviluppo a economia diffusa che ha prodotto un effetto macro perver-so; l'esempio mette in luce come non sia vero che nell'Italia meridionale, che non è diventata una zona di sviluppo a economia diffusa, restando per molti aspetti un'area sottosviluppata, non ci fossero certe risorse utili all'economia diffusa; queste sono però state compromesse. Quando è au-mentata la capacità di produzione di beni di consumo da parte delle regio-ni del centro-nordest, i loro mercati si sono estesi anche al sud. Qui i con-sumatori erano attirati da beni di gusto nuovo e a buon mercato. Gli

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