È ormai diffusa consapevolezza che la più funzionale opera di prevenzione di patologie individuali e sociali, e quindi anche di riduzione della spesa sociale e sanitaria, può essere realizzata soltanto attraverso azioni efficaci promosse a partire dall’epoca della nascita.
Il valore di una società si misura prioritariamente sul senso che essa riconosce alla vita ed alla dignità di ciascuna persona quale figlia unigenita della vita stessa.
La legislazione italiana tutela i diritti di chi genera e di chi nasce, al suo interno il rispetto dei diritti dell’adulto non si contrappone, ma è funzionale al rispetto dei diritti del minore.
Alla donna viene riconosciuto il diritto preliminare ad essere informata, il diritto se riconoscere o meno come figlio il bambino generato, il diritto alla segretezza del parto qualora abbia già deciso di non riconoscere il proprio nato e il diritto alla necessaria assistenza. Inoltre, qualora non abbia ancora maturato la propria decisione in ordine al riconoscimento, può richiedere al Tribunale per i minorenni un ulteriore periodo di riflessione, al massimo di due mesi, attivando la sospensione della procedura di dichiarazione di adottabilità del minore.
Al bambino viene riconosciuto il diritto a crescere in una famiglia, anche diversa da quella di origine, in grado di garantirgli le condizioni adeguate ad un armonico sviluppo psico-affettivo e fisico.
La legislazione italiana, nell’ambito di questa materia, è decisamente avanzata in quanto riconosce la donna che partorisce ed il bambino che è nato quali individualità distinte e separate, titolari di diritti propri scaturiti dal riconoscimento dei rispettivi bisogni vitali.
Sul piano normativo dunque esistono i presupposti necessari per proteggere la nascita a rischio psico-sociale e per affrontare i problemi ad essa connessi.
Episodi di grande allarme sociale troppo frequentemente segnalati dagli organi di stampa, come il maltrattamento, l’abuso, l’abbandono di neonati, sino all’atto estremo dell’infanticidio, la violenza, il femminicidio, impongono una riflessione sulle determinanti causali di tali fenomeni per poter mettere a punto strategie efficaci di intervento in termini di prevenzione primaria e secondaria e per poter operare una verifica in ordine ai modelli operativi adottati da pubblico e privato.
Parlare di maternità evoca nell’immaginario collettivo, una sorta di dimensione sacrale sulla quale si è declinato il senso dell’esistenza dell’umano e centrato ed elevato a valore assoluto il ruolo del femminile, quale garante della continuità e salvaguardia della specie.
Queste premesse ci portano ad una considerazione , che non sia sufficiente una buona legge, sempre supponendo che essa sia conosciuta e correttamente applicata, a garantire una efficace protezione della donna, ma ci vogliono interventi organizzativi che migliorino l’assistenza e l’accoglienza delle donne in difficoltà in ogni fase delicata della sua vita.
Oggi noi sappiamo che un bambino che nasce in condizioni di rischio, rischio connesso agli esiti che la sua nascita, può produrre in termini di compromissione del processo di strutturazione della propria identità, di danno psicologico, di sofferenza individuale e di disfunzione sociale, nonché di ricaduta in termini di costo economico sulla collettività. Problematica che si ripercuote per tutta la durata della vita. (Dolto, 1995)
Parliamo di maternità e non di genitorialità difficile perché far nascere, un figlio è decisione preminente della donna; il partner, quando c’è, si coordina alla sua decisione, le maternità difficili di cui i servizi solitamente si occupano sono vissute da donne sole.
Se si vuole conoscere il bambino e cogliere autenticamente i suoi bisogni, nel rispetto dei suoi diritti, bisogna partire dal suo luogo fonte, ovvero dalla predisposizione base, dalla motivazione, dalle condizioni che determinano la sua nascita; dobbiamo dunque conoscere la donna che genera.
Le analisi comunemente condivise collocano le maternità difficili a ridosso di precise categorie di disagio che, ad ampio ventaglio, comprendono adolescenti, persone infantili, immature sul piano psico-affettivo, straniere emigrate, tossicodipendenti, donne affette da disturbo psichico o da patologia psichiatrica, persone senza fissa dimora, donne violentate e abbandonate, tutte unite da un comune denominatore: la condizione di isolamento relazionale, la fragilità della struttura di personalità, la solitudine e l’assenza di rapporti significativi sul piano affettivo, la mancanza di riferimenti familiari o amicali, le precarie condizioni socio-ambientali. Molto spesso queste donne sono portatrici di storie familiari pregresse caratterizzate da grave deprivazione, abbandono, violenza e dall’assenza di riferimenti affettivi e di modelli di identificazione adeguati. Non di rado il bambino concepito è frutto di un abuso sessuale subito.
Meno facilmente invece riconosciamo come gravidanze difficili, perché non collocabili nelle categorie dove il disagio viene “socialmente riconosciuto e tollerato”, quelle vissute da donne che si affacciano alla generatività in condizioni di immaturità o di prematurità genitoriale, presupposti che solitamente interferiscono con l’assunzione del ruolo genitoriale sul piano psichico. Tale limitazione percettiva produce di sovente, in queste circostanze, disattenzione e sottovalutazione dei segnali di rischio.
La gravidanza che abbiamo definito a rischio psico-sociale spesso si manifesta, sul piano della consapevolezza, quando sono già superati i tempi previsti dalla legge per valutare l’ipotesi di una interruzione spontanea della stessa. A volte la gestazione, proprio perché negata sul piano
cosciente, non viene affatto percepita e si impone, con tutta la sua drammaticità al momento del parto, vissuto come evento dirompente e destrutturante che attiva, in condizioni di panico e di sospensione dell’esame di realtà, il meccanismo, purtroppo noto, della eliminazione del proprio nato, in quanto percepito come estraneo a sé e minaccioso per la propria esistenza, dunque da espellere.
La solitudine e l’impossibilità di comunicare ad alcuno la propria condizione di sofferenza, accompagnano sempre questi eventi drammatici ai quali solitamente ci si rivolge con orrore e con giudizio di condanna, più raramente con il tentativo di comprenderne le determinanti causali.
Queste donne sono persone segnate da condizioni estreme di vita, accompagnate da solitudine, silenzio e timore del giudizio, che in talune circostanze possono trovarsi a compiere azioni drammatiche.
Per interrompere la catena del silenzio e della negazione che nutre e garantisce il perpetuarsi di tale fenomeno, è dunque necessario che la comunità sociale prioritariamente lo riconosca e promuova in ordine a tali problematiche uno spazio di comunicabilità possibile, dove vengano garantite l’informazione, la comunicazione e la relazione di aiuto funzionali al bisogno di quella donna e di quel bambino, in quel particolare momento della loro vita. La coesistenza di questi tre elementi può rappresentare, per una donna in difficoltà, la condizione per accedere ad una scelta consapevole quale soggetto delle proprie azioni e non oggetto delle personali dinamiche.
È necessario e preliminare operare, su tali tematiche, un cambiamento culturale e di morale nel pensiero comune, già a partire dall’utilizzo del termine “abbandono”, che evoca in sé un giudizio morale, con cui impropriamente si connotano fenomeni diversi.
Con il termine abbandono si intende rappresentare sia l’azione di lasciare esposto un neonato a condizioni di rischio di vita, non preoccupandosi di collocarlo in prossimità di figure
adulte accudenti, sia l’azione di collocarlo invece in contesti ritenuti suscettibili di attivare una sua tempestiva presa in carico. Questa immagine evoca le vicende di neonati lasciati sulle scale delle chiese e quella della più famosa “ruota”, il meccanismo prossimo ad istituti di ricovero dove le donne, nel passato, deponevano il proprio nato quando erano impossibilitate ad occuparsene.
Entrambe queste modalità rappresentano l’aspetto fenomenico del “segreto e della vergogna” che di sovente accompagnano queste nascite, sentimenti indotti che privano la donna ed il bambino del rispetto e della dignità di persone e li riducono ad oggetti agiti.
L’infanticidio è un fenomeno che trova le sue radici nell’origine della storia dell’umano, ma in una società civile segnala il fallimento o la mancata attuazione di misure di protezione, di difesa e di tutela della vita.
Con il termine “non riconoscimento” si intende la decisione sofferta, ma responsabile e protettiva di chi genera di non riconoscere come figlio il proprio nato; questa evenienza consente, per l’immediatezza della segnalazione al competente Tribunale per i minorenni, il tempestivo collocamento del bambino in adeguato contesto familiare. La scelta del non riconoscimento può essere sostenuta da diverse motivazioni; nella prevalenza delle situazioni chi ha generato, nella consapevolezza delle proprie condizioni, dei propri limiti e dei rischi a cui esporrebbe il proprio nato, rinuncia ad esercitare la funzione di genitore, consentendo l’immediata attivazione, a tutela del minore, dell’iter giuridico dell’adozione.
In tali circostanze possiamo immaginare il periodo della vita intrauterina, per il processo di risonanza del feto allo stato emotivo ed endocrino della madre, caratterizzato da una condizione di incertezza, di ambivalenza, di sospensione, di conflitto, di rifiuto. La madre trasmette al feto attraverso molteplici canali, non solo gli elementi del proprio stato biologico, ma anche quelli della
propria sfera mentale ed emotiva. Già prima della nascita il bambino assimila l’universo di senso che a lui viene declinato dalla donna che lo ha generato.
«Il feto reagisce nel corpo della madre esattamente come un organo del suo corpo. Conse-guentemente come un qualsiasi organo di un essere umano può ammalarsi per infiltrazione di emozioni negative, così accade la lesione dell’autonomia ed integrità del futuro bambino».
(MENEGHETTI, 1995) . Ogni bambino ha bisogno di quel genitore capace di consentire ed agevolare la sua realizzazione.
Il momento del parto rappresenta il “punto zero”.
Il più delle volte costituisce l’unica occasione di contatto con donne irraggiungibili e di osservazione di una relazione genitoriale che già mostra i segni di sofferenza ed i prevedibili rischi evolutivi. Il momento della nascita è la condizione esclusiva in cui tutto è visibile, se si vuole vedere, è un momento in cui potenzialmente è possibile porre in essere interventi di protezione e di aiuto, nel rispetto dei diritti e dei bisogni di chi genera e di chi nasce. È a partire da questo momento, a forte valenza strutturante, in un’area particolarmente “scoperta” di servizi di diagnosi e di prognosi e di interventi psico-sociali che debbono essere progettate azioni di rete volte a proteggere la nascita e a sostenere la relazione genitoriale.
Solo da una corretta lettura del bisogno è possibile progettare servizi che producono una efficace ricaduta in termini di ben-essere.
In via preliminare è necessario promuovere forme adeguate e mirate di informazione e di sensibilizzazione rivolte alle donne, ed alla comunità sociale, attraverso modalità di comunicazione efficaci che raggiungano sia la dimensione logico-razionale, sia quella più profonda emozionale, per
consentire alla donna l’esame degli aspetti di realtà insieme a quelli dinamici che sono la causalità prima delle azioni messe in atto.
Depliants informativi sulla legislazione italiana in merito ai diritti della donna e del nascituro e di orientamento ai servizi potrebbero essere predisposti ed anche tradotti nelle lingue delle etnie presenti nel nostro paese, tenendo conto degli specifici codici culturali e diffusi nell’ambito dei consolati, dei centri Caritas, dei centri di ascolto, di tutte le strutture e le associazioni del terzo settore, dei servizi socio-sanitari, nonché dei reparti ospedalieri di maternità, ambiti nei quali, per motivazioni di diversa natura, accedono donne in difficoltà.
Parimenti potrebbero essere progettate, d’intesa con il Ministero della pubblica istruzione e con quello del lavoro e delle politiche sociali, campagne di informazione e di sensibilizzazione al problema, nella fascia adolescenziale della scuola dell’obbligo, anche al fine di creare uno spazio, luogo di “pensabilità” e “comunicabilità” su eventi intorno ai quali solitamente si coniuga il silenzio ed il meccanismo di negazione collettiva, l’ormai famoso “nessuno si era accorto di nulla”.
La stipula di protocolli di intesa tra tribunali per i minorenni, uffici di stato civile, enti locali, Asl, nello specifico consultori familiari, dipartimenti di salute mentale e servizi tossicodipendenze, centri nascita di aziende ospedaliere e coordinamento delle comunità di accoglienza, renderebbe possibile la messa a punto di un modello operativo che si avvale del contributo delle diverse e specifiche competenze professionali e consentirebbe l’efficace messa in rete di risorse sanitarie, sociali ed educativo-assistenziali che, nel rispetto della privacy, potrebbero consentire la precoce individuazione del bisogno o del disagio e la presa in carico della persona.
Serve formare specifiche categorie professionali, con l’obiettivo di costituire unità operative specializzate che operino a livello interprofessionale, secondo un modello condiviso.
Al riguardo, di maggiore complessità appare il problema della formazione e di quella che possiamo definire “autenticazione” degli operatori, pubblici e privati, che a vario titolo incontrano donne che si trovano ad affrontare una gravidanza inattesa o a rischio psico-sociale.
La complessità risiede nella imprescindibile necessità che l’operatore possegga la condizione di “autenticità”, intendendo per autenticità la piena conoscenza e la consapevolezza di sé, del proprio sistema di valori e delle personali dinamiche, unite alla capacità di percepire l’altro come persona da sostenere perché realizzi, con sufficiente consapevolezza, la “propria scelta”. Chi intercetta momenti di così forte pregnanza emotiva, strutturanti la vita, ha l’obbligo di essere autentico e consapevole a sé stesso. Realizzare tale condizione di autenticità della persona appare un obiettivo più complesso perché ha a che fare con il percorso di maturazione, di coscientizzazione e di elaborazione di ciascun individuo. All’operatore che svolge una professione di aiuto, si chiede inoltre di superare la rassicurante dimensione di autoreferenzialità, per collocarsi in quella di interprofessionalità. Il lavoro in équipe e la ineliminabile presenza di spazi di supervisione possono contenere i rischi connessi all’interferenza di aspetti dinamici personali.
Mi riferisco, nello specifico, ai rischi purtroppo frequenti di contaminazione ideologica, di proiezione inconsapevole delle personali dinamiche sugli altri, di induzione di scelte.
La severità di giudizio a volte espressa da alcuni nei confronti di chi manifesta la possibilità di non riconoscere il proprio nato, può stigmatizzare ad indurre scelte non rispettose della intima posizione dell’altro e non funzionali al benessere ed alla evoluzione psico-affettiva di chi genera e di chi nasce; forse può risultare più utile interrogarsi, in tali situazioni, sul perché ci si pone di fronte all’altro utilizzando una pre-costituita, personale lettura della realtà.
Centriamo dunque il focus sui punti di criticità connessi al fenomeno della nascita a rischio per individuare i punti forza su cui investire in termini progettuali, con la prospettiva di realizzare il
cambiamento ed interrompere la catena del disagio che si “autoperpetua” e dell’assistenzialismo che si autopromuove.
La legge 328/2000 riconosce il valore della partecipazione attiva della persona ai processi civili, sociali e lavorativi e ne rivendica la portata in termini di ricchezza sociale. È indispensabile restituire al cittadino il diritto di cittadinanza di sé, facendolo uscire dalla condizione di sudditanza da uno Stato che mantiene in una condizione di dipendenza e che non emancipa. Compito delle istituzioni preposte è la promozione di politiche integrate che favoriscano la capacità di investimento e di empowerment personale.
Particolarmente in questa delicata area di intervento le politiche sociali debbono muoversi in un’ottica di prevenzione, intesa non solo come rilevazione precoce delle condizioni di rischio, ma come attivazione di risorse positive multiple che producono cambiamento e benessere.
Ed è proprio il cambiamento, in termini di processo di crescita finalizzato a realizzare autonomia e salute, la vera scommessa delle politiche sociali del terzo millennio. Se vogliamo tendere alla costruzione di una società composta di individui sani, autonomi e sufficientemente felici dobbiamo partire dalla sua cellula iniziale, l’individuo, dal momento della sua nascita, riconoscendogli il diritto a crescere in un ecosistema psico-affettivo capace di consentire lo sviluppo del suo potenziale di natura in modo sano e funzionale.
Il sistema sociale, ed in questo caso l’ente locale, deve porsi come ecosistema funzionale alla realizzazione di ciascun individuo proponendo quegli elementi di nutrimento che è tenuto a fornire, seguendo la logica della crescita e dell’emancipazione e non quella della conferma in condizioni di dipendenza infantile. (PERSIANI, aprile - giugno 2005)
La dominanza di interventi compensativo-riparativi di natura assistenziale ha portato sovente ad un rinforzo del disagio, alla cristallizzazione di categorie di assistiti, ad una radicalizzazione passivizzante di una dipendenza che disattiva le risorse personali.
La realizzazione di efficaci interventi impone anche un cambiamento radicale delle politiche sociali e l’assunzione di una nuova identità da parte dei servizi che da socio-assistenziali dovrebbero divenire socio-promozionali, centrati sulla persona e su una corretta decodificazione del bisogno, con capacità di promuovere crescita, autonomia e benessere.
Di seguito si è voluto porre l’accento su alcune strategie possibile da poter mettere il atto.
Per molti anni i ricercatori si sono interessati allo studio dei fattori che promuovono strategie di coping e resilienza, nonché del benessere soggettivo .
Di fronte ai fallimenti, alle perdite, ai problemi personali, alcune persone reagiscono con serenità, altre, invece, aggravano la loro angoscia ruminando sulle calamità della vita e castigando se stessi per i loro difetti e problemi . (Leary, 2007 ) .
Le Strategie di Coping sono, dunque, le modalità che definiscono il processo di adattamento ad una situazione stressante. Tuttavia, esse non garantiscono il successo di tale adattamento. Infatti, il Coping, se è funzionale alla situazione, può mitigare e ridurre la portata stressogena dell’evento, ma, se è disfunzionale ad essa, può anche amplificarla.
Come sopra anticipato, con il termine coping ci si riferisce all’ insieme degli sforzi cognitivi e comportamentali attuati per controllare specifiche richieste interne e/o esterne che vengono valutate come eccedenti le risorse della persona . Si evincono da tale definizione quelle che sono le caratteristiche distintive del coping, ossia:
a. è un processo dinamico, in quanto è costituito da una serie di risposte reciproche, attraverso le quali ambiente e individuo si influenzano a vicenda;
b. comprende una serie di azioni, sia cognitive che comportamentali, intenzionali, finalizzate a controllare l’impatto negativo dell’evento stressante.
Il coping, inoltre, svolge diverse funzioni fondamentali in base alle quali può essere suddiviso in diverse tipologie:
I. Emotion-focused coping, che consiste nella regolazione delle reazioni emotive negative conseguenti alla situazione stressante;
II. Problem-focused coping, che consiste nel tentativo di modificare o risolvere la situazione che sta minacciando o danneggiando l’individuo . (Neff K. D., 2005)
Si possono distinguere tre tipologie di coping predominanti:
coping centrato sul compito (task coping): è rappresentato dalla tendenza ad
affrontare il problema in maniera diretta, ricercando soluzioni per fronteggiare la crisi;
coping centrato sulle emozioni (emotion coping): rappresentato da abilità specifiche
di regolazione affettiva, che consentono di mantenere una prospettiva positiva di speranza e controllo delle proprie emozioni in una condizione di disagio, oppure di abbandono alle emozioni, come la tendenza a sfogarsi o, ancora, la rassegnazione;
coping centrato sull’evitamento (avoidance coping): rappresentata dal tentativo dell’individuo di ignorare la minaccia dell’evento stressante o attraverso la ricerca del supporto sociale o impegnandosi in attività che distolgono la sua attenzione dal problema.
In particolare, gli studi sugli stili di coping nel corso di malattie croniche, violenze, lutti , ecc., hanno evidenziato che l’essere attivi, il pensare positivamente e l’ esprimere le proprie emozioni correla positivamente con livelli di funzionamento significativamente più alti, con punteggi più positivi nelle misure cliniche della malattia e con migliori livelli di adattamento psicologico.
Ma si possono descrivere anche altre strategie di coping:
1. strategie attive di coping: rappresentate dal tentativo del paziente di controllare in qualche modo il proprio dolore (per esempio, facendo gli esercizi consigliati dal terapista) oppure dal tentativo di mantenere un buon livello funzionale, nonostante il permanere del dolore stesso,
2. strategie passive di coping: per cui il paziente lascia il controllo del proprio dolore ad altri o permette che altre aree significative di vita vengano influenzate negativamente dal dolore.
Secondo tale formulazione la differenza fondamentale tra strategie attive e passive si fonda, quindi, sul fatto che il paziente faccia affidamento su risorse interne a sé o esterne nella gestione del proprio dolore. (Neff K. D., 2005)
Si può, quindi, concludere che l’elemento essenziale per un buon adattamento allo stress,
Si può, quindi, concludere che l’elemento essenziale per un buon adattamento allo stress,