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Lavoro e previdenza: tra equilibri finanziari, stili di vita e demografia 13

3. L’INVECCHIAMENTO ATTIVO IN ITALIA

3.2 L’Occupazione nell’Aai 7

3.2.4 Lavoro e previdenza: tra equilibri finanziari, stili di vita e demografia 13

Molteplici interventi normativi14 hanno procrastinato l’età di ritiro dal lavoro.

La fase riformatrice è sostanzialmente motivata dalla insostenibilità finanziaria (troppe pensioni, troppo alte, scarsa crescita economica, pochi figli) e dall’aumento della speranza di vita (nel 2019 81 anni gli uomini e 85,3 le donne).

La prima ricognizione degli assetti previdenziali italiani è relativamente recente: fu della Commissione Onofri da cui scaturì il primo intervento normativo del governo Amato, da cui ebbe inizio questa fase riformatrice, siamo all’inizio degli anni 90. Per vent’anni non si sono fatti interventi incisivi, poi nel 2010 improvvisamente, la matematica attuariale diede avvio a una stagione di lacrime e sangue, misure di solidarietà e responsabilità intergenerazionale, con se-vere conseguenze sugli stili di vita. Nella prima fase, è utile ricordarlo, si tergiversò per prolun-gare di qualche mese l’attività lavorativa a neo-cinquantenni o per ridurre di qualche decimale il rapporto tra ultimo stipendio e prima pensione. Per oltre 20 anni le riforme sono state fatte sulla posterità15, tipicamente più silente e accomodante, e soprattutto ignara degli effetti futuri.

13 Il paragrafo è stato curato da Emiliano Mandrone.

14 L’armonizzazione e stabilizzazione del sistema previdenziale ha preso avvio con il D.L. 503/1992 che ha disposto il graduale innalzamento dell’età pensionabile e l’avvio di un processo di allineamento del regime pensionistico dei pubblici dipendenti e di altre categorie speciali a quello del regime generale. In questo processo graduale c’è uno spartiacque: a decorrere dal 1° gennaio 1996 la L.335/1995 introduce il sistema contributivo e l’innalzamento a 40 anni per il ritiro dal lavoro. Alcune messe a punto sono introdotte dalla L.449/1997 (art.59). La L.47/2007 introduce le quote tra età anagrafica e anzianità contributiva. La L.122/2010 introduce la c.d. “speranza di vita”: il momento del pensionamento diviene mobile perché agganciato all’andamento della aspettativa di vita. Inoltre innalza a 65 anni l’età di accesso alla pensione di vecchiaia per le donne del pubblico impiego, e le finestre mobili per l’erogazione del trattamento pensionistico. La L.183/2011 introduce una salvaguardia imponendo dal 2026 un’età minima non inferiore a 67 anni per l’accesso alla pensione. La L.214/2011 generalizza secondo il meccanismo pro rata, il metodo contributivo di calcolo delle pensioni; abolisce le pensioni di anzianità e le “finestre” di uscita, viene incrementata l’età di pensionamento delle lavoratrici dipendenti fino alla convergenza di genere nel 2018. Si prevedono penalizzazioni percentuali sulla quota retributiva dell’importo della pensione anticipata.

Le riforme introdotte, inoltre, hanno dei costi collaterali e indiretti da considerare af-finché l’analisi costi-benefici sia corretta. Ad esempio sono evidenti i rischi di un collasso della produttività: per tenere in attività vaste componenti della popolazione di 65 anni e oltre, servono politiche tempestive e diffuse di prevenzione delle più comuni patologie, senza le quali sarà impraticabile lavorare in tarda età (Mazzaferro, Morciano, 2012) e avere un capitale umano aggiornato, pena un conseguente crollo della resa lavorativa e sociale.

Al di là delle considerazioni in merito alla modalità di intervento sul sistema previden-ziale, è evidente che le riforme siano state intempestive e inique, in termini di costi-benefici intergenerazionali, perché scaricano gran parte del peso sulle generazioni a venire. Sulla dilazione degli interventi, ormai, c’è poco da fare. Invece molto di deve fare per rendere lo schema di riforma credibile. Infatti, l’invecchiamento è influenzato dalla eredità genetica e da danneggiamenti indotti da fattori ambientali quali lo stress, l’inquinamento, l’alimenta-zione, lo stile di vita. Siamo direttamente responsabili del 70 per cento del nostro invec-chiamento, ovvero dipende da condizioni e fattori ambientali su cui si può intervenire. Molti di questi processi degenerativi possono peraltro essere prevenuti sui luoghi di lavoro e si contrastano senza medicinali, con qualche forma di attività fisica mirata, una dieta corretta e una migliore ergonomia delle postazioni. Il libro Get up (Levine, 2014) si riferisce ai danni causati dalla sedentarietà dovuta all’abuso da “poltrona d’ufficio”: è correlata a 20 patologie croniche. Sostituire regolarmente la poltrona ergonomica, consente di prevenire mesi di assenza dal lavoro per problemi osteoarticolari.

Paradigmatico l’esperimento condotto dall’azienda automobilistica Bmw nel 2007, con una linea di produzione composta esclusivamente da lavoratori over 50. Attraverso il loro coinvolgimento, unitamente all’intervento di tecnici e fisioterapisti, con un investimento molto modesto sono state modificate l’organizzazione e le attrezzature di lavoro (pavimenti in legno, calzature e sedie ergonomiche, monitor orientabili, pause cadenzate). Il risultato è stato una diminuzione delle patologie e un forte incremento della produttività.

“Lo scenario gerontologico si fa promettente: perché se diviene possibile posticipare l’età di insorgenza delle malattie croniche riducendone l’impatto disabilitante più rapidamente di quanto non aumenti ogni anno l’aspettativa di vita, allora appare realistico un incremento del tasso di attività” (Filippi, 2014). Se i segnali sono incoraggianti, bisogna non sprecare l’occa-sione, avviando subito serie politiche di active ageing. Nell’interesse reciproco degli individui, delle istituzioni pubbliche e delle imprese private, insomma della società.

È dunque il tempo – se non per etica almeno per calcolo – di una educazione al be-nessere psicofisico, ad un rapporto diverso tra tempi e modi di vita e lavoro (Checcucci, Mandrone, 2014). Il sistema di organizzazione del lavoro è tuttora improntato a logiche del secolo scorso, molto può essere fatto come si è visto nell’emergenza sanitaria del Covid-19 (telelavoro, lavoro agile, web meeting, e-learning), almeno per le attività produttive che producono beni immateriali.

Cosa farà in sala operatoria un chirurgo settantenne o un carpentiere di 65 anni sui tetti, o un infermiere con l’artrosi o, semplicemente, una cassiera di 66 anni che sposta una tonnellata di prodotti al giorno? Ciò rappresenta anche un piano di rivendicazione sindacale nuovo, trasversale, positivo che, dopo aver indugiato a lungo sulle questioni del passato, riporta al presente il tempo delle relazioni industriali.

Pertanto sarà necessario – come la formazione continua per mantenere il capitale uma-no efficiente – prevedere interventi ascrivibili all’active ageing per i lavoratori ben prima

dell’età matura, per dargli una corretta ergonomia, più salute e sicurezza sul lavoro, una dieta equilibrata, un’organizzazione del lavoro più favorevole alle esigenze familiari, preven-zione e screening massivi, attività fisica specifica (buoni fitness?) e, in generale, uno stile di vita in grado di mantenere a lungo l’efficienza psicofisica dell’individuo, e di recuperarla dopo le inevitabili (statisticamente) malattie. Infatti, oggi un uomo a 55 anni ha una speran-za rimanente di vita in buona salute pari al 59,1 per cento, una donna solamente del 51,3 per cento: ovvero, benché più longeve, vivono un maggior numero di anni in condizioni di salute via via più precarie.

Un ripensamento del modo di stare al lavoro deve iniziare subito per essere credibile ed efficace, occorre prepararsi per tempo alle trasformazioni sociali e tecnologiche. Sarebbe un errore fare una proiezione del nostro assetto sociale nel futuro secondo un approccio malthusiano, di applicazione delle categorie del passato al futuro, senza prevedere profondi cambiamenti (nelle ore e giorni lavorate, nelle modalità di impiego, nella automatizzazione, nel ruolo delle reti e della tecnologia, nel progresso della sanità, della biologia, della mobi-lità, eccetera). Pensare di lavorare otto ore al giorno per 11 mesi all’anno nel 2050 non è verosimile. Avendo più momenti ricreativi, una minore intensità lavorativa, maggior forma-zione e maggior aiuto dalle tecnologie allora la partecipaforma-zione a settant’anni per alcuni po-trebbe essere uno scenario credibile. Ma solo per alcuni: un leale sistema contributivo non può considerare solo i flussi finanziari, la capacità di costituzione di ricchezza pensionistica da spalmare sugli anni di ritiro dal lavoro o la produttività, ma anche l’usura psicofisica, i carichi familiari, il percorso di vita (separazioni, attività di cura di familiari, traumi, incidenti o malattie) che modificano - sicuramente - la probabilità di vita stampata nelle tavole di mortalità/sopravvivenza.

L’equità, dunque, non è una questione solo economica, riguarda anche la salute e gli stili di vita, riguarda il tenore di vita e il territorio, l’ambiente e la comunità, con le sue con-venzioni, aspettative e sensibilità. In continua evoluzione. I benefici sarebbero molteplici, sia sul piano socioassistenziale, sia sui costi da sostenere. Questo sia in termini di risorse pubbliche, sia private, per via del forte sbilanciamento sul versante del welfare familiare del peso relativo all’assistenza degli anziani. Manca una ricomposizione delle poste del welfare coerenti con un mutato “ciclo di vita”. Va promosso il benessere psicofisico e sostenuta la qualità dell’istruzione e della partecipazione lavorativa per, da un lato, consentire di ridurre la morbosità (cronica in particolare) e migliorare la produttività fisica e, dall’altro, ridurre la povertà, l’emarginazione, il disagio sociale.

Con l’introduzione del sistema contributivo si è inserito un principio di causalità e pro-porzionalità solo economica senza curarsi di introdurre perequazioni per le altre dimensioni del lavoro (usura fisica, psicologica, intensità lavorativa, responsabilità familiari, eccetera) continuando sulla logica delle politiche miopi o malevole, in cui i costi si differivano per sostenere le spese correnti senza attivare quelle politiche necessarie affinché le riforme producessero benessere generale e duraturo nella comunità16.

Infatti, intervenendo via via sui dettagli si perde di vista l’adeguatezza – non solo fi-nanziaria – del sistema pensionistico e progressivamente si trasforma l’istituzione in qual-cos’altro. In più le continue correzioni creano posizioni concorrenti: anziani contro giovani, poveri verso ricchi, autonomi contro dipendenti. Dovremmo riconsiderare cosa vogliamo dalla previdenza: assolvere prioritariamente una funzione di assicurazione dal rischio

po-16 È difficile giustificare le pensioni alte, pur se sorrette da adeguata contribuzione: c’è un limite oltre il quale la previdenza travalica la sua funzione di assicurazione sociale e diventa strumento di perpetuazione della ricchezza.

vertà in tarda età (o di inabilità) o se è prevalente la funzione finanziaria, come un piano di risparmio oppure, verosimilmente, un ragionevole compromesso tra le due.

Tutto lascia pensare ad un periodo di ritiro dalla vita attiva ridotto rispetto al passato. Pare giusto controbilanciare con più fasi ricreative e di riposo durante la vita attiva, consi-derando anche il ruolo minore che avremo nella produzione di beni e servizi.

L’incertezza sui trattamenti previdenziali è implicita nei sistemi contributivi e sempre più presente nella nostra vita quantica (Mandrone, 2014). Il rischio è una crisi di liquidità tra montanti in uscita e in entrata, frutto dello squilibrio tra attivi e inattivi e della virtua-lizzazione dell’accantonamento, che richiede ancora una gestione mono-temporale della contribuzione dei lavoratori e delle prestazioni dei pensionati. È bene quindi contrastare l’illusione previdenziale, ovvero quella serie di luoghi comuni, opinioni infondate, calcoli erronei, informazioni inesatte che alimentano scenari ipotetici e aspettative surreali. L’unica certezza è che siamo di fronte ad uno dei tanti punti di equilibrio di una traiettoria economi-co-previdenziale-demografica largamente ignota.

Molti studi affermano che la capacità di un individuo di gestire questioni così comples-se è scarsa. Appare opportuna una gestione collettiva di questi rischi. Le motivazioni sono le stesse dell’assicurazione pubblica (M. Draghi, 2010) e, come visto, non intervenire non è neutrale: farlo è a tutela dei più deboli (meno istruiti, più poveri, lavori a bassa qualifica).

Una questione rilevante rimane sullo sfondo. L’automazione renderà molte attività pro-duttive prive, o quasi, di occupazione umana. Ciò comporta il ridisegno dei sistemi fiscali, della premialità lavorativa, con implicazioni rilevanti sulla distribuzione e redistribuzione delle risorse e del capitale. “Una società complessa richiede grandi capacità individuali: Super Manager, Leader Autorevoli, Abili Medici. Ma anche Insegnanti aggiornati, Operai specializzati, Fattorini ultra-connessi” (Mandrone, 2019). Si riteneva che il cambiamento tecnologico avrebbe ridotto l’occupazione solamente delle mansioni routinarie (Autor et al., 2003), ma la tecnologia è progredita e sembra poter travolgere anche attività non routi-narie: ad esempio il machine learning svolge pure attività cognitive (Brynjolfsson, McAfee, 2014). Per Frey e Osborne (2013) un posto su due nei prossimi anni è a rischio. Tuttavia queste proiezioni sembrano distopiche alla luce dei dati dell’International labour organiza-tion (Ilo), che afferma che mai tanti individui hanno lavorato nel mondo e la domanda di lavoro è ai suoi massimi.

Le proiezioni Cedefop al 2025 indicano una caduta della domanda di lavoro legata a bas-si livelli di istruzione. Le profesbas-sioni non routinarie/cognitive sono in espanbas-sione mentre le routinarie/manuali si riducono. Scenari simili emergono dalla Skills Strategy dell’Ocse e dagli scenari sull’automazione World Economic Forum. Al di là dell’attendibilità della previsione, la società della conoscenza è un processo ineludibile. Tutti avremo a che fare con la complessità che deriva sia dall’innovazione tecnologica (Autor et al., 2003) sia dall’evoluzione dei costumi comportando spesso, quando subite e non comprese, rotture dei patti intergenerazionali e delle convenzioni sociali. Inoltre, il più generale processo di disintermediazione, dovuto alla pervasività della tecnica, concorre all’emorragia delle professioni intermedie.

Le politiche come l’active ageing, registrano un doppio dividendo: sono sia eque sia ef-ficienti, ovvero rappresentano un investimento ad alta redditività e riattivano le dinamiche economiche (Stiglitz, 2015; Piketty, 2013).

La lettura analitica del lavoro e della previdenza, dei giovani e degli anziani, fuori dalla interpretazione dei padri costituzionalisti tipicamente olistica e inclusiva, è una forzatura recente dell’interpretazione del nostro patto sociale. Gran parte dei problemi hanno ori-gine in un tempo e ricadute in un altro, ad esempio le fragilità che si generano nel lavoro

(discontinuità lavorativa, precarietà di vita, tardiva emancipazione e costituzione della fa-miglia, inadeguata copertura assicurativa e previdenziale) si riverberano nella previdenza (tardivo ritiro dal lavoro, assegni modesti, produttività bassa, marginalità sociale). Un de-licato equilibrio cui concorrono tutte le forze dell’ecosistema socioeconomico, di cui fanno parte l’istruzione, la protezione sociale, la sanità. Ma non da sole. Il processo deve essere governato dalla politica attraverso l’applicazione dei principi dell’equità sociale, senza i quali si avranno gioco-forza una platea di vincenti e un’altra molto più ampia di perdenti, ovvero i soggetti sociali più deboli e vulnerabili.

Infine, è necessario considerare, anche solo preliminarmente, e privi di dati economici e demografici affidabili, l’impatto non transitorio che la pandemia legata al Covid-19 avrà sui sistemi socioeconomici di tutto il mondo e quindi, inevitabilmente, pure sul sistema di regole dal ritiro dal lavoro e di contribuzione durante la vita attiva degli italiani.

La stima è complessa, ci vorranno anni per ricostruire la contabilità dello shock, tut-tavia il segno è sicuramente negativo: al di là dell’inestimabile valore delle vite umane che sono state spente da questo vento invisibile, i consumi, gli scambi, i viaggi, gli investimenti, le attività economiche, le relazioni sociali, il lavoro sono intimamente cambiati, contratti per chissà quanto tempo.

Inevitabilmente il benessere economico si assesterà su livelli inferiori, per quantità e qualità, per un periodo difficile da quantificare. Difficile anche pensare che dopo arriverà un rimbalzo (boom economico) tale da far recuperare i livelli poiché oggi, al contrario del secondo dopoguerra, il denaro immesso nell’economia non è un aiuto unilaterale (piano Marshall) quanto una anticipazione a debito (ovvero va reso) con effetti sicuramenti reces-sivi sul ciclo economico.

Peraltro, l’incertezza è tale da rendere difficile una lettura analitica e obiettiva di un evento così pervasivo.