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Le importazioni come termometro del cambiamento

Rispetto alle esportazioni, la struttura delle importazioni appare più arti-colata e mobile nel tempo. Alcuni mutamenti, non chiaramente percepibili del sistema produttivo, appaiono più delineati e maggiormente evidenti osservan-doli, dunque, da questo lato del commercio estero sabaudo. A metà Settecen-to, il Piemonte si trova nella necessità di acquistare all'estero le stoffe di tela e cotone, e i panni di lana, in una quantità tale che da sole le voci per questi due capitoli di spesa costituiscono il 40% di tutte le importazioni. E più che evi-dente la debolezza dell'industria locale, sostanzialmente incapace di soddisfa-re la domanda interna. Per altro, tale inadeguatezza è sottolineata dalla quasi assenza d'importazioni di materie prime di qualità da trasformare nelle mani-fatture piemontesi di stoffe e di lana.

Grafico 13. 1752. Importazioni del Piemonte in centinaia di migliaia di lire per generi di merci.

Per importanza, la terza voce è composta dalle derrate alimentari che, seb-bene consistenti in termini relativi, sono comunque limitate al 12,7% sul to-tale delle importazioni. Il Piemonte a metà Settecento è largamente autosuffi-ciente e, anzi, l'agricoltura è uno dei suoi evidenti punti di forza. Un altro gruppo, fra le principali voci di spesa piemontesi, è quello che potremmo de-finire dei beni di lusso e pregiati: stoffe di seta, mercerie (termine che ingloba un po' di tutto, dai diamanti ai pizzi, dagli spilli alla cera e alla carta) e generi 'coloniali' come caffè, zucchero e cacao. Si tratta di un settore di rilievo, che vale molti milioni di lire. Infine, vi è una quarta area merceologica riconosci-bile e significativa - dal momento che supera il 10% sul totale - fra le impor-tazioni sabaude: è quella che serve per sostenere l'industria locale che ha bi-sogno di «droghe» per lavorare gli organzini e per tingere le stoffe di seta, di pelli e sostanze trattanti per soddisfare le esigenze del settore della concia, di ferro per alimentare le fucine e tutte le manifatture artigianali che producono utensili per la vita quotidiana, attrezzi da lavoro e macchinari. Come abbiamo visto, la seconda metà del Settecento vede letteralmente esplodere le importa-zioni. Se tutti i principali settori citati registrano, nel 1792, grandi incrementi in valore monetario, alcuni raggiungono livelli veramente eccezionali. Il fabbi-sogno dei prodotti dell'industria laniera estera quintuplica e diventa in asso-luto la prima voce delle importazioni, staccando anche sensibilmente le im-portazioni di stoffe di cotone che, sebbene crescano, non tengono il passo della prima. Le stoffe di lana, a fine antico regime, rappresentano ormai il 37,12% del totale dei generi introdotti dall'estero.

Grafico 14. 1792. Importazioni del Piemonte in centinaia di migliaia di lire per generi di merci310

Fra i prodotti di lusso, stagnano le importazioni delle stoffe di seta, a ri-prova di una crisi del settore che non colpisce soltanto il Piemonte in quanto paese produttore ma che ha ragioni profonde, anche legate ai mutamenti della moda. Al contrario, crescono in modo equilibrato le richieste per i generi 'co-loniali' e conseguono un rilevantissimo apprezzamento le mercerie.31 Tutto il comparto dei beni che abbiamo, abbastanza all'ingrosso, definito di lusso

ri-30 Le bilance napoleoniche presentano un'importazione di olio non paragonabile con quella del 1752. Il fatto si spiega considerando che nel 1752 le importazioni di olio provenivano in larga misura dal contado di Nizza e non erano conteggiate come importazioni del Piemonte, a differenza dei beni che giungevano da «oltremare» al porto della città.

31 L'impetuoso aumento delle mercerie alla fine del secolo conferma quanto avevo potuto no-tare sull'incredibile crescita, nello stesso periodo, dei negozi di mercerie e chincaglieria a Torino. L'a-spetto più stravagante, che mi aveva allora colpito, era la presenza fra questi negozianti di molti im-C ottanti banchieri della seta. In realtà, come le cifre sulle importazioni di lana e stoffe dimostrano, i

anchieri della seta erano anche i principali beneficiari di questo traffico di seta contro lana. Nelle loro mercerie, o in quelle dei loro parenti e amici, si potevano infatti trovare oltre ai generi più pre-ziosi come le dorure, i gioielli ecc., le stoffe di cotone, di lino e di lana che essi erano in grado di acquistare all'estero proprio grazie al commercio internazionale degli organzini; cfr. G.

MONESTA-ROLO, Una élite chiusa? 1 negozianti banchieri di Torino attraverso i censimenti fiscali (1734-1797),

sulta alla fine dell'antico regime mantenere la stessa percentuale sul totale del-le importazioni che aveva a metà secolo, raggiungendo il 16,2%. E interessan-te notare che la quota d'importazione delle derrainteressan-te alimentari appare nel 1792 in termini monetari inalterata rispetto al 1752 e in termini relativi, rispetto al totale, addirittura diminuita. Infine le importazioni, a fine secolo, segnalano alcuni fenomeni in apparente contraddizione con quanto affermato preceden-temente, riguardo alla cronica e strutturale debolezza delle manifatture tessili sabaude. Per la prima volta, infatti, fra le voci della bilancia commerciale sa-bauda l'introduzione dall'estero di lana e cotone grezzi, ma anche di lino e ca-napa, diventa degna d'osservazione, superando in valore, ad esempio, quella delle stoffe di seta. La lunga espansione del mercato interno, dominata in que-sto senso dalle que-stoffe estere, può avere avuto effetti benefici anche sulle pro-duzioni tessili locali. L'acquisto di materia prima significa che gli imprenditori piemontesi sono stati in grado di avviare produzioni capaci di soddisfare una domanda interna più differenziata, composta da consumatori che cominciano ad apprezzare il rapporto fra qualità e prezzo delle stoffe locali. Un tipo di produzione che, in sostanza, non riesce a competere con le merci francesi, in-glesi oppure svizzere, ma che comincia almeno a trovare un mercato 'vero' in patria.

Una tendenza alla crescita del settore tessile - sia quello della lana sia quello delle telerie - mi sembra, inoltre, confermata dal grande e simultaneo aumento registrato per l'introduzione dei prodotti per l'industria delle tin-ture, settore indispensabile in diverse fasi della trasformazione dei filati e delle stoffe, come dall'avanzata delle richieste, sia in pelli sia in materiale ac-cessorio al loro trattamento, da parte dell'industria conciaria. Si tratta anco-ra di tanco-rasformazioni che impattano poco se si cercano prove per un decollo delle nuove industrie tessili (se consideriamo la seta la vecchia industria), ma che sono ormai evidenti e non smentibili, stando alle nostre cifre, in quanto l'intero comparto valeva nel 1792 circa il 13,3% dell'ammontare delle intere importazioni. Come abbiamo visto, le stime offerte dalla bilancia del

1801-1802 segnano un regresso significativo di tutte le importazioni, indice di una crisi che colpisce l'economia piemontese in termini molto duri. L'esame di-saggregato delle voci della bilancia non fa che rafforzare tale impressione. Il primo elemento a colpire è il balzo in avanti nella richiesta dei generi agri-coli. All'inizio del nuovo secolo le derrate alimentari raggiungono il 16% cir-ca del totale introdotto e sono diventate ora la prima voce delle importazio-ni. La crisi ha completamente sostituito la gerarchia dei bisogni: non sono più le esigenze connesse al vestire, spesso al vestire bene ed ostentato, ad in-dirizzare le richieste dei consumatori, ma è l'urgenza di soddisfare i bisogni fondamentali a orientare gli acquisti sul mercato internazionale. E Piemonte ha perso sostanzialmente la sua autosufficienza alimentare. Parallelamente

Grafico 15. 1801. Importazioni del Piemonte in centinaia di migliaia di lire per generi di merci,

escluso l'organzino.

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-paiono in caduta libera le spese per i beni di lusso: stoffe di seta e mercerie perdono quasi del tutto la loro precedente importanza, mentre i generi 'co-loniali' mantengono il loro peso, divenuti ormai parte essenziale dell'alimen-tazione e del modo di vita di fasce significative della popolazione. Crolla, in termini addirittura drammatici, la domanda per le stoffe di cotone e le tele-rie ridotta a poco più del 3% del totale importato, e si riducono drastica-mente le importazioni dei tessuti di lana, benché quest'ultimi mantengano ancora un peso relativo di rilievo con il 13,6% del totale dei generi introdot-ti. In un simile quadro, alcune voci in controtendenza assumono un signifi-cato particolare. Le importazioni di alcune materie prime, come la canapa e il lino, 'tengono'. In altri, e più importanti casi, esse raddoppiano come sta a dimostrare l'evoluzione della voce cotone e lana grezzi che nel 1801-1802 raggiunge il 3,5% del totale delle importazioni. Oppure, come mostra la vo-ce per i materiah da tintura, che giunge a superare il 13%. Non mancano allo stesso tempo segnati di flessione, come è il caso dell'importazione di pel-li e cuoi; flessioni che confermano che nella recessione alcuni settori guada-gnano posizioni ed altri arretrano. Sono proprio questi dati anomah, dati che contrastano fortemente con il clima di crisi che si è venuto a creare, a con-fermare indirettamente che è in atto una reale tendenza alla differenziazione nella struttura produttiva sabauda.

6 . IPOTESI DI LAVORO

Sulla base dei dati che ho ricostruito è impossibile, e certamente azzarda-to, avanzare interpretazioni complessive sull'evoluzione dell'economia sabau-da fra metà Settecento ed età napoleonica. Una loro visione sintetica permet-te, comunque, di cogliere i problemi e le questioni più interessanti che meriterebbero approfondimenti e, allo stesso tempo, consente di avanzare qualche ipotesi di lavoro. E primo punto emerso è il mutamento della collo-cazione del Piemonte nel mercato internazionale, da un ruolo prevalentemen-te di esportatore ad un ruolo prevalenprevalentemen-temenprevalentemen-te di importatore. All'inprevalentemen-terno di questa radicale trasformazione, che le stime da me elaborate mostrano abba-stanza chiaramente, si apre la discussione sulla crescita del fabbisogno di der-rate alimentari estere fra antico regime ed età napoleonica.32 Una questione tutta da approfondire e da chiarire perché interpretabile in chiavi molto diver-se: sintomo di impoverimento oppure, al contrario, di un'apertura al mercato, di un maggiore dinamismo dell'agricoltura non più vincolata ad un tipo di produzione atta a soddisfare il solo mercato locale ma capace di specializzarsi sempre più, sia nell'importazione sia nell'esportazione.

Il secondo punto molto rilevante, che nuovamente i dati mettono in luce con grande forza, è che l'età dei lumi in Piemonte coincide con un'esplosione delle importazioni e dei consumi che è veramente, sul piano economico ma anche sociale e culturale, un fenomeno macroscopico. Tutte le implicazioni di tale fenomeno devono, allo stato attuale delle ricerche, essere indagate, ana-lizzate e comprese.

E terzo punto riguarda il processo di differenziazione produttiva che i mo-vimenti commerciali segnalano, certo in modo meno netto delle tendenze pre-cedenti, fra crisi dell'antico regime ed età napoleonica. Industria del cotone e delle telerie, della lana, della concia, delle produzioni tintorie si affiancano alla dominante industria delle stoffe di seta. L'aspetto fondamentale è che i segnali di questa differenziazione si fanno evidenti quando il Piemonte attraversa una gravissima recessione economica, recessione che dispiega tutta la sua forza nel momento in cui il Piemonte è assorbito nella Francia napoleonica. Se questi mi sembra siano gli elementi essenziali che le cifre suggeriscono, si può con-cludere questo esame delle bilance commerciali sabaude avanzando un'ipote-si, una spiegazione che vale esclusivamente per la capacità di restituire in

mo-32 La bilancia del 1819 registra importazioni di frumento per 444.330 q, in parte determinate dal fabbisogno delle popolazioni liguri ma di cui una quota considerevole interessa anche la popo-lazione piemontese.

do dialettico il gioco delle esportazioni e delle importazioni che abbiamo, con qualche fatica del lettore, provato a tracciare.

Appaiono innegabili la forza e la preponderanza dell'industria serica, sia quella della filatura dell'organzino, sia quella delle manifatture di stoffe lungo tutta la seconda metà del Settecento. È principalmente sul surplus della bilan-cia commerbilan-ciale garantita dalle esportazioni seriche che si compensano per tutto il secolo le importazioni piemontesi. Il fatto saliente, però, è che i profitti dell'industria serica finiscono per alimentare l'espansione dei consumi di lus-so. Il capitale dell'industria della seta non rifluisce nei rivoli imprenditoriali, non partecipa in modo apprezzabile né a far decollare la produzione delle stoffe locati del prezioso filo né ad aprire altri settori produttivi. Anzi si assiste a una concentrazione del mercato proprio perché quelli che esportano i filati serici sono anche, spesso, quelli che importano lane, stoffe e mercerie per il mercato interno.33 La seconda metà del settecento coincide con il fiorire di questo modello commerciale. E però un fiorire che ha i colori splendidi e sor-prendenti dell'autunno e si chiude inesorabilmente con la crisi dello stato sa-baudo, con la Rivoluzione e l'annessione napoleonica. Soltanto la destruttu-razione di questo sistema, che deve essere tutta indagata, permette un riequitibrio complessivo fra i settori produttivi sabaudi. In tale prospettiva, l'immagine che la bilancia del 1792 ci restituisce è quella di un paese svilup-pato e competitivo, sostanzialmente alla pari con altre regioni avanzate del-l'Europa settecentesca. La differenza è che le basi di questo sviluppo sono fra-gili. Esso si fonda, principalmente, sullo spingere fino ai limiti estremi, e forse anche oltre, i propri punti di forza. Superati tati limiti, per cause endogene ed esogene che devono essere chiarite, il modello sembra collassare su se stesso e svelare tutte le proprie smagliature. Nel vortice della crisi si mettono in mo-vimento le energie che prima giacevano sostanzialmente inespresse, oppure che non trovavano spazio o convenienza per emergere. Certo, il livello da cui si riparte è nettamente inferiore a quello precedente la crisi. Il costo della differenziazione produttiva, in altri termini, è stato saldato a caro prezzo.

33 E termine concentrazione non deve essere equivocato. Ho avuto modo di osservare, stu-diando la situazione dei negozianti e degli 'esercenti' (con termine troppo moderno) a Torino, che i negozianti crescono di numero e mutano rapidamente di nome da una generazione all'altra. Non si ha quindi una concentrazione in poche e note mani. Si ha piuttosto una concentrazione in un am-bito nevralgico dell'economia, in un nodo, che è quello sostanzialmente finanziario, che si rivela per tutta la seconda metà del secolo dominante e in sviluppo; su questo punto rinvio ancora a G.

O R T O D O S S I N E L L ' A L T O A D R I A T I C O E N E L L A D A L M A Z I A V E N E T A D U R A N T E I L X V I I I S E C O L O : S P A Z I P O L I T I C O - S O C I A L I ,

C U L T U R E E C O M U N I T À

La diaspora ne peut ètre congue autrement que comme ré-seau, c'est cette optique qui permet de distinguer le thème de diaspora de celui de communautés immigrés, de mino-rités, etc.1

1. DIASPORA, COMUNITÀ, IDENTITÀ: QUESTIONI DI METODO E

D'INTERPRETA-ZIONE

La storia della mobilità e delle comunità ortodosse nei territori europei du-rante i secoli dell'età moderna, a partire dagli anni '70, è stata oggetto di nume-rosi studi, per lo più relativi alle singole comunità o a specifici aspetti, culturali o economici, del fenomeno e del suo sviluppo storico. Nei decenni successivi al mirabile studio di Stoianovich,2 che nei primi anni '60 aveva cominciato ad in-vestigarne le dinamiche all'interno di ima prospettiva regionale di storia balca-nica, la maggior parte della storiografia, soprattutto greca, ha individuato nella nozione di 'diaspora' uno strumento concettuale atto a reintegrare lo studio del fenomeno all'interno delle singole storie nazionali. All'interno delle 'narrazioni' convenzionali della diaspora la rappresentazione delle comunità come entità fondate naturalmente su lingua e origini culturali e geografiche comuni ha

pre-1 G. PRÉVÉLAKIS, Introduction. Les réseaux des diasporas, in Les réseaux des diasporas. The

net-work of diasporas, éd. par G. Prévélakis, Nicosie, Kikem, 1996, p. 29.

2 T. STOIANOVICH, The conquering Balkan orthodox merchant, «The Journal of economie his-tory», voi. XX, n. E, 1960, pp. 234-313.

valso così sul riconoscimento dell'eterogeneità dei soggetti coinvolti e della va-rietà delle dinamiche in atto.3

In anni più recenti gli studiosi hanno teso sempre di più al riconoscimento e alla valorizzazione della struttura policentrica e reticolare che contraddistin-gue gli spazi delle 'diaspore' nel tempo che precede la nascita degli stati na-zionali, conservando, in taluni casi, l'accezione essenzialista con cui i termini del fenomeno sono stati e continuano ad essere generalmente declinati. In un saggio del 1996 George Prévélakis, ad esempio, ha identificato «gli spazi della diaspora» con «l'hellénisme en tant qu'entité ethnoculturelle»,4 la cui soprav-vivenza, dall'età classica fino alla nascita dello Stato nazionale greco, sarebbe stata possibile grazie alla preservazione della sua antica organizzazione

galac-tique? Intendendo l'ellenismo come una entità culturale omogenea e

consoli-data, egli ha finito per sostituire al concetto di storicità quello di un continuum storico in cui al mutare delle forme (polis, regni ellenistici, Impero bizantino-ottomano, Stato-nazione) corrisponde una sostanziale identità del soggetto. Ad un approccio di questo tipo si oppone la visione 'storicistica' elabora-ta, in anni più recenti, da Paschalis Kitromilides6 il quale, ripercorrendo lo sviluppo semantico del termine, ha individuato nella riflessione filosofica del XVIII secolo il momento in cui sarebbe emersa la coscienza della diaspora come concreta esperienza storica; in particolare, attraverso il pensiero del fi-losofo settecentesco Iosipos Moisiodax e la sua identificazione della Grecia con «tutte le diaspore dei Greci», Kitromilides spiega quale fosse il mondo dei Greci al tempo dell'Illuminismo:

A world of diasporas, with no center to level it, imposing uniformity and uproot-ing diversity [...] it was not encompassed by boundaries, by closed borders that de-fìned predominant ideologies, established orthodoxies, or conventional identities.7

Nei secoli che precedono la nascita delle nazioni moderne, secondo lo sto-rico greco, il «mondo delle diaspore», in virtù dell'assenza di un centro

nazio-3 L'elaborazione delle pratiche sociali e simboliche attraverso cui si esprime l'appartenenza de-gli individui a una data comunità non passa, infatti, necessariamente attraverso un processo di iden-tificazione, ma si realizza anche per il tramite di meccanismi di assimilazione o talvolta di esplicito conflitto. Cfr. D.E. POPLIN, Communities. A survey of theories and methods of research, New York, Macmillan, 1972, pp. 18-20.

4 G. PRÉVÉLAKIS, Les espaces de la diaspora hellénique et le territoire de l'état grec, in Les réseaux

des diasporas cit., p. 53.

5 Ivi, pp. 54-58.

6 P.M. KITROMILIDES, Conclusion. Diaspora, identity, and nation-huilding, in Home-lands and

diasporas. Greeks, Jews and their migrations, ed. by M. Rozen, London-New York, I.B. Tauris &

Co. Ltd., 2008, pp. 323-331.

naie, avrebbe continuato a riprodurre al suo interno le forme del «Common-wealth ortodosso», dove la differenza linguistica o etnica non era fonte di con-flitto o di distinzione.8 Soltanto negli ultimi anni del Settecento la sua natura multiculturale si sarebbe dissolta nel richiamo imperante all'eredità culturale e politica dell'antica Hellas.9

Entrambi questi approcci presuppongono l'identità religiosa o etnica -del soggetto diasporico, nel tempo e soprattutto nello spazio, trascurando l'in-fluenza che contesti socio-istituzionali diversi possono esercitare sui processi di costruzione comunitaria negli spazi eterogenei delle 'diaspore'.

L'istanza di storicizzare lo studio della diaspora ortodossa richiede, inol-tre, un ripensamento sul piano semantico dei realia - le comunità -, e dei con-cetti - primo fra tutti quello di 'diaspora' - intorno ai quali si articola gene-ralmente l'analisi del fenomeno. La nozione corrente di comunità, intesa come sinonimo di unità e identità, non sembra essere in grado di descrivere la realtà storica, ossia le scelte, gli adattamenti e i cambiamenti attraverso cui passa ogni processo di costruzione comunitaria. E all'interno di questa concezione dinamica e processuale di comunità che lo studio delle identità collettive può essere restituito alla sua dimensione storica, in cui la differenza, la mobilità, la trasformazione giocano un ruolo di primo piano rispetto agli assunti esclusivisti di omogeneità, coerenza e autenticità.10 Allo stesso modo, il concetto di diaspora, con il suo riferimento implicito e costante ad una pa-tria originaria comune, ha portato a proiettare sull'oggetto dell'indagine l'idea di un'identità comune e omogenea; a questo proposito, un approccio di tipo orizzontale allo studio delle reti di relazioni espresse dai migranti può

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