parte
L'Australia è firmataria di molteplici trattati internazionali e accordi che riguardano i diritti degli esseri umani, ed in particolare dei richiedenti asilo.
Questo elenco include:
- la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (“DUDU”) del 1948; - la Convenzione relativa allo status dei Rifugiati del 1951;
- la Convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (“ICERD”) del 1965;
- la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici (“ICCPR”) del 1966;
- il Protocollo relativo allo status dei Rifugiati del 1967; - la Convenzione contro la tortura (“CAT”) del 1984;
Il quadro del moderno diritto internazionale dei rifugiati in Australia ebbe origine nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, quando le Nazioni Unite dovettero affrontare la questione relativa alle numerose persone sfollate a causa del conflitto. Nel 1948, l'Australia votò in favore della mozione per adottare la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (“DUDU”), un elenco completo di diritti civili, politici ed umani ai quali tutte le persone erano e sono soggette. Anche se non giuridicamente vincolante, la DUDU servì come uno standard comune, riconosciuto a livello sovranazionale, di diritti umani universali, che ha significativamente influenzato lo sviluppo del diritto internazionale.
Inoltre, tale dichiarazione era un mezzo per guidare e sostenere l'interpretazione di altri trattati internazionali vincolanti, venuti in essere successivamente.
Nel 1950, le Nazioni Unite stabilirono l'Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (“UNHCR”), che sviluppava ed implementava soluzioni per i problemi dei rifugiati.
Poco dopo la fondazione dell'UNHCR, l’Australia adottò la Convenzione relativa allo status di rifugiato, firmata a Ginevra nel 1951, che consisteva in un trattato legalmente vincolante di quarantasei articoli progettati per guidare la politica inerente ai rifugiati delle nazioni firmatarie.
La Convenzione copriva tre temi principali, quali la definizione di “rifugiato”, i diritti e lo status giuridico dei rifugiati nel paese in cui richiedevano asilo, e gli obblighi degli Stati firmatari, che comprendevano la loro cooperazione con l'UNHCR e l’applicazione delle protezioni sancite nella convenzione33.
Diversi anni dopo che l'Australia ratificò la Convenzione (22 gennaio 1954), alcuni studiosi di diritto internazionale furono convocati per discutere di questioni irrisolte riguardo i problemi dei rifugiati, e suggerirono alcuni aggiornamenti che sfociarono nel c.d. “Protocollo del 1967”, un documento che seppur indipendente, è sempre stato considerato come un emendamento e revisione della Convenzione stessa. L'Australia assentì agli aggiornamenti suggeriti nel 1973, e nonostante il fatto che essa non abbia adottato le protezioni sancite dalla Convenzione e dal Protocollo attraverso la legislazione nazionale, l’Alta Corte Australiana stabilì che le
33 Ai sensi dell'articolo 35 della Convenzione sui rifugiati e l'articolo II del Protocollo del
1967, gli Stati si impegnano a collaborare con l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) nell'esercizio delle sue funzioni e per aiutare l'UNHCR a sorvegliare l'attuazione delle disposizioni nella Convenzione. All’art. 36 è invece previsto le informazioni sulla legislazione nazionale, per cui le parti si impegnano a comunicare al Segretario Generale delle NU le leggi ed i regolamenti che possono adottare per assicurare l’applicazione della convenzione.
disposizioni della Convenzione dovevano essere applicate come se esse fossero state promulgate dalla legislazione interna34.
Oltre alla Convenzione ed al Protocollo, che guidano la specifica politica dei rifugiati in tutto il mondo, l'Australia si è inoltre impegnata in ulteriori obblighi internazionali con la firma della Patto internazionale sui diritti civili e politici (“ICCPR”) nel 1980.
Tale accordo raccoglie i diritti umani fondamentali, e agisce come un “metro di paragone” per l’elaborazione delle leggi in materia di diritti individuali. Dato che l'ICCPR non è giuridicamente vincolante se non recepito nella legislazione nazionale, ciò obbliga i firmatari ad assumere le proprie disposizioni attraverso la legislazione domestica. Quindi anche se l'Australia non ha approvato una legge nazionale che sancisce le protezioni del ICCPR, ha creato la Commissione Australiana per i Diritti Umani, un organismo indipendente di esperti che sviluppa la politica e la legislazione per sostenere i principi dell’ICCPR35.
L'Australia è parte di altri due significativi trattati, la Convenzione contro la tortura (“CAT”) e la Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (“ICERD”).
Il primo trattato menzionato è giuridicamente vincolante per l'Australia (8 agosto 1989), e vieta quindi ai funzionari pubblici australiani di intraprendere azioni che violano le sue disposizioni. Esso si applica a tutte le persone indistintamente e non si qualifica per le sue protezioni ai soli rifugiati, anche se all’art. 3 prevede espressamente il divieto per le parti di
34 Minister for Immigration and Multicultural and Indigenous Affairs v QAAH, 2004 (15
November 2006) www.hcourt.gov.au
35 La “Commissione Australiana per i Diritti Umani” (Australian Human Rights Committee) è un'istituzione nazionale per i diritti umani, istituita nel 1986 con un atto del Parlamento federale. È un organismo statutario finanziato ma operante indipendentemente dal governo australiano, e riferisce al Parlamento federale attraverso il procuratore generale. È stata rinominata nel 2008 (prima: Human Rights and Equal Oppurtunity Commission), www.humanrights.gov.au.
restituire, estradare o respingere qualsiasi persona in uno Stato “quando vi sono fondati motivi per credere che essa sarebbe in pericolo di essere sottoposta a tortura”. Il Comitato contro la tortura ha dichiarato inoltre che questo pericolo deve essere valutato non solo per lo Stato ricevente iniziale, ma anche per gli Stati terzi verso cui la persona può essere successivamente espulsa, restituita o estradata.
Allo stesso modo è stato ratificato l’ICERD, con la sua conformità giudicata da un comitato internazionale di esperti legali36, i quali hanno il compito di monitorare l’attuazione della Convenzione.
5.2 Gli obblighi giuridici internazionali messi in discussione dalla Pacific Solution
Il contenuto degli obblighi australiani in base al diritto internazionale dei rifugiati è in gran parte poco chiaro e ambiguo. La Convenzione sui rifugiati infatti, non sembra affrontare in modo adeguato la gestione di coloro che entrano illegalmente con le barche e manca una prassi statale costante che indichi il diritto applicabile per la regolamentazione degli arrivi offshore. La definizione del contenuto dei principi giuridici internazionali che regolerebbero la soluzione pacifica diventa un conflitto
36 La Commissione per l'Eliminazione della Discriminazione Razziale è formata da un
gruppo di 18 esperti in materia di diritti umani, incaricati di monitorare l'attuazione della Convenzione. I membri sono eletti con votazione segreta delle parti, con la quale ciascuna parte ha la facoltà di nominare uno dei suoi cittadini al Comitato.
Tutte le parti sono tenute a presentare al Comitato periodici relazioni che illustrano le misure legislative, giudiziarie, politiche e altre misure adottate per dare effetto alla Convenzione. La prima relazione è dovuta entro un anno dalla data di entrata in vigore della Convenzione per tale Stato; Successivamente i rapporti sono dovuti ogni due anni o ogniqualvolta il Comitato richiede. Il Comitato esamina ogni relazione e affronta le sue preoccupazioni e raccomandazioni al partito di Stato sotto forma di "conclusioni conclusive". Il Comitato si riunisce due volte all’anno a Ginevra.
tra una rigorosa interpretazione degli obblighi del trattato e l'adesione allo spirito della Convenzione. Tuttavia, è possibile affermare che l'attuazione della Pacific Solution sia in violazione di diversi obblighi giuridici internazionali, e la causa principale di preoccupazione giuridica internazionale sia la detenzione di rifugiati per periodi prolungati in condizioni sfavorevoli e senza accesso alla revisione giudiziaria.
Tali critiche risultano tutte fondate, quindi in grado di far perdere legittimità alla strategia, se non fosse che le caratteristiche della Pacific Solution, che la rendono un sistema legislativo unico, sembrano essere conformi ai principi di diritto internazionali. Pertanto, mentre l'attuazione della Pacific Solution ha suscitato gran parte delle critiche circa la sua legalità internazionale, solo alcuni aspetti possono essere definitivamente classificati come violazioni degli obblighi giuridici internazionali da parte dell'Australia. In particolare si individuano tre obblighi giuridici internazionali che vengono messi in discussione, quali il divieto di respingimento dei rifugiati, la discriminazione a causa dell’ingresso illegale nello Stato, e la c.d. “detenzione arbitraria”.
5.3 Il principio di non refoulement 5.3.1. Applicabilità generale
Nel quadro delineato dalla Convenzione del 1951 e dal Protocollo del 1967, il principio di non-refoulement costituisce una componente essenziale e non derogabile della protezione internazionale dei rifugiati. L’importanza centrale dell’obbligo di non rinviare un rifugiato verso un rischio di persecuzione si riflette nell’art. 42, c.1, della Convenzione del 1951 e nell’art. VII del Protocollo del 1967, che sanciscono l’art. 33 come
una delle disposizioni della Convenzione del 1951 cui non sono consentite riserve37.
Il carattere fondamentale e non derogabile del principio di non- refoulement è stato riaffermato anche in numerose conclusioni del Comitato Esecutivo dell’UNHCR a partire dal 1977, e anche l’Assemblea Generale ha invitato gli Stati a “rispettare il fondamentale principio del non-refoulement, che non è soggetto a deroga”.
L’articolo 33 è rubricato “Divieto di espulsione o ritorno al confine (refoulement)” è suddiviso in un primo comma, contenente i criteri di ‘inclusione’, ovvero l’applicazione del principio in esame a qualunque persona considerata rifugiato ai sensi dell’art. 1, lettera A, c.2 della Convenzione, e in un secondo comma contenente i criteri di ‘esclusione’, ovvero l’unico caso di eccezione riconosciuto dalla Convenzione.
Al primo paragrafo del presente articolo è disposto che:
“Nessuno Stato contraente potrà espellere o respingere (“refouler”) - in nessun modo - un rifugiato verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, religione, nazionalità, appartenenza ad una determinata categoria sociale o delle sue opinioni politiche”.
La protezione dal refoulement, così come enunciato dall’art. 33 c.1, si applica quindi ad ogni persona che temendo di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova al di fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese, oppure nel caso in cui non abbia una cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a
37 Art. 42, “Riserve”: 1. All’atto della firma, della ratificazione o dell’accessione, ciascuno Stato può fare riserve circa gli articoli della presente Convenzione, eccettuati gli articoli 1, 3, 4, 16 (1), 33, 36 a 44 compreso.
seguito di siffatti avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra (Art.1, lett. A).
Tale definizione si compone di un elemento soggettivo, che consiste nel timore ed è condizionato da caratteristiche personali da ricercare nell’elemento psicologico del soggetto, e nelle sue esperienze personali, mentre l’elemento oggettivo implica l’appartenenza ad un gruppo etnico o ad uno specifico gruppo sociale o politico, la religione, la nazionalità. La persecuzione fondata sull’appartenenza ad una “razza” o gruppo etnico può essere interpretata alla luce dell’espressione “discriminazione razziale”, come “ogni distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale o in qualsiasi altro settore della vita pubblica”38.
Poiché una persona è rifugiato ai sensi della Convenzione del 1951 quando soddisfa i criteri sopra enunciati, la determinazione dello status di rifugiato ha una natura dichiarativa: una persona non diventa un rifugiato perché è stata riconosciuta come tale, ma è riconosciuta come tale proprio perché è un rifugiato39. Ne segue che il principio di non-refoulement si applica non solo ai rifugiati riconosciuti, ma in primis anche a coloro il cui status non è stato formalmente dichiarato, proprio perché non dovrebbero essere respinti o espulsi finché non si sia giunti ad una decisione finale riguardo al loro status, indifferentemente se sono entrati in modo regolare o irregolare.
38 Art. 1, Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale
(ICERD), 21 Dicembre 1965.
39 UNHCR, Handbook on Procedures and Criteria for Determining Refugee Status,
Il principio di non-refoulement così come enunciato non implica, in quanto tale, il diritto di un individuo ad ottenere l’asilo in un determinato Stato, piuttosto esso significa che, nel caso in cui gli Stati non siano preparati a garantire asilo a persone che cercano protezione internazionale sul loro territorio, essi devono garantire agli individui un percorso che non implichi il loro trasferimento, diretto o indiretto, in un luogo nel quale la loro vita o libertà sarebbe in pericolo ( “refoulement indiretto”).
Come regola generale, al fine di dare attuazione agli obblighi assunti con la Convenzione del 1951 e col Protocollo del 1967, agli Stati è richiesto di fornire accesso al territorio e a eque ed efficienti procedure d’asilo agli individui che cercano protezione internazionale.
Inoltre l’espressione “in qualsiasi modo”, contenuta sempre nel primo comma, implica che il principio in esame vada applicato in tutti i casi in cui venga in essere il rischio di persecuzione o di minaccia per l’individuo in base al diritto internazionale dei rifugiati, e ad ogni forma di trasferimento forzato, che sia espulsione, estradizione, respingimento, deportazione, trasferimento informale o “rendition” e non ammissione alla frontiera.
Ciò si applica non solo in relazione al ritorno nel paese d’origine o, nel caso di una persona apolide, nel paese di residenza abituale, ma anche a qualsiasi altro luogo in cui una persona abbia motivo di temere minacce per la propria vita o libertà.
Passando ad un’analisi dell’ambito ratione loci degli obblighi di non refoulement degli Stati in base al diritto internazionale dei diritti umani, si afferma che essi sono vincolati ai loro obblighi di non rinviare alcuna persona sulla quale esercitano giurisdizione verso un rischio di danno irreparabile. Nel determinare se gli obblighi di uno Stato sussistono nei confronti di una determinata persona, il criterio decisivo non è se quella persona si trovi sul territorio nazionale di quello Stato, o all’interno di un
territorio che sia de jure sotto il controllo sovrano dello Stato, quanto piuttosto se egli sia o meno soggetto all’effettiva autorità di quello Stato. Il non refoulement vieta il trasferimento di rifugiati in un luogo dove la loro vita o libertà potrebbero essere minacciate, ed è una protezione che il governo australiano riconosce come applicabile ai paesi terzi nell'ambito della Pacific Solution. In altre parole, le protezioni dell'articolo 33 si estendono a “ovunque lo Stato in questione eserciti la propria giurisdizione”, come se si fossero estesi i confini territoriali del passato. L'idea di una responsabilità nazionale diretta a proteggere i diritti delle persone sotto la propria giurisdizione, anche se si trovano al di fuori dei confini territoriali, non è semplicemente l'opinione dell'UNHCR. Per esempio, le protezioni del ICCPR si estendono esplicitamente agli individui nel territorio di uno Stato firmatario nonché a quelli sottoposti alla giurisdizione del firmatario.
Inoltre, il Protocollo del 1967 codifica tale obbligo extraterritoriale e espande le protezioni della Convenzione agli stati membri “senza alcuna limitazione geografica”.
L’intento e il significato dell’art. 33 c.1 della Convenzione del 1951, sono univoci e stabiliscono un obbligo a non rinviare un rifugiato o un richiedente asilo in un paese dove egli rischierebbe persecuzioni o altri gravi danni, che si applica ovunque lo Stato eserciti la sua giurisdizione, compreso alla frontiera, in mare aperto o sul territorio di un altro Stato. L’applicabilità̀ extraterritoriale dell’obbligo di non refoulement ai sensi dell’art. 33 c.1 è chiara dallo stesso testo della disposizione, che enuncia una proibizione semplice: “Nessuno Stato contraente potrà espellere o respingere (“refouler”) - in nessun modo - un rifugiato verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate...”. Inoltre, è vietato il respingimento sia verso Paesi a rischio per la persona (refoulement diretto), sia verso Paesi che a loro volta potrebbero
allontanare la persona verso un altro Stato dove esiste un tale rischio (refoulement indiretto).
Il significato comune di “rinviare” comprende “mandare indietro” o “portare, inviare o rinviare in un posto precedente o adeguato”. La traduzione di “refouler” comprende parole come ‘respingere’, ‘repellere’, ‘portare indietro’. Il significato comune di questi termini non sostiene alcuna interpretazione che risulterebbe restringere il suo ambito di applicazione all’interno del territorio dello Stato interessato, cioè ai rifugiati che sono già entrati.
Un’analisi contestuale dell’art. 33 della Convenzione del 1951 conferma ulteriormente l’opinione secondo cui l’ambito ratione loci della disposizione sul non refoulement contenuta nell’art. 33 c.1, non è limitato al territorio di uno Stato e non è limitata alle persone che si trovano all’interno del territorio del paese ospitante.
Particolarmente pertinente alla questione dell’applicabilità extraterritoriale del divieto di rinviare un rifugiato verso un pericolo di persecuzione in base agli strumenti internazionali sui rifugiati, è l’esame dei lavori preparatori, in particolare dei primi due paragrafi40 del Preambolo della Convenzione del 1951, da cui emergono la predominanza dell’oggetto e delle finalità umanitarie della Convenzione e forniscono evidenza al fatto che la disposizione sul non refoulement contenuta nell’art. 33 era intesa a vietare ogni atto od omissione da parte di uno Stato contraente che avesse l’effetto di rinviare un rifugiato in territori nei quali
40 “Considerando che la Carta delle Nazioni Unite e la Dichiarazione Universale dei
Diritti dell'Uomo, approvata il 10 dicembre 1948 dall'Assemblea Generale, hanno affermato il principio che gli esseri umani senza distinzione debbono usufruire dei diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali;
Considerando che l'Organizzazione delle Nazioni Unite ha a più riprese manifestato il suo profondo interesse per i rifugiati e la sua preoccupazione affinché ad essi venga garantito l'esercizio dei diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali nel senso più ampio possibile”.
dovesse probabilmente affrontare persecuzione o pericolo per la vita o la libertà.
C'è una sola eccezione al divieto di refoulement, prevista nel secondo comma dell’art.33, il quale dispone: “Il beneficio di detta disposizione (art.33,c.1) non potrà tuttavia essere invocato da un rifugiato per il quale vi siano gravi motivi per considerarlo un pericolo per la sicurezza dello Stato in cui si trova, oppure da un rifugiato il quale, essendo stato oggetto di una condanna già passata in giudicato per un crimine o un delitto particolarmente grave, rappresenti una minaccia per la comunità di detto Stato”.
La disposizione enunciata in questo comma implica che uno Stato possa respingere un rifugiato solo ove sussistano fondati motivi di considerarlo 'un pericolo per la sicurezza', e al fine di determinare tale pericolo, i soggetti in questione devono essere valutati individualmente in ragione della considerazione del rischio effettivo a cui sono esposti qualora avvenisse il respingimento.
Ciò però non solleva lo Stato ospitante dall’obbligo di non refoulement in base al diritto internazionale dei diritti umani, che non consente eccezioni; pertanto è vietato trasferire un rifugiato se tale azione risultasse esporre quest’ultimo ad un reale rischio di tortura.
Infatti, un’interpretazione che restringesse l’ambito di applicazione dell’art. 33 c.1 della Convenzione del 1951 a comportamenti che si verificano dentro il territorio di uno Stato firmatario, sarebbe contraria all’oggetto e allo scopo del trattato, e sarebbe anche incoerente con le norme di diritto internazionale dei diritti umani pertinenti.
La posizione sostenuta dall’UNHCR prevede che uno Stato sia vincolato dall’ obbligo derivante dall’art. 33 c.1 della Convenzione del 1951 di non rinviare rifugiati verso un rischio di persecuzione ovunque esso eserciti la propria effettiva giurisdizione. Così come per gli obblighi di non
refoulement in base al diritto internazionale dei diritti umani, il criterio decisivo non è se tali persone si trovano nel territorio dello Stato, quanto piuttosto se esse si trovano sotto l’effettivo controllo e autorità di quello Stato.
L’UNHCR ritiene inoltre che il divieto di refoulement dei rifugiati, sia una norma di diritto internazionale consuetudinario e come tale, vincolante per tutti gli Stati, compresi quelli non firmatari. E la maggioranza degli Stati hanno indicato di accettare il principio di non refoulement come vincolante, come dimostrato in numerose istanze nelle quali gli Stati hanno risposto alle rappresentanze dell’UNHCR41.
5.3.2 Gli obblighi di non refoulement nel diritto internazionale dei diritti umani e altri trattati internazionali
Il divieto di refoulement in un paese dove la persona interessata affronterebbe un reale rischio di danno irreparabile, come violazioni del