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LEZIONE DECIMA

Riveduta e corretta dal prof.r Pascoli

Dante pensa a lungo (tanto il tenni basso, il viso, fino che il Poeta mi disse: Che pense?) . Questo pensare a lungo ci dà il senso di quella pa-rola: offense. Offense qui non vuol dire se non che lese nel loro diritto, per così dire, al pentimento. Non sarebbero offense le anime, anche se i loro corpi fossero stati straziati, anche se fossero stati lasciati insepol-ti o coperinsepol-ti da una grave mora di sassi, purché avessero avuto modo di salvarsi.

A che cosa pensa Dante in questo piuttosto lungo tratto perché Virgilio ha bisogno di riscoterlo? Pensa precisamente al punto che separa quasi sempre nel mondo, la felicità dall’infelicità; il bene dal male; l’onestà dal delitto. In cose d’amore la verità è più vera che mai.

_ Quando risposi, comincia: «O lasso, Quanti dolci pensier, quanto disío Menò costoro al doloroso passo!»

Cioè vuol sapere qual è stato il punto che ha portato un guaio eterno, perché le anime sono condannate per sempre; che ha portate quelle ani-me al doloroso passo, cioè alla morte eterna.

Poi mi rivolsi a loro, e parla’ io,

Quell’ io proposto e però accentrato, può significare che anche gli al-tri, i due dannati, tacevano e non mostravano alcuna voglia di parlare.

E cominciai: «Francesca,

Come l’ha conosciuta Dante Francesca? L’ha conosciu-ta dalle parole: “Siede la terra dov’io nacqui, non sull’Adria-tico, ma proprio nel lido ove sorge Ravenna. Poi immagina che

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183 questo fatto d’amore irresistibile fosse noto a’ suoi tempi. Ce lo vuol far credere, Dante ma in realtà è una storia che non si sapeva; nessun cro-nista ne parla; ne parlano solo i commentatori molto tempo dopo del poeta. È ben naturale: erano cose che avvenivano nel segreto di quel-le corti, in quei palazzi misteriosi pieni di trabocchetti, e infatti, come si racconta, Paolo rimase attaccato scendendo da una specie di botola.

Dunque non si sapeva e nemmeno si buccinava. E quelli che dissero che Dante lo aveva forse saputo prima o dopo la battaglia di Campaldino, dal fratello stesso della uccisa, che aveva preso parte a quella battaglia nelle file dei Fiorentini, mostrano di conoscere ben poco l’animo uma-no.Si tratta di una storia in cui entra un amore incestuoso, un delitto di fa-miglia; una storia in cui entra Caino e peggio. Invece c’è un’ipotesi ben più ragionevole. Il tempo smorzò i colori delle cose. Un trenta o trenta-cinque anni dopo (un po’ più di quello che ci vuole alla legge anche oggi per prescrivere un reato) il fatto si era illanguidito nella sua luce brutta e assunse colore poetico.

Non ci credo nemmeno io che Paolo andasse procuratore del fratello e che Francesca s’innamorasse di lui credendolo a lei destinato e che l’a-dulterio fosse un ritorno al primo amore. Ma credo che così si raccon-tasse a Dante da Guido, nipote di Francesca, il quale si compiaccia di questo episodio. Infatti nelle sue liriche, le più belle scritte da un Roma-gnolo, raccolte in un libro di Corrado Reicci intitolato: «Ultimo rifu-gio di Dante» Guido ha versi di questo episodio ripetuti con una specie di compiacenza.

La mia ipotesi è che Dante andato a Ravenna sapesse da Guido questo racconto coi colori da farla parere la storia più poetica del medio evo, quella di Tristano e Isotta, e allora per gratitudine al suo ospite sceglies-se quell’episodio, per aver nel suo poema cristiano una donna che com-movesse il lettore quanto la Didone del poema pagano.

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185 Questo ci conduce a credere che il Poeta al quinto canto dell’Inferno fosse già a Ravenna. In questo credo coll’affermazione di Boccaccio, per quanto i critici in genere, non siano per prestargli fede, sotto il pretesto ch’egli solesse ornare troppo i suoi racconti di fresche retoriche.

Morto Arrigo, Dante andò a Ravenna e cominciò il poema.

A credere ciò si oppone questo argomento: È impossibile che un poe-ta così grande componga in così pochi anni (dal 1313 al 1321) un poe- tan-to poema. Io dico che quelli che credono che il tempo fosse poco per Dante, non si rendono ragione della natura artistica di lui. La Divina Commedia sembra a tali critici un lavoro di cesello, una delicata filigra-na, un intarsio, invece per me è roccia scavata dallo scalpello di un Mi-chelangelo. Come nelle statue di Michelangelo molto è lasciato rozzo e non finito, così nel poema dantesco ci sono dei versi che ognuno di noi avrebbe fatto meglio come ad es: l’ultimo verso dell’episodio del Con-te Ugolino. Ma DanCon-te aveva fretta, sentiva la morCon-te, perciò procedeva avanti, senza indugiarsi a limare e ripulire.

Virgilio dice di Enea: (Demisit lacrimas, dulcique affatus amore est: In-felix Dido ...) Eneide VI 450 [455-56]

Così Dante ha subito il nome dell’eroina in bocca:

... «Francesca, i tuoi martiri (116 – 12[0];)

Amore qui è personificato al solito come una forza irresistibile.

Le parole con cui Francesca comincia il racconto del suo dolce passato, sono prese in generale per una citazione che ella faccia di una massima che abbia letto al suo bel tempo in qualche libro. Nessuno degli ammi-ratori di Dante sembra aver capito la sconvenienza, la pedanteria di far cominciare Francesca con una citazione sia di Severino Boezio sia di al-tri, come un predicatore.

La massima è sua, di Francesca, non ricavata da altri; è

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187 nale come chiunque farebbe. Mi vuoi far tornare a quel tempo ma non capisci che non c’è infelicità peggiore, quando si è in una irrimediabile miseria? Im[m]aginate invece che, mentre il vento per poco si tace ma tra poco spirerà di nuovo travolgendo quelle anime; mentre il compa-gno pensa e piange, mentre i due visitatori dell’abisso attendono che el-la parli, im[m]aginate che elel-la esca in una sentenza di antico!

Non sono poeti questi critici che prestano a Dante simili storture.

E poi come fa Francesca a sapere che Dante soleva leggere questo li-bro che leggeva anch’essa: De consolatione philosophiae o qual altro si voglia? Non poteva sapere assolutamente. È un’inverosimiglianza da fanciullo. Invece non è un’inverosimiglianza che Francesca accenni a Virgilio e che lo abbia riconosciuto. Siamo, si capisce, nel mondo del mistero: ora Virgilio altrove dice: Minos me non lega; e s’intende di sé e di tutti gli altri. Quelli del Limbo hanno libero passaggio per tutti i cerchi. Infatti Virgilio passa, è passato altre volte; Catone è andato all’i-sola del Purgatorio. Sono impediti solo quelli che hanno avuto la con-danna dalla coda di Minosse.

Dante ha nominato prima il Dottore dicendo:

Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito Nomar le donne antiche e i cavalieri,

Niente impedisce di credere che Francesca abbia udito, e che da questo aver udito nominare gli eroi e le eroine antiche, abbia capito che chi con-duceva Dante fosse il poeta sovrano, l’aquila che ha cantato più degli al-tri l’amore irresistibile.- Se il dottore è quello di prima, se la massima è ricavata dall’esperienza di Francesca, come si spiega: ….. e ciò sa il tuo Dottore? Altri dice che si tratta di lui, di Virgilio che, essendo all’Infer-no rimpiange sempre la felicità che aveva nella vita. L’interpretazione

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189 è fiacca, perché Virgilio non può fare in modo tipico questo confron-to. Egli meno degli altri deve rimpiangere la vita, perché un saggio, un poeta pensoso, non poteva dire di aver goduto la felicità della vita; avrà sentito più degli altri il disagio dell’anima irredenta, venuta prima di Cristo.

Il passaggio deve essere accaduto in vita. Se mai ci mettiamo in mente che a base di tutto questo episodio sta il poema di Virgilio, che i due in-sieme uniti sono, per noi, una riminiscenza virgiliana,

... conius ubi pristinus illi

Respondet curis, aequatque Sychaeus amorem. (VI. 468) [VI 447]

e l’affettuoso grido è un’eco di ... dulcique adfatus amore est e che come Didone è recens a vulnere anche Francesca; se insomma intuiamo che Francesca è la Didone moderna, non c’è bisogno di altro.

Prima di tutto nel VI° libro c’è un passo poco prima di parlare delle vit-time dell’amore, un passo che dice: (traduzione letterale) «Vicino a lo-ro (i condannati a morte ingiustamente) ci sono i dolenti i mesti i quali, senza colpa si procacciarono la morte di loro mano e per odio alla lu-ce tragittarono le anime (anzi la vita - ma io credo che Dante avrebbe tradotto anima, non vita, non erano tanto saputi a quel tempo!) Come vorrebbero ora lassù sotto l’azzurro del cielo sopportare anche la pover-tà e i duri affanni che porta con sé! Ma il destino lo vieta.»

Il concetto è il medesimo. Magari la povertà! Figuriamoci poi se era-no felici!

Ma non siamo nel regno d’amore. Quivi si tratta di suicidi: è vero che molti dei lussuriosi sono suicidi, ma Francesca non si è uccisa da sé. Per altro è uccisa dall’amore, ella non fu altro che mediatamente, per così dire, suicida. Nella storia di Didone o Elissa, c’è un punto che

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191 te s’è aggirato nel pensiero di Dante. Quando Enea se ne va e lascia l’in-felice a disperarsi sola, l’inl’in-felice si fa fare un rogo e preparare gli un-guenti magici come per fare un sacrificio a Pluto: poi ascende questo rogo, prende la spada che era rimasta di Enea. Dopo che ebbe veduto le vesti iliache, il talamo noto, rimasta un po’ piena di lagrime, col cuo-re fisso in quei pensieri, si gettò al capezzale del letto e disse queste pa-role che furono le ultime: Dulces exuviae, dum fata deusque sinebant.

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«Dolci spoglie, finché il fato e la divinità me lo permisero, ricevete que-sta anima (vita) e liberatemi da questi tormenti. Vissi e finii quella car-riera che la fortuna mi aveva data, ed ora una grande immagine di me andrà sotterra. Feci una città illustre, vidi le mura da me edificate, ven-dicai il mio marito, mi venven-dicai sul fratello che era mio nemico. Felice, troppo felice se però i lidi di questa nuova mia patria non fossero mai stati toccati da navi troiane» Disse e premendo le labbra sul guanciale:

[«]Muoio inulta, ma moriamo»

Ecco le parole, ecco il pensiero di Dante.

Francesca dice: Lo sa il tuo Dottore, perché l’ha descritta la situazione;

descrisse una donna che ha provato la felicità, che l’ha amaramente rie-vocata e rimpianta nel momento in cui lasciava volontariamente la vita:

una donna che è nella selva di mirto infelix sopra tutto: infelix Dido; e che morendo aveva detto: Felix, o nimium felix, si …………

– Ma se a conoscer la prima radice Del nostro amor tu hai cotanto affetto, Farò come colui che piange e dice.

Noi leggevamo un giorno per diletto Di Lancilotto, come amor lo strinse;

Soli eravamo e senza alcun sospetto.

Leggevano un romanzo d’avventure del ciclo Bretone.

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193 È notevole che dove Dante, (anche nel Purgatorio) mette la lussuria, mette poeti e anche scrittori di romanzi; nel Cielo di Venere (dove le anime non sono certo punite, ma che corrisponde a questi cerchi del-la lussuria) si pardel-la di canzoni, e anche di una canzone di Dante stesso:

Voi che, intendendo, il terzo ciel movete, ricordatagli dall’amico Carlo Martello (par. VIII°.) – Per Dante la canzone è il sublime dell’arte. Più notevole, sebbene sia per parere troppo sottile, che nell’Inferno parla di romanzi; nel Paradiso di Canzoni, nel Purgatorio, a mezza via, di versi d’amore e di prose di romanzi; che vuol dire tutto questo se non che la poesia si avvicina molto all’amore?

Francesca dice: Soli eravamo e senza alcun sospetto.

Il significato di questa frase, che non è da prendere leggermente è dato dall’osservazione del Torraca. Nel romanzo antico leggevamo che Gi-nevra e Lancillotto non erano soli: a breve distanza c’era Galeotto (il siniscalco) e Malaol [Malehaut] (la dama). Non eravamo cioè nella si-tuazione dei due amanti del romanzo.

Il punto causa della dannazione per quelli fu questo: Invitata da Gale-otto, principe molto curioso che amava di mettere d’accordo le perso-ne, Ginevra acconsente a baciare Lancilotto e vedendo che egli esita, lo prende per il mento e gliela fa baciare.

Per Paolo e Francesca il punto fu questo:

« Quando leggemmo il disiato riso Esser baciato da cotanto amante, Questi che mai da me non fia diviso, La bocca, mi baciò tutto tremante:

Galeotto fu il libro e chi lo scrisse:

Per essi non ci fu bisogno d’altre persone.

Quel giorno più non vi leggemmo avante.

Dante non ama dire le cose chiare e non si spiega qui come neppure alla fine del dramma dell’odio che è l’opposto di questo e che ha per simbo-lo il morso, mentre questo ha il bacio.

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195 Mentre che l’uno spirto questo disse,

L’altro piangeva sì che di pietade Io venni meno sì com’io morisse, E caddi[,] come corpo morto cade.

Il mirabile di questo verso è dato dalla mancanza di elisioni e dall’esse-re composto di parole di non più che due sillabe. Dante ne ha un altro:

Come per acqua cupa cosa grave.

Il piangere con cui conchiude l’episodio è pure nell’episodio latino, rin-novato con tanta freschezza nuova e nuova passione dal poeta nuovo del Medio evo.

Prosequitur lacrimis ... (VI. 471) quando Didone si allontana Enea piange dietro lei.

Quello della pietà che lo fa cadere come morto ha un significato altissi-mo di purificazione per mezzo della pietà.

Dante non conosceva le teoriche della tragedia greca di Aristotile: la catarsi mediante ἒλεοσ e πάθοσ, la compassione e la passione, eppure an-che del suo dramma, an-che noi non possiamo assentire a lui an-che sia una comedia, se non aggiungendo che è divina, il fine è la purificazione, che si ottiene mediante una guerra, sì del cammino e sì della pietate.

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