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LEZIONE OTTAVA

rivista e corretta dal p.r Pascoli.

Nel giorno dell’Ascensione dobbiamo ascendere anche noi.

Ascendiamo dove possiam trovare uniti, mano con mano, i tre più grandi poeti del mondo: Omero, Virgilio e Dante. È un’ascesa che vi parrà una discesa perché li troveremo insieme questi tre grandi nel mondo di là che è sottoterra, tra la caligine. Ma non ho bisogno di ri-petere quello che Dante ha preso a S. Paolo che non ascende se non chi discende; e la contemplazione del mondo di là è ciò che distingue gli uomini dalle bestie, e la più grande poesia è rampollata sempre da que-sta contemplazione.

Vediamo l’episodio di Francesca da Rimini, colla sua derivazione. Fran-cesca deriva dalla Didone Virgiliana, che deriva alla sua volta da un per-sonaggio omerico. – Questo ci darà agio di vedere il mondo di là di questi spiriti magni dell’umanità: Omero, Virgilio, Dante.

Piuttosto che ragionare leggo ed espongo.

L’oltremondo omerico è nell’undicesimo canto dell’Odissea.

Odisseo, latinamente Ulisse, è da Circe la Dea figlia del Sole, la quale gli dice che se vuole notizie del suo ultimo viaggio e del destino che l’a-spetta, deve andare nel mondo di là e consultare l’anima di Tiresia. Egli mette la nave in mare. È Ulisse che racconta: «Poi che noi scendemmo nella nave e prima la nave traemmo al mare scintillante (divino)» Gli epiteti come quello «scintillante» sembrano quasi inutili, ma forma-no l’essenza dello stile del poema epico. «Noi ponevam le vele e pren-demmo le vittime e nel cavo legno le introducemmo, poi vi entrammo noi stessi con pianto e terrore» (Al mondo di là non ci si va volentieri.)

«La dal crin crespo e dal canoro labbro dea (Circe) veneranda un gonfiator di vela vento in poppa mandò, che fedelmente ci accom-pagnava. E noi dopo avere messa in ordine ogni parte

dell’attrez-65. Dispensa 9a

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151 zatura per la nave sedevamo; la nave era diretta dal vento e dal timoniere. Di essa tutto il giorno rimasero tese le vele, mentre varcava il mare. E il sole tramontò (meglio affondò – , tramontò dà l’idea di monti e affondò ha l’idea di pieno mare.) e si ombravano tutte le strade, e la nave arrivò ai con-fini di oceano che ha profonda la corrente.» Oceano è un fiume circolare che abbracciava, secondo le idee degli anti-chi, la terra. Arrivano dunque al mondo di là.

«Quivi era il paese e la città dei Cimmerii, nascosti nella caligine e nella nebbia, e non mai, né all’alba né al tramonto, il sole splendente li rimira coi suoi raggi. Ma una notte funebre si stende sugl’infelici mortali. Noi ar-rivati qui spingemmo la nave, e da essa prendemmo le pe-core. E noi messi lungo la corrente dell’oceano andavamo, finché giungemmo al luogo che Circe aveva indicato ………

………...………

Io tratta l’acuta spada dal fianco, scavai una fossa (questo è il metodo per andare al mondo di là, al tempo di Odisseo) quanto un cubito, di qua e di là, e in quella versai la li-bazione per tutti i morti, prima di miele e latte, poi di dolce vino, in terzo luogo di acqua: e sopra vi spruzzai bianca farina. E molto pregavo i vani capi dei morti, (va-ni rende una parola greca che sig(va-nifica inesistenti) promet-tendo che giunto a Itaca avrei sacrificato una vacca sterile, la migliore del branco, nella casa, e avrei empito di doni la pira, e per Tiresia in disparte avrei immolato un ariete tutto nero, e tutto per lui solo: un ariete che fosse il più bello delle nostre greggi. E poiché con preci e voti ebbi scongiurato i po-poli dei morti, prese le pecore, le scannai sulla fossa; e il san-gue nero scorreva: e si adunavano su dall’Erebo le anime dei morti estinti… (morti e poi che hanno finito la vita. Dicen-do Omero le psiche dei morti credeva che noi fossimo un com-posto di anima e corpo? Io non credo. Nel principio dell’I-liade dice che molte psiche (vite) travolse e i traduttori dico-no a questo punto: E abbandonò i loro corpi e invece Omero dice: abbandonò loro. Psiche in greco e anche in latino

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153 vuol dire: la vita. Dopo ha significato quello che si dice ora: ani-mo. Noi traduciamo anima, ma è dubbio. [)] g [G] iovanette e vec-chi molto sopportanti, e molli verginelle che avevano nell’anima un recente dolore (espressione che vuol dire che non hanno avuto altro dolore che quello del recente morire. È parola che significa infanti e ciò non è senza importanza perché si trova anche in Virgilio che su-bito al limitare dell’inferno vi sono questi infanti e così si perpe-tua perché anche in Dante vi sono subito gli infanti) Uomini morti in battaglia, colle armi sozze di sangue, scannati dal bronzo che non ha pietà, in onore di Aides (che noi si traduce letteralmente Ades. I traduttori italiani pongono Orco, non quella bestia che è nelle favo-le dei bambini, ma luogo donde non si esce; significa invece «l’invi-sibile, il buio,» – Carducci ha: Piombâr nel buio giovinette anime.)

«Viene per primo Elpenore… (Elpenore era rimasto indietro, beveva molto vino e si era addormentato. Si ridesta al suono della partenza, vuol andare anche lui, cade e muore. Questo sa un po’ di comico e pro-babilmente fu aggiunto dopo, perché il poema epico è prima di tutto e sempre serio. Così avviene dalla canzone di Rolando; che prima era tutta seria, poi venendo in Italia, Rolando, diventa un po’ comico col Pulci, col Boiardo innamorato, e infine pazzo d’amore nell’Ariosto – Nel tempo stesso che è leggermente satirico e comico, l’episodio ha la sua profondità. Ulisse dice a questo suo compagno Elpenore: Come venisti in questa profonda caligine? Tu venendo a piedi sei arrivato pri-ma di me che venni colla nave nera.» Alla morte si va istantaneamen-te; non c’è cammino più breve. – Lasciamo questo episodio. – Viene dopo Tiresia e gli dice il suo avvenire assicurandolo che se egli rispet-terà i bovi del sole, potranno tutti arrivare a casa, altrimenti arriverà solo e troverà là tanti altri dolori: uno stuolo di amanti che aspirano alla divina moglie e gli mangiano tutti i suoi averi. Riuscito poi vin-citore anche di loro egli per trovare riposo dovrà prendere un remo e andare pel mondo. Quando giungerà a un luogo dove vedendo il re-mo ch’ei porterà sulla spalla, un pellegrino gli chiederà che cosa è quel-la paquel-la, dovrà fermarsi, piantare il remo nel terreno fare un sacrificio a Nettuno, e tornare alla sua casa dove finirà la sua vecchiaia. Egli re-sta male della profezia che gli dice più male che bene. Intanto, prima

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155 che venga Tiresia, ha visto la madre la quale però non lo riconosce.

Tiresia gli spiega come le anime non possano parlargli se non han-no prima bevuto il sangue del sacrificio. Dopo aver così detto l’a-nima di Tiresia se ne va dentro la casa dell’invisibile (Ades) «Io ri-masi lí finché venne la madre la quale si accostò al sangue, bevve e dopo mi conobbe» Vediamo se un poeta così antico sa rendere l’a-more della madre, «Figlio mio, come venisti sotto la caligine neb-biosa, essendo vivo? Tremenda cosa è per i vivi vedere queste cose!

[ché in mezzo ci sono grandi fiumi e terribili correnti e primamente Oceano, cui non è possibile traversare a piedi se uno non abbia la ben fatta nave.]» Sono tre versi che sembrano fuori di posto e gli editori li segnano con parentesi. «O sei venuto qui da Troia coi tuoi compagni e non vedesti ancora nella tua casa la tua moglie?»

Io replicai: Madre mia, il destino m’impose di interrogare l’anima indovina di Tiresia Tebano. Non sono ancor tornato alla mia casa e non so nulla di quanto è succeduto. Gli domanda ancora come è mor-ta e le notizie del padre, del figlio, della consorte. La madre gli dà no-tizie di tutti e finisce col dirgli: «La fine de’ miei giorni non giunse per vecchiezza, non fu la dea che si compiace di colpirci co’ suoi stra-li, né mi vinsero quelle malattie che uccidono con lunghi odiosi lan-guori, ma fu l’amor tuo, il desiderio di rivederti, il dolore della tua lontananza, illustre Odisseo, che mi tolse il fiato sì dolce a respirare»

Questo accenno all’amore materno è un segno che la poesia del-la madre, fin dai tempi antichi è stata sentita. – Anche qui troviamo il tentativo di abbracciamento, imitato poi da Dante: «Tre volte cor-si verso di lei come il mio cuore mi spingeva, e tre volte m’uscì fuor dalle braccia. Mi trafisse un acerbo dolore e le dissi: «Madre mia, perché non rimani, mentre io ho sì gran desiderio di prenderti e in-vece restiamo tutti e due nel pianto più amaro? Sei forse un fanta-sma vano mandato a me da Persefone (Proserpina) perché io pian-ga di più? - No, Proserpina non t’inpian-ganna, io sono ombra perché tale è il destino dei mortali dopo che non sono più in vita» - Co-sì pure in Dante quando Stazio: Già si chinava ad abbracciar li piedi

al mio dottor ….. egli disse: «Frate, 68.

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157 non far, ché tu se' ombra, ed ombra vedi» (Purg. XXI°) Ma questa non è ancora la Francesca: vediamo chi fu la France- sca ne-gli antichi.

Vengono un'infinità di donne, di eroine, di cui Ulisse dice la genealo-gia. Poi s'interrompe nel suo racconto e parla d'altro coi suoi ascoltato-ri Feaci. Quindi torna alla narrazione interrotta, e racconta che vide i suoi antichi compagni d'armi, morti. Trova prima di tutti Agamennone e si meraviglia vedendolo morto e gli domanda quale destino lo vinse. – Ed egli racconta che la moglie sua lo tradì e lo fece uccidere in un ban-chetto dal suo complice Egisto. – Odisseo piangeva ancora di pietà per il triste racconto di Agamennone, quando vede sorgere l'anima di Achille. Egli ha la felicita[à] d'essere felice anche nel regno dei morti, perché è come il re quaggiù. Achille risponde con quelle parole che in-dussero Platone nella sua Repubblica a escludere i poeti: «Io preferirei di essere un garzone di un contadino povero vivo, che re di tutti i mor-ti.» Ma non condanniamo con Platone l'eroe e il poeta che l'ha cantato!

Achille è l'eroe del dolore e lo porta nel suo nome: in greco atos [ᾅχος]

vuol dire dolore. Ora questa confessione da morto, questo suo afferma-re la supafferma-rema dolcezza della vita, fa rifulgeafferma-re di postuma luce il suo eroi-smo da vivo, per il quale egli da giovane bello forte subiva volontaria-mente, per il dovere, il suo fato acerbo.

Odisseo vede ora un altro personaggio. – Stavano le altre anime dei morti estinti e ognuno gli domandava de' suoi dolori (aveva dopo mor-to, ognuno il suo cruccio principale e ognuno addimandava i suoi do-lori, le sue pene) «Solo l'anima di Aiace (in greco Aiante) figlio di Tela-mone, se ne stava lontano, in disparte adirato per via della vittoria che io vinsi a riguardo delle armi di Achille. Le aveva poste Teti, la veneran-da madre (sottinteso come un premio). Oh io non dovevo vincere ta-le premio se per quella vittoria la terra doveva coprire nel suo grembo la gloriosa testa di Aiace. (Le armi di Achille furono dalla madre Teti-de Teti-destinate al più Teti-degno guerriero, a chi aveva fatto più male ai Gre-ci. Vinse Odisseo e Aiace impazzò e si uccise. Aiace era il migliore in bellezza e per via della sue opere, sempre però dopo Achille senza macchia).

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«Ora io a lui parlai con parole melate: Aiace, figlio di Telamone senza macchia, che destino è questo che nemmeno dopo morto tu possa spo-gliarti dello sdegno concepito a causa di quelle armi?

Certo, esse furono fatali ai Greci perché fecero perire te che eri come torre, come baluardo. Ma credi non fu colpa in noi, ma sibbene in Zeus che ci porta odio (Solita nostra abitudine di dar colpa delle nostre sven-ture alle divinità). Or via, Sire, vien qua, affinché tu oda la nostra paro-la; e doma l'ira e il generoso cuore. Così dissi ed egli nulla mi risponde-va, e se ne andò tra le altre anime dell'erebo (verso l'oscurità) dei morti estinti».

L'episodio finisce qui: ciò che segue è aggiunta di alti rapsodi.

Questa figura è dunque di un nemico, di un eroe che, volontariamente o no, ha ricevuto un'offesa e ne è morto.

Questo eroe, in Virgilio si trasforma in una regina.

Enea approda a Cartagine, l'eterna nemica di Roma, è accolto ospite da Didone che ne è la regina, profuga da Tiro; il destino, il fato, la divini-tà se ne immischiano (questo non è senza importanza nell'imitazione dantesca) e si accordano due dee, Giunone e Venere di fare innamora-re Didone di Enea. Pinnamora-rendono Amoinnamora-re sotto la figura di Ascanio figlio di Enea, e lo mandano ad Enea che è convitato da Didone. La regina pren-de il fanciullo tra le sue braccia e subito si sente accesa d'amore benché non volesse rompere fede a Sicheo. Nasce l'amore anche in Enea i due si uniscono e Enea dimentica pel momento il suo destino di venire in Italia e fondare Lavinia, donde Alba e poi Roma. Ma un messo di Gio-ve sprona Enea a partire; egli se ne va e la dolente Fenicia resta e dal do-lore si uccide come Aiante.

Enea approda in Italia e consulta la Sibilla, dalla quale sente che deve consultare il padre morto (in Omero c'è la madre dell'eroe sotto terra).

Gli è imposto qualche cosa di quello che c'è in Omero: qualche cosa di più profondo e di allegorico.

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161 Egli doveva trovare in una grande selva un ramo d'oro e con que-sto andare a placare la dea dei morti, Persefone o Proserpina, e, pla-cata la dea, vedere suo padre. Ma come trovare il ramoscello se era in una selva grande? Poi doveva seppellire il corpo di Miseno l’ami-co suo, che essendo insepolto, macchiava tutta la sua l’ami-compagnia di guerrieri. Trova sopra la spiaggia del mare il cadavere del trombet-tiere; ma si doveva bruciarlo, entra nel folto della foresta a prov-vedere la legna pel rogo e vede scendere dal cielo due colombe che lo guidano e allora trova il ramo d'oro, lo spicca, ne nasce un altro.

Enea giunge ad una spelonca da cui esalano fiati mefitici: è l'inferno.

Fa sacrifizio di agnelle nere, come in Omero, poi della vacca sterile che Odisseo promette solo. Fatto questo si avvia nella caligine incerta come quando c'è e non c'è la luna, e vanno nel regno dei morti.

Prima trovano dei simboli, piuttosto che personaggi, poi i mostri, un grande fiume (Acheronte) un vecchio navicellaio (Caronte) che non li vuol ricevere, perché i corpi vivi non si possono trasportare. Enea mo-stra il ramo d'oro e allora approda di là. Al primo entrare udì un gran-de vagito di bambini (condannati ingiustamente dalla natura, prima di avere avuto la loro parte di vita e di felicità[)]; poi vede coloro che furo-no condannati a morte per false accuse e vicifuro-no siede Mifuro-nosse che rifor-ma le sentenze date dagli uomini.

Il terzo ordine di persone sono i morti d'amore. Qualche cosa di in-giusto anche questo. L'amore è vita, senza di esso non sarebbe il mon-do, e tuttavia per questi infelici è stato causa di morte. E questi in-felici, infelici anche di là, pensano sempre alle loro pene d'amore.

Errano in una grande selva di mirti (albero di Venere) per segreti sen-tieri, e alcuno mostra la sua ferita. Tra queste anime di donne aman-ti, morte d'amore, fresca ancora della sua ferita errava Didone fe-nicia nella grande selva, cui l'eroe troiano, quando le fu presso e la conobbe fra le altre ombre oscure, come chi vede o pargli vedere tra le

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163 nuvole spuntare la luna del novilunio, versando lagrime le parlò con dolcezza d'amore (non è ancora: l'amoroso grido di Dante, ma non so-no nemmeso-no le parole melate, parole di adulazione che ha Odisseo.

Col tempo la poesia si fa sempre più sentimentale e fine).

«Infelice Didone dunque era vero il nunzio che tu t'eri spenta o avevi fatto l'estremo passo col ferro! (Letteralmente non dice che si uccise).

Dunque io fui cagione di tua morte? ma per le stelle e per gli dei io giu-ro che partii mio malgrado da te».

Queste parole arrivarono alla povera morta come un'ironia: gli dei qui non ci sono e le stelle non le vede più.

«Furono i comandi degli dei che mi costrinsero a partire; io non potei credere (nota stonata) di averti a portare tanto dolore con quella mia partenza. Non allontanarti, è l'ultima volta che il destino ci concede per parlarci, e movea lagrime... lacrimasque ciebat.

(I commentatori sono incerti se significa che piangeva lui o che faceva piangere lei. Io credo: piangeva lui).

Ella dura come uno scoglio, senza guardarlo sta volta da un altra par-te, poi lentamente si allontana e inimica, senza più amore, si rifugia nel bosco ombroso dove l'antico suo consorte Sicheo, risponde alle sue cure e compensa con amore l'amor suo.

In Dante è un po' voltata la cosa. La sua Didone si fa vedere col suo Sicheo, ma questi non è il marito: è l'amante.

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del maschio

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