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LEZIONE SESTA

Riveduta e corretta dal Prof.r G. Pascoli

Domenica faremo due episodi della D.C.: la morte nella D.C. ossia il nocchiero della livida palude e il celestial nocchiero: uno dell’Inferno, l’altro del Purgatorio; l’approdo per dir così nel mondo di là, quando si muore in ira a Dio e quando si muore con Dio placati. Questi due epi-sodi sono il contrapposto l’uno dell’altro.

Intanto continuiamo colla questione capitale per la lingua italiana, col dolce stil nuovo; lo bello stile che Dante prese a Virgilio e il dolce stil nuovo, che sono la stessa cosa. Nell’episodio di Cavalcanti, con cui ter-minammo, Dante risponde al padre del suo Guido: …. «Da me stes-so non vengo». Quindi viene a dire: non è stes-solo per ingegno che vengo quaggiù; giacché Cavalcanti aveva detto: « ... : «Se ... vai per l’altezza d’ingegno.» cioè se Dante fa questo viaggio, questa opera grandiosa di contemplazione e di sapienza per l’altezza d’ingegno, perché non c’è chi ne aveva tanto come lui? Dante risponde: « ... : «Da me stesso non vegno, Colui che attende là per qui mi mena.» Le interpretazioni so-no molte secondo come s’interpreta la figura di Virgilio. Io dico: Che cosa ci vuole per Dante, oltre l’ingegno? Da numerosi passi del D.V.E., è, oltre l’ingegno, la scienza. Ora dice arte e scienza, ora arte e scienze (abitus scientiarum), le scienze che sono parti di sapienza, perché evi-dentemente scienza l’adopera, Dante, per farsi intendere meglio invece di sapienza, sicché, parlando con più correzione di Dante, noi dovrem-mo dire che oltre l’ingegno ci vuole l’arte e la sapienza. In un passo del Convito, mostra di saper l’ètimo di filosofia, cioè amore di sapienza.

Egli dirige la canzone all’amore e parla di una donna e interpreta amore per studio e la donna per sapienza e viene a dire che egli fa un uso amo-roso di sapienza cioè filosofeggia poetando. Dopo aver ben diviso que-sto concetto di filosofia e aver detto che la donna rappresenta la sapien-za e l’amore lo studio, dopo, la donna la chiama sempre filosofia. Non per negligenza, ma per farsi meglio intendere: però ha avvertito che le due prime sillabe – filo – appartengono ad un altro personaggio. Ciò nella canzone che comincia: «Amor, che nella mente mi ragiona»

Mi sento autorizzato a interpretare scienza per sapienza, oltre che scienze, 52.

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125 abito delle scienze, per filosofia. Ora nel Convito medesimo, in quel passo che ho ricordato (colla dichiarazione della parola filosofia) è che c’è uno studio che conduce all’arte e alla scienza, ossia sapienza e un altro studio che nell’abito acquistato si adopra. Il primo è quello che io chiamo qui amore. Ho osservato che Virgilio conduce Dante a due donne, la seconda delle quali è indubbiamente la sapienza. Anche se voi per certe questioni, nelle quali specialmente si aggira la parola di Beatrice, la volete chiamare teologia, io non ripugno purché avvertiate che è usata abusivamente come nel capitolo del Convito (II, 13°) la parola fi-losofia per sapienza: perché Dante vi ravvisa due cose, l’amore e l’ogget-to di esso. Osservando che Virgilio conduce Dante a due donne delle quali una senza dubbio è la sapienza, io venni nel pensiero, confermato da mille altri argomenti, che Virgilio rappresenti precisamente l’amo-re in senso di studio e in senso proprio. Perché in l’amo-realtà Virgilio ragio-nava Dante di Beatrice nello stesso modo che nel Convinto: «Amor, che nella mente mi ragiona». Dante ha scritto tre opere con argomento molto consimile: la V. N. il Convito e la Divina Commedia: consimili perché si tratta sempre di amore. Nel Convito è amore per una donna gentile, non per Beatrice; ma Beatrice ritorna, in quel libro, a essere vera donna; e la donna gentile prende invece l’antico significato di Beatrice:

Sapienza o filosofia. Le tre opere sono amorose; le prime due conten-gono le personificazioni d’amore ad ogni passo, la terza, che è la sinte-si del pensinte-siero di Dante, non conterrà questa personificazione? Così:

«Colui che attende là per qui mi mena» è chiarissimo quando voi inter-pretiate Virgilio per studio o per amore. Questo concetto era già stato dichiarato dal Perez siciliano, uomo di grande ingegno, ma poco com-preso e accusato di aver inventato i testi anche dal Gaspary e ciò pro-va la poca pazienza dei critici di andare a cercare nei testi citati da lui.

Così si viene anche a spiegare quell’ebbe, che è una pietra insormon-tabile, d’inciampo, per chi interpreta Dante. Lo studio, invero, non è cominciato lì per lì, ma in altri tempi. Donde il passato remoto ebbe.

Se Virgilio rappresentasse l’idea imperiale, oltre non intendersi perché Guido sdegnasse, egli bianco, l’impero, non si comprenderebbe quel passato remoto.

Cavalcante domanda a Dante: – Se tu fai questo viaggio, que-sta opera mirabile di poesia, per che modo non c’è mio figlio?

– E Dante nella sua risposta vuol intendere: – Forse in un cer-to puncer-to della sua vita ebbe a disdegno lo studio che aveva co-minciato. – E si riscontra precisamente nella vita di G. Cavalcan-ti che egli si gettò nella poliCavalcan-tica e combatté la parte di Corso DonaCavalcan-ti

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127 e lui medesimo; e fu mandato a confine a Sarzana quando Dante era priore, il che è contrastato; ma ad ogni modo il bando è dell’anno del-la visione.

Ora andiamo al passo addirittura capitale del dolce stil nuovo. Preven-go che è già ammesso che l’interpretazione del passo: « ... : «Io mi son un che, quando Amor mi spira, noto, ed a quel modo Che detta dentro vo significando.» sia per questa: – Io piglio l’ispirazione direttamente dall’amore e mi viene il canto sulle labbra –: è la vera poesia lirica, co-me la concepisce e mostra di concepirla Pindaro: l’aquila se piglia la sua preda non è simile ai corvi che prendono la preda di seconda mano, la poesia deve essere cioè immediata, il che contrasta con tutte le teorie di Dante, che dice essere aquila il poeta che studia, il poeta che ha oltre in-gegno, anche assiduità d’arte e abito di scienza. Invece quelli che confi-dano soltanto nell’ingegno sono simili ai paperi, che allungano il collo e non arrivano al cielo. Interpretano così, ma all’ergo si trovano di fac-cia a poesie di contenuto filosofico e allegorico. Ingegnose le ragioni dei critici per mettere d’accordo la teorica dell’ispirazione immediata con il fatto delle poesie dotte e filosofiche.

Ma è ben certo che quelle poesie - ballate, sonetti di tenue argomento, le quali parrebbero essere ispirate da un vero amore o almeno da una ve-ra avventuve-ra (ad esempio, «In un boschetto trovai pastorella» di Gui-do Cavalcanti) sono invece gettate, per così dire, in una forma comu-ne e volgata per non dire volgare. Quelle sono poesie di imitaziocomu-ne che Dante volentieri attribuirebbe ai paperi. In verità hanno male interpre-tato il passo, il quale non ci conduce che al medesimo risulinterpre-tato degli al-tri del De Vulgari Eloquio e del Convito, dell’episodio di Cavalcante e delle parole dirette a Virgilio: «Tu se’ solo colui, da cui io tolsi Lo bello stile che m’ha fatto onore.» Quando si ammetta che Virgilio nella Di-vina Commedia è amore uguale a studio, tanto è dire che lo ha tolto da Virgilio, quanto che nota allo spirare dell’amore che lo detta dentro.

Ricordando il verso: «Le tue parole e il mio seguace ingegno,» (Pur-gatorio, XVIII, 40), noi diciamo che Dante è l’ingegno e Virgi-lio il suo proposito di leggere e studiare libri d’arte, per essere poeti, e libri di scienza, sapienza, scienze, per essere filosofi. Stazio, nel Purgatorio, riconosce di essere divenuto cristiano per opera di Virgi

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129 lio:« ... : «Tu prima m’inviasti

Verso Parnaso a ber nelle sue grotte, E poi, appresso Dio, m’alluminasti.

Facesti come quei che va di notte, Che porta il lume retro e sé non giova, Ma dopo sé fa le persone dotte, Quando dicesti: – secol si rinnova;

Torna giustizia e primo tempo umano, E progenie discende dal ciel nuova. –

Per te poeta fui, per te cristiano;»

Tradotto liberamente da Virgilio (Bucolica IV, 4 «Ultima Cumaei ve-nit iam carminis aetas; magnus ab integro saeclarum nascitur ordo. Iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna; Iam nova progenies coelo de-mittitur alto;»

Nel M.E. si credeva che Virgilio avesse colle sue parole profetizzato il Cristo; e leggendo Stazio quella profezia, diventò cristiano; e questo vuol dire essere perfetto filosofo. In verità, la seconda persona della Tri-nità è la Sapienza, cioè Cristo. Dunque tanto vale la Sapienza, essere amici della Sapienza, cioè filosofi, quanto essere seguaci del Cristo, cioè cristiani.

Anche Dante arriva prima a una donna che canta, salmeggia cogliendo fiori nella divina foresta, ed è una spec[i]e di Musa: è l’arte e gli parla dei fiumi eterni Leté ed Eunoé che rassomigliano molto alle due fonti mitiche d'ispirazione: è l’arte propria (cioè la Musa, a detta di Dante).

Dunque Dante con Matelda è poeta, con Beatrice è cristiano. Prima trova l’arte, poi la scienza (uguale a sapienza).

Bonagiunta Urbicciani da Lucca chiede a Dante: «Ma dì s’io veg-gio qui colui che fuore trasse le nuove rime cominciando: «Don-ne, ch’avete intelletto d’Amore.» Anche nella V. N. Dante par-la di questa canzone, e ne parpar-la con solennità narrando come si sentisse ispirato a pronunziare quel primo verso, e poi a lungo pen-sasse, prima di cominciare la canzone, in cui, nella seconda stanza, è trattato il concetto teologico della Speranza che non è né in Cielo né in Inferno, ma sulla Terra. Con quella solennità Dante ci fa capi-re che egli ccapi-redeva d’aver fatto una vera novità con quella canzone.

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131 Ora risponde a Bonagiunta: « ... « Io mi sono un ... etc ...» L’espressio-ne non è superbia. Era già cancellato dalla sua fronte il P. della superbia.

Dante qui dice quello che nel D. V. E. non è un gran merito, non per virtù di straordinario ingegno.

C’è lo stesso tono che nella risposta a Cavalcante. Egli non si vanta di aver più ingegno del suo amico, (che allora, quando Dante scriveva, non quando immaginava di scrivere, era già morto) ma dice che a quel-lo mancò ciò che si suole sprezzare; quel-lo studio che dà la forza al poeta per elevarsi. E nella seconda parte del[la] frase: «… vo significando…» c’è espresso il fatto della facilità, l’immediatezza, di rendere il concetto con le parole più appropriate, con divina facilità. E questa è opera di studio.

Questa facilità Dante esprime qui con far del poeta un copista che scri-ve a dettato di un maestro. Egli la esprime più superbamente nel D.V.E., quando parla del volo dell’aquila. Come l’aquila si solleva senza fatica fino alle nuvole, così uno che ha studio trova subito le parole per espri-mere il suo concetto. Senza fatica!

«O frate, issa veggio, – disse, – il nodo che il Notaro e Guittone e me ritenne Di qua dal dolce stil nuovo ch’i’odo.» Adesso vedo il nodo, l’impaccio. Le loro penne non correvano dritte, non trovavano le paro-le adatte a loro. Ci voparo-leva ciò che mancò in parte a Guido C.: lo studio dei grandi poeti. «Io veggio ben come le vostre penne Diretro al ditta-tor sen vanno strette,» Così come D. va dietro a Virgilio senza paura pei regni della colpa e della macchia; così come delle parole di Virgilio l’ingegno di D. è seguace. Sicché quando voi troverete nelle poesie di D. quelle che sono più popolari, più facili e così in Cavalcanti, viene in mente di dire: – Lo stil nuovo è questo? No, è forse qualche cosa che ac-comuna D. a Cavalcanti e al povero Bonagiunta e al Notaro etc.; qual-che cosa ricalcato sugli infiniti modelli provenzali e francese innanzi a loro. Per fare qualche cosa di nuovo secondo D. bisognava tornare allo studio dei grandi poeti e non lasciarsi andare a scrivere ogni cosa a imi-tazione degli altri rimatori volgari, che sprezzava.

Chi sa? Dante ha voluto significare, nella replica di Bonagiunta, che il povero buon lucchese ha veduto Virgilio, ha capito chi è e per-ciò issa vede, argomentando più da quella compagnia che dalle parole proferite.

Infine un’altra osservazione. Dante non è superbo nel dire che Guido Cavalcanti gli è rimasto addietro, nell’affermare che la Divina Com-media è superiore alla poesia di Guido. In verità la Divina ComCom-media trascende persino l’Eneide: infatti nelle due prime cantiche Dante è co-me Enea; ma nella terza è Paolo, che va in cielo.

E ha lasciato la guida del poeta antico.

(Fine della 6ª lezione)

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