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Nel corpus di iscrizioni da me preso in esame molto frequente è la presenza di liberti, i quali nella produzione epigrafica si attestano spesso in numero superiore rispetto agli altri ceti sociali, soprattutto nel periodo della prima età imperiale. Questo è indice della “tendenza all’auto-rappresentazione che caratterizza i ceti in ascesa”164, i quali di frequente, per affermarsi socialmente e

legittimare la propria posizione, si impegnano nella promozione di opere pubbliche e nella costruzione di monumenti.

Caratteristica dei liberti, in particolare a questa altezza cronologica, è la loro mobilità sociale, grazie alla quale nella società romana è permesso a un uomo nato schiavo, che veniva per questo considerato res, di divenire libero tramite la manumissione da parte del proprio padrone, e successivamente di ricoprire importanti incarichi presso di lui o anche arricchirsi nel campo imprenditoriale o commerciale. Sebbene questo sembri talvolta un fatto eccezionale, verificatosi solo per rari casi, le fonti dimostrano la relativa diffusione di questo fenomeno. J. H. D’Arms per esempio, nel suo volume sul commercio nell’antica Roma165, dedica un capitolo ai liberti di Puteoli ed Ostia e nota come le iscrizioni a loro dedicate rivelino spesso che essi erano giuridicamente, economicamente e socialmente indipendenti dai loro patroni166.

In effetti, schiavi e liberti erano considerati membri e parte integrante della famiglia del padrone167, e per questo erano frequentemente incaricati di attività economiche o acquisivano responsabilità volte al benessere di tutta la casa. La loro virtù

161 Le loro mani sono definite gelose, così come i loro interventi sulla vita degli uomini. Cfr. il commento delle iscrizioni per un’analisi di queste caratteristiche. 162 Cfr. Edwards 2007, p. 22 e Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, V, 17, 5-6.

163 Si veda l’iscrizione e la sua analisi per la spiegazione del contesto. 164 Cresci Marrone, Rohr Vio, Calvelli 2014, p. 292.

165 D’Arms 1981. 166 D’Arms 1981, p. 146.

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fondamentale nel prestare questi servizi doveva essere la fides: come uno schiavo doveva obbedire al dominus, così il liberto doveva essere fedele a colui che gli aveva donato la libertà. Questa caratteristica è frequente negli elogi dei liberti, come rivela anche l’iscrizione 4.10 in cui il defunto, liberto, è detto fidelissimus o nella 4.4, in cui lo schiavo liberato, ora morto, viene contraddistinto dalla πίστις che ebbe in vita: potersi fregiare di questa connotazione significava aver espletato il principale requisito che veniva richiesto a un individuo di tale condizione.

Nonostante la possibilità di ascesa che contraddistingueva questo ordine sociale, esso era comunque ben distinto dai cittadini romani nati liberi, come dimostra anche la definitiva esclusione dal decurionato e dalle magistrature nelle cittadinanze di tipo romano sancita dalla legge Visellia del 24 d.C.168. Un ulteriore elemento che fa comprendere il modo in cui un liberto doveva essere percepito

nella società romana è la pratica, attestata saltuariamente, per cui un imperatore poteva eliminare dal liberto l’indegnità dell’origine servile attraverso la donazione di un anello d’oro169. Il fatto che esistesse quest’usanza, anche se non molto frequente, fa notare come

esistesse una sostanziale differenza tra uomini nati liberi e individui nati schiavi e poi affrancati.

Sebbene dunque vi fosse una netta distinzione tra liberti e individui di nascita libera, questo non impedì ai primi di acquisire responsabilità e potere, fenomeno che accadde massimamente nel caso dei liberti appartenenti alla famiglia imperiale. Si trattava di un gruppo eterogeneo di persone, che esercitavano un ruolo pubblico e talvolta avevano grande influenza, grazie agli incarichi che venivano loro conferiti all’interno della familia Caesaris. Essi venivano educati in una scuola da schiavi e liberti istruiti, costituendo così l’unico gruppo di agenti di stato forniti di una formazione specifica170. Durante la dinastia giulio-claudia i liberti imperiali

godettero di enorme fortuna e sotto Claudio molti di essi furono a capo dei grandi uffici palatini, divenendo spesso anche molto ricchi. Da Nerone in poi tuttavia la tendenza si invertì, gli incarichi vennero progressivamente affidati agli individui di rango equestre e il loro ruolo fu così ridimensionato171.

Tra le iscrizioni prese in esame spicca anche quella che il liberto Atimetus Anterotianus dedica alla moglie. Egli si dice in essa liberto di Panfilo, che è a sua volta liberto di Tiberio Cesare Augusto. A parte il fatto che il nome con desinenza in -anus identifica il suo precedente passaggio da un padrone a un altro, gli altri elementi onomastici indicano che egli era stato liberato da un liberto imperiale, la cui ricchezza e influenza sono già evidenti nel fatto stesso di poter avere al proprio servizio altri schiavi o liberti. Non essendo Panfilo il protagonista dell’iscrizione, non si fa alcuna menzione dei suoi incarichi, come invece avviene nella già citata iscrizione 4.10 e nella 4.2. Nella prima di queste il defunto è lodato in quanto maestro di giovani di nobili origini, mansione che sottolinea il frequente ruolo rivestito dai liberti (e dagli schiavi) nel campo dell’istruzione, soprattutto se di origine greca. Nella seconda epigrafe invece si loda la perizia con cui Lucius Lucilius Hiero esercitò il mestiere di medico. La sua iscrizione fu ritrovata all’interno del monumento funebre di Caio Annio Pollione e ciò può far ipotizzare che egli abbia prestato servizio presso la sua famiglia. Che fosse così o meno, entrambe le iscrizioni sono testimonianza dell’importante ruolo che spesso i liberti potevano ricoprire all’interno della società romana.

168 Cfr. Jacques, Scheid 1992, p. 395. 169 Jacques, Scheid 1992, p. 396. 170 Jacques, Scheid 1992, p. 446.

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Nonostante la possibilità di ascesa che i liberti ebbero, è tuttavia evidente come la loro condizione risultasse in molti casi limitante, quanto meno dal punto di vista del prestigio sociale. Per questo motivo molto spesso si diffuse tra loro la pratica di ‘mimetizzarsi’, almeno nelle iscrizioni private. Se infatti nei documenti pubblici vigeva l’obbligo di indicare il patronato, così da identificare il loro status, nelle epigrafi funerarie spesso essi omettono questo dato, in modo da apparire come individui di nascita libera. Potrebbe essersi verificato questo fenomeno nelle iscrizioni 4.3, 4.8 e 4.14, dove i defunti sono nominati secondo la prassi onomastica romana ma senza il patronimico. L’origine grecanica dei loro cognomina, associata a questo fatto, suggerisce la possibilità che si tratti di liberti che tentano di dissimulare la loro passata condizione servile.

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