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I limiti intrinseci Le clausole generali come limite alla discrezionalità dei poteri datoriali Il dibattito dottrinale.

I POTERI DEL DATORE DI LAVORO: I LIMIT

2. I limiti intrinseci Le clausole generali come limite alla discrezionalità dei poteri datoriali Il dibattito dottrinale.

Nell’ordinamento giuslavoristico vige generalmente il principio della tipicità degli atti di amministrazione del rapporto ossia il principio secondo cui gli atti datoriali devono ritenersi validi in quanto conformi al modello di riferimento, ossia allo schema normativo prestabilito in astratto, in attuazione del principio di legalità114. Il concreto svolgimento del rapporto di lavoro può tuttavia mettere l’interprete dinanzi a situazioni che, non essendo tipizzate, richiedono un’ulteriore valutazione circa la legittimità o meno dei comportamenti datoriali115. Si tratta di ipotesi in cui, mancando una normativa specifica, i poteri dell’imprenditore non sono circoscritti da norme che predeterminano la tipologia di atti adottabili e, pertanto, il potere datoriale pare potersi manifestare discrezionalmente. In tali ipotesi, pertanto, ci si interroga se il potere del datore dei lavoro trovi limiti ulteriori rispetto ai limiti estrinseci di cui si è trattato nel capitolo precedente, oppure se la discrezionalità del datore di lavoro possa manifestarsi liberamente.

Una parte degli interpreti ritiene che vi sia la necessità di esercitare un controllo sui poteri discrezionali del datore, al fine di evitare che il margine di discrezionalità che permane in capo allo stesso sia tale da incidere illegittimamente sulla sfera personale del lavoratore, andando a ledere i diritti allo stesso garantititi dal nostro ordinamento. Su tale presupposto, la giurisprudenza, nel corso degli anni, ha utilizzato uno strumento proprio del diritto privato, ossia le clausole di correttezza e buona fede ex articoli 1175 e 1375 del Codice Civile, per integrare e precisare il disposto legislativo e negoziale.

114 GHEZZI, ROMAGNOLI, Il rapporto di lavoro, Zanichelli, Bologna, 1987, p. 133; MAZZOTTA, Diritto del lavoro, Giuffré, Milano, p. 536.

115 ZOLI, La tutela delle posizioni “strumentali” del lavoratore, Giuffrè, Milano, 1988, p. 217, laddove l’Autore afferma che “(…) queste previsioni garantiscono il perseguimento di esigenze di

giustizia sostanziale, giacché servono a colmare talune lacune inevitabili, se si considera che il legislatore, mediante la tecnica della fattispecie e della tipizzazione, non può disciplinare le infinite sfaccettature di un rapporto dinamico come quello di lavoro, non può, cioè, prevedere e risolvere tutti i conflitti che nei fatti si presentano”.

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Il ricorso alle clausole di correttezza e buona fede pare opportuno anche nell’ambito del diritto del lavoro innanzitutto perché si tratta di una materia che trova le sue radici nel diritto privato, pertanto al rapporto di lavoro devono applicarsi non solo le tutte le disposizioni previste dalla disciplina speciale, ma anche quelle dettate per i contratti in generale e per il rapporto obbligatorio, dunque anche quanto disposto agli articoli 1175 e 1375 del Codice Civile.

Ebbene, cercando di operare uno sforzo classificatorio, vi è da sottolineare come le clausole di correttezza e buona fede ex articoli 1175 e 1375 del Cod. Civ. ricadano, nell’accezione fornita al precedente capitolo, all’interno della categoria dei limiti esterni, ossia posti a tutela dei lavoratori subordinati, ma grazie alle clausole suddette sia possibile operare anche un controllo di coerenza del mezzo adottato rispetto al fine perseguito, ossia possono fungere da limite interno116.

Vi è poi da chiedersi se gli stessi appartengano ai limiti intrinseci oppure ai limiti estrinseci.

Si è osservato che, attraverso le clausole generali di correttezza e buona fede, è possibile penetrare più a fondo la logica interna degli atti di amministrazione del rapporto di lavoro, ossia dell’esercizio del potere, esercitando un controllo sui motivi ed i fini dell’azione del datore di lavoro. Secondo autorevoli Autori “le clausole generali consentono di filtrare le scelte discrezionali dell’imprenditore alla luce di principi di ragionevolezza, congruità, logicità, che, in un’ottica privatistica e non funzionalizzata, correggono un uso distorto del potere e, quindi, lesivo delle posizioni del lavoratore”117, ed ancora “tali clausole (…) costituiscono l’unico strumento giuridico, accettabile alla luce del nostro ordinamento positivo, idoneo a recepire quei principi e valori, sinteticamente ricondotti al dovere del datore di lavoro di agire razionalmente e secondo opportunità”118,.

In quest’ottica, le clausole generali pongono un limite intrinseco all’esercizio del potere da parte dell’imprenditore, essendo lo strumento attraverso cui viene imposto allo stesso che gli atti giuridici, soprattutto in situazioni non tipizzate, in cui manca uno schema normativo prestabilito in astratto, siano compatibili con gli

116 Sul punto si veda il paragrafo sull’abuso del diritto.

117 PERULLI, Potere direttivo e suoi limiti generali, in Dig. Disc. Riv. Sez. Comm. (aggiorn.), Torino, 2009, p. 867.

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equilibri generali dell’ordinamento119. Sarebbe tuttavia un errore ritenere che la buona fede e la correttezza operino esclusivamente in tali ipotesi, in quanto le stesse hanno la funzione di accertare il rispetto dei valori generali dell’ordinamento anche laddove il legislatore abbia legiferato attraverso clausole elastiche, le quali, proprio in ragione della loro intenzionale indeterminatezza, richiedono l’opera di integrazione dell’interprete, alla luce del caso concreto, attingendo a criteri di integrazione o standards valutativi. In tal senso, si richiama quella dottrina che ha parlato di un rapporto “circolare” intercorrente tra le clausole generali in senso stretto (in particolare, le clasuole generali di correttezza e buona fede) e le norme elastiche di cui si costella il panorama giuslavoristico italiano120.

Il giudice, pertanto, nell’esercitare il proprio potere, agisce in forza di una delega già implicita nella clausola generale di correttezza e buona fede. Le clausole generali, infatti, come si ha già avuto modo di affermare, contengono enunciazioni di massima o riferimenti a criteri di valutazione del comportamento delle parti che vanno precisate in sede di interpretazione. Pertanto, la clausola generale di correttezza e buona fede ex articoli 1175 e 1375 del Cod. Civ. deve essere classificata come limite intrinseco se alla stessa viene attribuita la valenza di criterio di valutazione dell’attività esplicata dalle parti e la stessa assume quindi il ruolo di concretizzare le rispettive posizioni.

Pertanto, mentre i limiti estrinseci trovano un’applicazione immediata, i limiti intrinseci trovano il proprio fondamento e si giustificano, all’interno dell’ordinamento positivo, grazie alla clausola di buona fede, la quale affianca le previsioni esistenti, implicando un controllo distinto ed autonomo rispetto al sindacato condotto sulle norme estrinseche. Ciò significa che la mancanza di una norma esplicita, volta a limitare il potere datoriale, non è di per sè sufficiente a ritenere legittimo l’esercizio del potere. Inoltre, la clausola di buona fede viene in rilievo laddove manchino esplicite disposizioni normative, al fine di ricondurre

119 PERULLI, I poteri dell’imprenditore e il controllo giudiziale, in Rass. Giur. Lav. nel Veneto, 2014, p. 12.

120 PERULLI, Certificazione dei contratti di lavoro e controllo dei poteri dell’imprenditore: il

ruolo e le prerogative del giudice, in Fiorillo, Perulli (a cura di), Rapporto individuale e processo del lavoro, Giappichelli, Torino, 2014, p. 259 ss..

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entro margini di ragionevolezza e di contemperamento degli interessi il potere datoriale121.

Dopo aver constatato che la giurisprudenza utilizza sovente le clausole generali di correttezza e buona fede in funzione di limiti all’esercizio del potere datoriale, giova approfondire specificamente che cosa debba intendersi con tali termini e chiarire se gli stessi possano essere utilizzati alla stregua di sinonimi.

Tanto la buona fede quanto la correttezza sono richiamate innumerevoli volte all’interno del Codice Civile. All’interno della Relazione ministeriale al codice civile, il principio di correttezza e buona fede «richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore».

Effettuando una breve rassegna degli articoli in cui il richiamo è effettuato, si evidenzia anzitutto come l’art. 1175 del Codice Civile, collocato non a caso all’inizio del libro dedicato alle obbligazioni in generale, prevede che entrambe le parti del rapporto contrattuale debbano comportarsi secondo le regole della correttezza.

Tale regola aurea del rapporto obbligatorio, trova espressione in vari articoli del Codice Civile. Il dovere di comportarsi secondo buona fede deve costituire, a mente dell’art. 1337 Codice Civile, regola di comportamento in fase precontrattuale, ossia nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto122. Parimenti, l’art. 1366 del Codice Civile richiede la buona fede

121 PERULLI, I poteri dell’imprenditore e il controllo giudiziale, in Rass. Giur. Lav. nel Veneto, 2014, p. 12.

122 D’AMICO, “Regole di validità” e principio di correttezza nella formazione del contratto, Ed. Scientifiche Italiane, Napoli, 1996; D’ANGELO, La buona fede, in Il contratto in generale, IV, in

Tratt. Bessone, XIII, 2004. La giurisprudenza di legittimità interpreta tale disposizione ritenendo

che la stessa non si riferisca alla mera rottura ingiustificata delle trattative, bensì assuma il “valore

di clausola generale, il cui contenuto non può essere predeterminato in modo preciso ed implica il dovere di trattare in modo leale , astendendosi da comportamenti maliziosi o reticenti, e fornendo alla controparte ogni dato rilevante, conosciuto o conoscibile con l’ordinaria diligenza, ai fini della stipulazione del contratto. Ne consegue che la violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto assume rilievo non solo in caso di rottura ingiustificata delle trattative e, quindi, di mancata conclusione del contratto o di conclusione di un contratto invalido o inefficace, ma anche nel caso in cui il contratto concluso sia valido e, tuttavia, risulti pregiudizievole per la parte vittima dell’altrui comportamento scorretto” (Cass. 8 ottobre 2008 n. 24795, in Giust. Civ. Mass., 2008, 10, p. 1450).

La responsabilità per culpa in contrahendo viene fatta rientrare nella responsabilità extracontrattuale, la quale trova il proprio fondamento nella violazione di un generale dovere di

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nell’interpretazione del contratto123. L’art. 1375 del Codice Civile afferma invece che il contratto deve essere eseguito secondo buona fede. Ed ancora, l’art. 1358 del Codice Civile prevede che, colui che si è obbligato o che ha alienato un diritto sotto condizione sospensiva, ovvero lo ha acquistato sotto condizione risolutiva, deve, in pendenza della condizione, comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell’altra parte124. Anche l’art. 1460 co. 2 del Codice Civile fa riferimento alla buona fede specificando che, nei contratti a prestazioni corrispettive, il debitore non può rifiutare la prestazione adducendo l’eccezione di inadempimento qualora, rispetto alle circostanze, il rifiuto sia contrario a buona fede125. Ritroviamo la buona fede anche anche all’interno del titolo dedicato ai

condotta, indipendentemente dalla preesistenza di una specifica obbligazione da adempiere nei confronti di una controparte.

123 “Il criterio della buona fede nell’interpretazione dei contratti, applicabile anche agli atti

prenegoziali, deve ritenersi funzionale ad escludere il ricorso a significati unilateriali o contrastanti con il criterio di affidamento dell’uomo medio, ma non consente di assegnare all’atto una portata diversa da quella che emerge dal suo contenuto obiettivo, corrispondente alla convinzione soggettiva di una singola persona. Esso rappresenta, difatti, il punto di sutura tra la ricerca della reale volontà delle parti (costituente il primo momento del processo interpretativo, in base alla comune intenzione ed al senso letterale delle parole) ed il persistere di un dubbio sul preciso contenuto della volontà contrattuale (in base ad un criterio obiettivo, fondato su di un canone di reciproca lealtà nella condotta tra le parti, ed inteso alla tutela dell’affidamento che ciascuna parte deve porre nel significato della dichiarazione dell’altra), e rappresenta, pertanto, un mezzo, alfine, soltanto sussidiario dell’interpretazione, non invocabile quando il giudice di merito abbia, attraverso l’esame degli elementi di prova raccolti, già aliunde accertato l’effettiva volontà delle parti” (Cass. 15 marzo 2004 n. 5239, in Giust. Civ. Mass., 2004, p. 3).

124 La giurisprudenza di legittimità a Sezioni Unite ha dichiarato che il contratto sottoposto a condizione mista è soggetto all’art. 1358 del Codice Civile, in ragione del quale le parti devono comportarsi secondo buona fede in pendenza della condizione ed inoltre, “è vero che l’omissione

di attività intanto può costituire fonte di responsabilità in quanto l’attività omessa costituisca oggetto di un obbligo giuridico, ma tale obbligo giuridico discende direttamente dalla legge e, segnatamente, dall’art. 1358 Cod. Civ., che lo impone come requisito della condotta da tenere durante lo stato di pendenza della condizione, e la sussistenza di un obbligo siffatto va riconosciuta anche per l’attività d’attuazione dell’elemento potestativo di una condizione mista”

(Cass. Sez. Unite 19 settembre 2005 n. 18450, con nota RESTIVO, in Giur. It., 2006, 6, p. 1141). 125 La proposizione dell’eccezione di inadempimento può ritenersi legittima solamente laddove il rifiuto di adempiere, oltre ad essere giustificato dalla sussistenza dei presupposti di cui all’art. 1460 co. 1 Cod.Civ. (ossia la corrispettività e l’interdipendenza tra le prestazioni ineseguite e quelle rifiutate), non sia contrario a buona fede. La giurisprudenza ha affermato, in particolare, che il rifiuto all’adempimento non deve essere “determinato da motivi non corrispondenti alle finalità

per le quali esso è stato concesso dalla legge, come quando l’eccezione è invocata non per stimolare la controparte all’adempimento, ma per mascherare la propria inadempienza”, ed

inoltre “al fine del relativo accertamento assume rilevante importanza la circostanza che la

giustificazione del rifiuto sia resa nota alla controparte solo in occasione del giudizio e non in occasione dell’attvità posta in essere allo scopo di conseguire l’esecuzione spontanea del contratto” (Cass. 3 novembre 2010 n. 22353, in Giust. Civ. Mass., 2010, 11, p. 1403; nello stesso

senso anche Cass. 7 dicembre 1994, n. 10506, in Giust. Civ. Mass., 1994, 12; Cass. 11 maggio 1998, n. 4743, in Giust. Civ. Mass., 1998, p. 998).

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singoli contratti, laddove, in tema di contratto di agenzia, l’art. 1746 del Codice Civile prevede che, nell’esecuzione dell’incarico, l’agente debba tutelare gli interessi del preponente ed agire con lealtà e buona fede126. Merita un accenno, guardando al di là della disciplina del Codice Civile, il riferimento al principio ispiratore della buona fede compiuto dal legislatore all’interno del Codice del Consumo. Le clausole inserite all’interno dei contratti stipulati con i consumatori possono infatti essere ritenute vessatorie, e quindi nulle ai sensi dell’art. 36 del Codice del Consumo, solamente qualora le stesse determinino uno squilibrio di diritti ed obblighi in contrasto con i dettami della buona fede.

Gli articoli sopra citati paiono riferirsi al principio della buona fede intesa in senso oggettivo, ossia ad una regola di condotta, un obbligo etico di comportamento onesto, il quale costituisce concetto diverso rispetto alla buona fede intesa in senso soggettivo, la quale viene definita come la situazione psicologica di ignoranza dell’altrui lesione127.

126 “Ai sensi dell'art. 1746 c.c. è imposto all'agente di tutelare gli interessi del preponente e di

agire con lealtà e buona fede nell'esecuzione dell'incarico. Tuttavia, tale norma non impedisce all'agente - così come al subagente - vincolato da un contratto a tempo indeterminato suscettibile di disdetta, di ricercare soluzioni professionali alternative, che vengano in concreto a risultare pregiudizievoli per il preponente (come nel caso, non infrequente, dell'acquisizione di un mandato di agenzia da parte di un'impresa in concorrenza con l'originario preponente), se non impiega mezzi e modalità che siano di per sé qualificabili come scorretti, vuoi ai fini dell'acquisizione del nuovo incarico professionale, vuoi nell'esecuzione del medesimo, sulla base dei principi di carattere generale in materia contrattuale e, specificamente, di quelli di correttezza e di buona fede nell'esecuzione del rapporto di cui agli art. 1175 e 1375 c.c., ovvero delle regole in tema di concorrenza sleale tra imprenditori. Né, alla stregua di ciò, può ritenersi di per sé scorretto il comportamento di un subagente che, intenzionato a porre fine al rapporto in corso con l'agente, ne metta al corrente l'imprenditore preponente, offrendo l'occasione al medesimo di valutare le conseguenze di tale ipotesi ed a se stesso la possibilità di comunicare la propria eventuale disponibilità ad assumere un incarico diretto, sempreché non siano posti in essere mezzi di per sé scorretti, poiché, in difetto di precise pattuizioni in proposito, non è ravvisabile un obbligo di fedeltà in capo al subagente nei confronti dell'agente suo preponente che vieti iniziative di questo genere, compiute con il rispetto del principio generale della correttezza” (Cass. 10 maggio 2006 n.

10728, in Giust. Civ. Mass., 2006, p. 5).

127 Il Codice Civile fa riferimento alla buona fede in senso soggettivo ad esempio all’interno dell’art. 1147 Cod. Civ., laddove il possesso di buona fede, ai fini dell’usucapione, è definito com quello di chi possiede ignorando di ledere l’altrui diritto. Secondo la dottrina, tuttavia, la buona fede non è un fattore esclusivamente psicologico, in quanto l’ignoranza non deve dipendere da negligenza grave. Il fondamento etico della buona fede risiede pertanto nella scusabilità che è richiesta per la rilevanza dell’errore invocato (TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, CEDAM, Padova, p. 573).

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Come dichiarato da autorevole dottrina, la buona fede non impone un comportamento a contenuto prestabilito128. Lo stresso obbligo si traduce in comportamenti di tipo diverso e non è possibile inquadrare gli stessi all’interno di schemi predefiniti.

La dottrina giuslavoristica si divide tra coloro che negano valore precipuo alle clausole generali di buona fede e correttezza, e coloro che riconoscono alle stesse un ruolo integrativo, volto a generare obblighi diretti ad arricchire il contenuto stesso dell’obbligazione.

Un primo orientamento giurisprudenziale ritiene che la buona fede si limiti a duplicare obblighi già esistenti. Sarebbe quindi un mero sussidio interpretativo privo di qualsivoglia ruolo integrativo, ossia uno strumento utile ad individuare quali siano i comportamenti prescritti da una norma specifica129. Accanto a tale

tesi, secondo cui il ruolo delle clausole generali sarebbe assolutamente limitato, vi è l’opinione di autorevole dottrina che, ritenendo le stesse addirittura dannose, è giunta ad affermare che “il ricorso dei giudici del lavoro al principio di buona fede, quando non è andato oltre l’esibizione di formule verbali o di stile, ha, assai spesso, consentito soltanto di formulare una motivazione qualsiasi a decisioni irresponsabili, in quanto fondate esclusivamente su preconcetti ideologici”130. Secondo tale tesi, le clausole generali presenterebbero una sostanziale indeterminatezza e rischierebbero di essere un espediente per ampliare eccessivamente i poteri del giudice. Tale avversione verso un giudice troppo “creativo” sembra contraddistinguere tutti i legislatori che si sono succeduti negli ultimi anni, a partire dal giudice del Collegato Lavoro del 2010 e fino a giungere al Jobs Act del 2015.

128 BIANCA, La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale, in Riv. Dir.

Civ., 1983, p. 206 ss..

129 Tale tesi, che sembra essere stata superata dalla recente giurisprudenza, è stata sostenuta, tra le altre, dalla Cass. 20 luglio 1977 n. 3250, in cui la Suprema Corte ha ritenuto che la violazione dei doveri di correttezza e buona fede (art. 1175 e 1375 del Codice Civile.), ove non siano considerati in forma primaria e autonoma da una norma, costituisce solo un criterio di qualificazione e di valutazione del comportamento dei contraenti, con la conseguenza che un comportamento ad essi contrario non può essere reputato illegittimo e, quindi, fonte di responsabilità ove al contempo non concreti la violazione di un diritto altrui, già direttamente riconosciuto da una norma giuridica. 130 PERSIANI, Considerazioni sul controllo di buona fede dei poteri del datore di lavoro, in Dir.

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Un diverso orientamento, sostenuto anche da alcune recenti pronunce, ritiene che la buona fede, lungi dal limitarsi a duplicare obblighi già esistenti e vincolanti, rivesta invece un ruolo integrativo, producendo essa stessa obblighi diretti ad arricchire il contenuto dell’obbligazione131. La stessa sarebbe peraltro idonea ad esercitare una funzione di riequilibrio della dimensione mercantile del rapporto obbligatorio in favore di quella sociale e di governo della discrezionalità privata132.

Secondo tale tesi, le clausole generali consentirebbero di filtrare le scelte discrezionali dell’imprenditore alla luce di principi di ragionevolezza, congruità e logicità, al fine di correggere un uso del potere lesivo delle posizioni del lavoratore. Una recente sentenza della giurisprudenza di legittimità ha confermato l’illegittimità del licenziamento irrogato nei confronti di una lavoratrice, rappresentando la violazione, da parte del datore di lavoro, del principio di buona fede contrattuale. Lo stesso, infatti, non avrebbe adempiuto all’obbligo di informare preventivamente la lavoratrice del fatto che il suo posto di lavoro sarebbe stato soppresso. Pertanto, la Cassazione, in tema di esercizio del potere di