• Non ci sono risultati.

Capitolo 2............................................................................................................................ 4

2.5. Onerosità

2.5.1. Modalità di corresponsione

Quanto alle modalità di corresponsione del corrispettivo, esse possono essere di tre tipi.

COMPENSO PERIODICO

La tipologia certamente più utilizzata è quella della corresponsione di un compenso periodico, di solito inserito in busta paga, per tutta la durata del rapporto o, comunque, dal momento della conclusione del patto.

Tale modalità, che era stata in un primo tempo ritenuta invalida da una parte della dottrina, ma che ora è concordemente ammessa, non manca tuttavia di creare una serie di problemi, in relazione alla congruità del compenso, ovvero in sede di giudizio, in caso di controversia tra le parti, tanto che si è arrivati addirittura a sconsigliarne l’adozione. Infatti, come nell’ipotesi in cui, ad esempio, il rapporto di lavoro venga a cessare poco

25 Pret. Milano, 22 febbraio 1999, in Or. Giur. Lav., 1999, I, 156.

26 Cass., 14 maggio 1998, n. 4891.

tempo dopo la stipulazione del patto stesso il compenso erogato periodicamente potrebbe, al momento dell’estinzione del rapporto, essere considerato incongruo rispetto al sacrificio richiesto al dipendente. Oppure, il lavoratore che abbia interesse a liberarsi del patto, potrebbe riuscire a dimostrare in giudizio che il compenso erogato in busta paga costituiva «un corrispettivo volto in realtà a compensare non l’astensione della futura concorrenza ma le prestazioni già rese dal lavoratore, in tal modo venendo ad eludere norme imperative attinenti alla tutela del rapporto di lavoro in tutta la sua ampiezza…».27 Con la conseguente applicazione dell’art. 1344 c.c. (Contratto in frode alla legge) e, pertanto, dell’art. 1418 c.c., che sancisce la nullità del contratto, in ipotesi, fra l’altro, di illiceità della causa.

«In tal caso non è neppure possibile ottenere la ripetizione delle somme erogate a titolo di compenso per il patto di non concorrenza, ripetizione che invece appare ammissibile nelle altre ipotesi di nullità del patto».28

Il dipendente, poi, sempre allo scopo di liberarsi dal vincolo che il predetto patto comporta, potrebbe sostenere anche la simulazione, soprattutto in mancanza di un reale interesse del datore di lavoro alla stipulazione del patto stesso. Inoltre, la corresponsione di un compenso periodico in corso di rapporto appare più onerosa per il datore di lavoro, in quanto, secondo l’opinione dominante, tali somme sono soggette a contribuzione previdenziale, dal momento che, come afferma la Suprema Corte esse costituiscono retribuzione, come ogni erogazione effettuata dal datore di lavoro in dipendenza e, più precisamente, in occasione del

27 Cassazione 26 ottobre 1982, n. 5617 in Riv. It. Dir. Lav., 1983, II, 642

28 ROSANNA BARCHI, Il patto di non concorrenza: gli orientamenti della dottrina e della giurisprudenza, in Diritto & Pratica del Lavoro n.14/2001-902

rapporto di lavoro. 29

Gli inconvenienti sopra accennati non sembrano però tali da sconsigliare tassativamente il ricorso a tale modalità di pagamento.

Per quanto concerne la congruità del compenso, in ipotesi di cessazione del rapporto a breve distanza di tempo dalla stipulazione del patto di non concorrenza, il problema può essere risolto prevedendo, ad esempio, la corresponsione di un importo minimo, con conseguente eventuale conguaglio da versarsi al momento dell’estinzione del rapporto di lavoro, ovvero alla scadenza del termine di durata del patto stesso. Del resto, anche in ipotesi di previsione di una somma una tantum, tale compenso potrebbe apparire incongruo al momento dell’estinzione del rapporto di lavoro, se concordato anni prima.

Anche in questo caso, pertanto, sarà opportuno prevedere un correttivo, al fine di evitare un’eventuale controversia col lavoratore che abbia interesse, più che a percepire la somma pattuita, a liberarsi del vincolo dettato dal patto stesso. Il compenso, ad esempio, potrebbe essere calcolato con riferimento alla retribuzione percepita dal dipendente al momento della cessazione del rapporto.

Quanto poi al fatto che le somme erogate al lavoratore nel corso del rapporto siano assoggettate a contribuzione previdenziale, se esso comporta un onere per il datore di lavoro, per contro costituisce anche un vantaggio per il dipendente, del quale dovrà tenersi conto nella valutazione della congruità del compenso.

29 Cassazione 4 aprile 1991, n.3507

COMPENSO ALLA CESSAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO

La seconda modalità di pagamento è costituita dalla corresponsione di una somma al momento della cessazione del rapporto di lavoro, ovvero alla fine del periodo di durata del patto di non concorrenza.

In tal caso, il compenso, se non è esente dal pericolo di essere considerato incongruo, come più sopra accennato, non è soggetto a contribuzione previdenziale ma solo a tassazione separata.

COMPENSO PERIODICO DALLA DATA DI CESSAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO

Infine, ma tale modalità è poco frequente, il compenso può essere liquidato periodicamente, con decorrenza dalla data di cessazione del rapporto di lavoro.

Quest’ultima forma comporta un indubbio vantaggio per il datore di lavoro: gli consente, infatti, di tutelarsi immediatamente in ipotesi di violazione dell’obbligo di non concorrenza, sospendendo il pagamento delle somme non ancora erogate.

Allo stesso modo, al datore di lavoro sarà consentito non corrispondere il compenso, il cui pagamento sia stato pattuito al termine del periodo di vigenza del vincolo, allorché nel frattempo si sia verificato l’inadempimento della controparte.

In caso di corresponsione del compenso nel corso del rapporto di lavoro, ovvero al momento della estinzione del medesimo, invece, il datore di lavoro dovrà chiedere giudizialmente la restituzione di quanto pagato, con tutti i conseguenti problemi.

CAPITOLO 3

PROFILI DI INCOSTITUZIONALITA’

Alla lettura dell’art. 2125 c.c. deve essere affiancata una valutazione indirizzata a stabilire la legittimità dello stesso nei confronti dei principi espressi nella carta costituzionale. Ad una prima verifica, il testo della norma civilistica pare contrastante con alcuni principi, quali la libertà di lavoro (ex art. 4 Cost.) e la libertà di iniziativa economica (ex art. 41 Cost.), in quanto legittima la possibilità di restringere convenzionalmente tali libertà pur ponendo determinati limiti. In un primo momento la giurisprudenza ha risolto tale problema attribuendo alla volontà delle parti la disponibilità di tali diritti, invece che alla legge tesa a tutelare il lavoratore attraverso la limitazione dell’operatività del patto.

In questo contesto sono venute a formarsi due diverse opinioni riconducibili alla dottrina: la prima teoria parte dall’assunto che qualsiasi diritto di libertà va contemperato con altre posizioni giuridiche parimenti meritevoli di tutela costituzionale; nel caso specifico viene individuata nella libertà di iniziativa economica, concepita come libertà di permanenza sul mercato, la protezione da accordare al lavoratore. Inoltre, facendo riferimento al carattere temporaneo della pattuizione e agli altri limiti previsti dalla norma lavoristica, tale teoria ritiene che venga garantito un sufficiente margine di esplicazione della libertà di lavoro, rispettando così il diritto al lavoro. «Il discorso si sposta allora sul piano applicativo e lungo questa linea riacquistano valore i principî costituzionali capaci di invalidare – in un rigoroso giudizio da formularsi di volta in volta – le ipotesi interpretative dell’art. 2125 c.c. che avallano esasperate compressioni della

libertà di lavoro e della libertà di iniziativa economica (di cui è pure titolare l’ex dipendente che intende svolgere un’attività imprenditoriale).»30

Così il Tribunale di Milano 20/06/1974, GADI, 1974, n. 578/5 ha ritenuto che non sussiste contrasto con gli artt. 4 e 35 Cost. perché l’art.

2125 può essere interpretato in modo che il lavoratore, senza vedere pregiudicata gravemente la sua futura ed eventuale capacità di guadagno, può ricavare un vantaggio economico immediato dalle sue potenziali attitudini e cognizione specifiche. In altra sentenza che reca la stessa data (GADI, 1974, n. 576/1) è stata respinta la pretesa contrarietà dell’art. 2125 con l’art. 4 Cost., affermando che quest’ultimo non rende illegittimo qualsiasi limite posto dall’autonomia contrattuale al diritto del lavoro e con l’art. 36 Cost., in quanto l’art. 2125 prevede che il compenso sia proporzionato alla limitazione dell’attività lavorativa. Del pari il Tribunale di Milano 27/09/1971, GADI, 1972, n. 33/1 ha argomentato del fatto che il patto in esame non elimina completamente la capacità lavorativa del prestatore di lavoro ed è comunque ricollegabile ad un obbligo assunto da un soggetto nell’ambito della propria autonomia contrattuale per respingere la tesi di un contrasto dell’art. 2125 con gli artt. 4, 35 e 41 Cost.

Un secondo orientamento contesta la costituzionalità dell’art. 2125 c.c., ponendo l’accento sul problema che sorge con la possibilità che il lavoratore si obblighi a non impiegarsi presso un concorrente dell’imprenditore o a non concorrere con lui in prima persona, nel momento di massimo squilibrio tra i poteri contrattuali delle parti, opprimendo così la libertà di scelta del lavoratore come attributo essenziale della persona,

30 FULVIO BIANCHI D’URSO, Concorrenza, Patto di non concorrenza, in Enciclopedia giuridica Treccani 1988-1

avallando l’ipotesi di una probabile incostituzionalità della norma. Il dubbio è rafforzato dalla teoria, sostenuta in dottrina, che il patto di non concorrenza incide sullo stesso potere di dimissioni, nella misura in cui costituisce un energico incentivo a procrastinarne l’esercizio.

«Una diversa conclusione, invece, parrebbe imporsi se per «attività del prestatore di lavoro» (art. 2125 I comma c.c.) si potesse o si dovesse intendere soltanto l’avvio di nuovi processi produttivi e, in particolare, la costituzione di un’impresa destinata a competere con quella in cui il prestatore è impiegato. Sul profilo della scelta professionale, infatti, si sovrappone qui e viene in primo piano fino ad occupare tutto il quadro, il profilo dell’iniziativa economica: ossia di un valore che, avendo prevalente segno patrimoniale, inerisce alla personalità del singolo in modo assai meno diretto ed è quindi relativamente disponibile».31

31 MANCINI F., in Comm. Cost. Branca, sub art. 4, 1975

CAPITOLO 4

MOMENTO DELLA STIPULAZIONE DEL PATTO

Rilevante è, altresì, il momento della stipulazione dell’accordo.

Dottrina e giurisprudenza concordano sul fatto che il patto possa essere sottoscritto in qualsiasi momento del rapporto di lavoro e così al momento dell’assunzione ovvero nel corso del rapporto stesso, mentre si hanno opinioni discordanti sull’applicazione dell’art. 2125 c.c. nel caso il patto sia stipulato al momento dell’estinzione del contratto di lavoro, ovvero dopo la cessazione del medesimo. Secondo un primo orientamento, in tal caso non potrebbe più applicarsi l’art. 2125 c.c.: l’accordo dovrebbe essere regolato invece dall’art. 2596, che disciplina il patto di non concorrenza tra imprenditori. Infatti, il testo della norma, che parla di prestatore di lavoro, sembra presupporre la necessità che il patto di cui all’art. 2125 c.c. sia stipulato in corso di rapporto. A tale orientamento si contrappone quello che ritiene sempre applicabile la norma lavoristica, in qualunque momento l’accordo venga sottoscritto. Per un orientamento intermedio si sono invece espresse le Sezioni Unite della Cassazione32, le quali hanno affermato che l’art. 2125 è applicabile al patto concluso dopo la cessazione del rapporto di lavoro solo quando esso sia stipulato in sede di definizione di un conflitto di interessi ancora pendente, relativo al precorso rapporto, con ciò confermando in sostanza che, al di fuori di tale ipotesi, al patto di non concorrenza sottoscritto posteriormente all’estinzione del

32 Cass., S.U. 10 aprile 1965, n. 630, in Dir. Lav., 1966, II, 31

rapporto di lavoro è applicabile l’art. 2596 c.c.

Il problema assume ulteriore rilevanza in relazione alla prestazione del datore di lavoro: infatti, il testo dell’art. 2596 c.c. non prevede, in capo alla parte datoriale, alcuna obbligazione onerosa, legittimando così, a differenza della norma lavoristica, pattuizioni che non prevedono in favore del lavoratore la corresponsione di un compenso in denaro. Nel caso pratico esso più facilmente sarà sottoscritto al momento dell’assunzione (il patto di non concorrenza, infatti, è frequentemente contenuto nella lettera di assunzione o, comunque, costituisce una clausola del contratto individuale di lavoro), potendo in tal caso il datore di lavoro porlo come condizione del rapporto di lavoro che si sta per instaurare, ovvero in corso di rapporto in cambio di avanzamenti di carriera.

L’ipotesi, invece, della conclusione del patto di non concorrenza al momento della cessazione del rapporto di lavoro o, addirittura, in seguito, è alquanto remota, se non, appunto, in sede transattiva per la definizione di una controversia in atto tra le parti. In tale ipotesi, infatti, il lavoratore non avrà generalmente interesse, salvo che in casi particolari, a sottoscrivere un patto limitativo della sua futura attività lavorativa.

CAPITOLO 5

L’INADEMPIMENTO DEL LAVORATORE

La violazione del patto di non concorrenza, da parte del lavoratore, costituisce inadempimento contrattuale, ed il datore di lavoro potrà certamente chiedere, ai sensi dell’art. 1453 comma 1 c.c. la risoluzione del contratto ed il risarcimento dei danni che dimostri di avere subito. Poiché spesso, nel caso pratico, la prova in merito appare piuttosto difficile da fornire, solitamente viene inserita nel patto di non concorrenza una clausola penale, ai sensi dell’art. 1382 c.c., la quale richiede per la sua applicabilità, solo l’accertamento dell’inadempimento e non la prova dell’esistenza dei danni. In tal caso, il datore di lavoro, provato in giudizio l’inadempimento, avrà senz’altro diritto al pagamento della penale. Il lavoratore è, inoltre, tenuto a restituire le somme percepite in esecuzione del patto, in quanto a seguito dell’inadempimento è venuta meno la causa del pagamento.33

5.1. L’inibizione dell’attività lavorativa

In questo contesto emerge la questione della previsione, a favore del datore di lavoro, anche di una tutela d’urgenza attraverso l’inibizione al lavoratore della sua nuova attività. Il legislatore non ha espressamente previsto la sanzione dell’inibitoria in caso di inadempimento del patto di non concorrenza; l’ha prevista, invece, nel caso di concorrenza sleale tra imprenditori ex art. 2599 c.c., ma tale disciplina non può essere estesa alla norma lavoristica in quanto il campo di applicazione delle due norme è differente e inoltre non viene fatto alcun richiamo all’art. 2125 c.c. Ciò non

33 Pret. Montebelluna 31 marzo 1989.

significa, che nella fattispecie debbano ritenersi ammissibili solo provvedimenti risarcitori, destinati a realizzare l’interesse del creditore attraverso il recupero dell’utilità economica pregiudicata dalla violazione dell’interesse leso; a norma dell’art. 1453 c.c., il datore di lavoro può chiedere in giudizio l’adempimento dell’obbligazione da parte del lavoratore e, nel caso la richiesta venga accettata dal giudice, dovrebbe comportare necessariamente l’inibizione della continuazione dell’attività, costituendo la persistenza di un fatto illecito. E’ da dire però che la lettera dell’art. 1453 c.c. non fa riferimento espresso né alle obbligazioni omissive, né al rimedio dell’inibitoria, ma è una norma generale che displina i contratti ad esecuzione continuata.

La soluzione potrebbe essere prospettata, allora, dall’individuazione nel nostro ordinamento di una azione inibitoria da applicare in via generale e, di conseguenza, nella fattispecie in esame a tutela del datore di lavoro.

Sotto questo punto di vista, l’ordinamento fornisce importanti esempi, anche di recente introduzione, di azioni di condanna ad obblighi negativi non eseguibili coattivamente che impongono, cioè, doveri di astensione riferiti a prestazioni richiedenti la cooperazione dell’obbligato; essi evidenziano il ricorso sempre più frequente del legislatore alla tutela inibitoria, sviluppando così l’opinione di chi ritiene necessaria l’introduzione nel nostro sistema giuridico di un principio generale di applicazione del rimedio inibitorio. In particolare, l’azione inibitoria, ampiamente utilizzata per la tutela dei diritti dei lavoratori (art. 28 st. lav., art. 4, l. 10 aprile 1991, n. 125), è stata introdotta per la tutela dei consumatori dall’art. 1469 sexies c.c. e dall’art. 3, l.30 luglio 1998, n. 281, e secondo parte della dottrina può essere sempre concessa a chi vuol far

valere l’altrui inadempimento.34 L’applicazione della tutela inibitoria al lavoratore inadempiente dell’obbligo di non concorrenza, riscontra rilevanti problemi nella fase esecutiva dell’ordine del giudice. Dal momento che l’obbligazione del lavoratore ha per oggetto una prestazione omissiva infungibile, il provvedimento inibitorio può trovare attuazione solamente se il lavoratore conforma il proprio comportamento all’ordine del giudice.

Emerge quindi il problema dell’attuazione coattiva dell’inibitoria, accentuato anche dall’impossibilità per il giudice di emanare delle misure di coercizione indiretta, ipotesi prevista nel nostro ordinamento solo per taluni casi specifici.

Altri problemi inerenti a questo tipo di provvedimento sorgono in relazione agli interessi di terzi che hanno concluso in buona fede il rapporto di lavoro con l’inadempiente, e che vantano nei confronti di quest’ultimo un diritto che contraddice quello oggetto della tutela cautelare. Conseguenza dell’inibizione è, infatti, l’impossibilità per il nuovo datore di lavoro di disporre delle prestazioni oggetto del contratto e di interferire con il diritto facente capo al primo datore di lavoro. Rientra nella normalità della casistica il fatto che provvedimenti aventi un contenuto ripristinatorio creino, nei confronti del soggetto passivo dello stesso, problemi con terzi, e la lesione dei loro diritti, mettendo in prim’ordine il diritto facente capo al primo datore di lavoro. Inoltre il provvedimento non i cui diritti siano lesi dall’attuazione della misura giudiziale. E’ da dire che il provvedimento non produce effetti diretti nei confronti dei rapporti con il terzo; la pronuncia non ha dunque natura c.d. di «tutela reale», non producendo effetti costitutivi, direttamente ed autoritativamente incidenti sui rapporti privati:

34 PIETROBON, «illecito e fatto illecito, inibitoria e risarcimento» Padova 1998, 141.

non viene infatti posto nel nulla il contratto stipulato tra il lavoratore e il nuovo datore di lavoro in violazione del patto di non concorrenza, bensi viene ordinata l’esecuzione del patto di non concorrenza, in forma di cessazione del comportamento integrante l’inadempimento.35

«D’altra parte la lesione dei diritti del terzo costituisce effetto indiretto inidoneo a legittimare il persistere della condotta illecita e l’impossibilità di emettere il provvedimento destinato a farla cessare. Infine è da rilevare che la causa esclusiva del danno arrecato al terzo è costituita dall’eliminazione della situazione antigiuridica determinata dall’inadempimento, cioè da un comportamento comunque da ascrivere all’inadempiente, che, pur consapevole dell’impegno assunto, ne ha contratto altro incompatibile con il precedente, per cui è pienamente giustificato l’obbligo risarcitorio inter partes, mentre non lo sarebbe la menomazione dei diritti del contraente estraneo al rapporto con il terzo.»36

5.2. Misure di coercizione indiretta

La tutela inibitoria offerta al datore di lavoro, dimostra di avere un punto debole, che contraddistingue tutti i provvedimenti di tale natura aventi ad oggetto un obbligo di fare infungibile, che si trova nell’insuscettibilità dell’ordine del giudice di essere oggetto di esecuzione forzata.

Il Tribunale di Bologna in una ordinanza apprezzabile quanto singolare,37 si distingue nettamente rispetto alle precedenti pronunce per

35 Pret. Milano, 22 febbraio 1999, in Riv. It. Dir. lav., 2000, II, 329.

36 MAURIZIO TATARELLI, Il patto di non concorrenza: contenuto e sanzioni, in Massimario di Giurisprudenza del Lavoro 2002-151

37 Tribunale di Bologna 29 gennaio 2002, Soc. Datalogic c. Moroni in Lavoro giur., 2003, 1153

quanto concerne l’accoglimento dell’istanza della società ricorrente di porsi a carico del prestatore di lavoro, per l’ipotesi di mancata ottemperanza all’ordine di cessazione dell’attività vietata, una somma per ogni mese di ritardo nell’adempimento. Il provvedimento introduce così una misura di coercizione indiretta all’inibitoria dell’attività illegittima.

L’ordinanza in esame ha il pregio di attribuire al provvedimento inibitorio potere coercitivo, ma fa emergere problemi in relazione alla legittimità della stessa.

«Non può, a tale riguardo, non osservarsi come il giudice, seppure nell’ambito dell’ampio potere attribuitogli dall’art. 700 c.p.c., che non individua un provvedimento tipico e lascia alla discrezionalità del giudicante l’individuazione delle misure più idonee ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione di merito, non possa emanare in via cautelare provvedimenti che non siano poi adottabili in sede di cognizione».38 In quest’ottica il nostro ordinamento non prevede il potere, in capo al giudice, di emanare provvedimenti sanzionatori nei confronti dell’inadempiente che non siano previsti dalla legge, ovvero da obblighi pattiziamente assunti dalle parti; potere che, invece, sembra essere utilizzato dal giudice, nel caso in esame, nel momento in cui obbliga il dipendente al pagamento di una somma in denaro nel caso in cui non si adeguasse al provvedimento inibitorio che gli ordina di cessare il rapporto con l’impresa concorrente.

A differenza degli ordinamenti degli altri paesi, si pensi all’astrainte39

A differenza degli ordinamenti degli altri paesi, si pensi all’astrainte39

Documenti correlati