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Capitolo 5.......................................................................................................................... 26

5.3. Penale

Compatibile con l’art. 2125 è stata ritenuta la previsione di una penale per il caso di inadempimento del lavoratore, purchè il suo ammontare sia proporzionato all’interesse che il datore di lavoro aveva all’adempimento al momento della stipulazione del patto, con possibile applicazione dell’art.

1384 per ridurla.42

Va comunque precisato che non è ammesso, ex art. 1383 c.c., il cumulo dell’azione inibitoria e della penale nel suo intero ammontare.

Il divieto del cumulo dei due rimedi impedisce che il creditore ottenga dall’inadempimento del suo debitore un vantaggio superiore a quello che avrebbe ottenuto se al contratto fosse stata data regolare esecuzione. Il c.d.

42 Tribunale di Milano 20/06/74, GADI, 1974, n. 578/6

divieto di cumulo opera dunque quando sia possibile l’integrale soddisfacimento dell’obbligazione. Diversamente, se l’obbligazione ha come oggetto una prestazione omissiva, l’inadempimento si realizza nell’istante stesso del compimento del primo atto commissivo e questo impedisce che il creditore possa ottenere dal suo debitore l’adempimento integrale.

In simili ipotesi, il creditore, il quale faccia valere il suo interesse ad ottenere, se pure tardivamente, la prestazione negoziale, ha diritto a ricevere sia l’adempimento, ormai inevitabilmente parziale, sia il diritto al pagamento della penale, ridotta in misura tale da bilanciare l’entità del pregiudizio subito a seguito del parziale e tardivo adempimento ( ex art.

1384 c.c.).

Il principio è applicabile soprattutto in materia di mancato rispetto di accordi di durata, qual è il patto di non concorrenza.

CAPITOLO 6

RECESSO DEL DATORE DI LAVORO

Sulle clausole che attribuiscono alla parte datoriale la possibilità di recesso dal patto di non concorrenza si è espressa la Corte di Cassazione, che in alcune recenti sentenze si è pronunciata in difesa del lavoratore tutelando il suo diritto alla futura programmazione economica; queste sentenze43 sono degne di nota, in quanto mettono in luce una rivalutazione delle motivazioni che, negli anni passati, fecero propendere la stessa Suprema Corte ad orientamenti opposti sull’argomento.

Le sentenze in commento affermano la nullità della clausola che attribuisce al datore di lavoro la facoltà di recedere dal patto di non concorrenza dopo la cessazione del rapporto.

Nelle motivazioni la corte spiega che l’art. 1373 c.c., che si potrebbe applicare in via generale ai contratti ad esecuzione continuata, si pone in contrasto con l’art. 2125 c.c., il quale, essendo una norma di carattere speciale, è la fonte principale che disciplina il patto di non concorrenza. In particolare il contrasto sorge riguardo al termine della pattuizione, che secondo la lettera dell’art. 2125 c.c. deve essere determinato precedentemente e deve avere una durata certa; non è possibile perciò applicare alcuna normativa, ovvero alcuna clausola assunta dalle parti, che infici la certezza di tale termine, da cui ne deriva l’inapplicabilità dell’art.

1373 c.c. alla fattispecie in commento e la nullità di ogni clausola stipulata in senso contrario.

43 Cass. 13 giugno 2003, n. 9491 e Cass. 16 agosto 2004, n. 15952

La soluzione adottata dalla sentenza in commento, supera il precedente, e ormai risalente, orientamento giurisprudenziale che era giunto ad affermare la validità del recesso datoriale dal patto di non concorrenza dopo la cessazione del rapporto di lavoro.44 Da un lato, si erano ritenuti pienamente operanti i principî generali di cui all’art. 1373 c.c.; dall’altro, si era affermato che dall’attribuzione di tale potere al datore di lavoro non conseguiva una indeterminabilità del corrispettivo pattuito, in considerazione dell’ampio margine riconosciuto sul punto all’autonomia individuale dall’art. 2125 c.c.

Così si deve concludere che «l’art. 2125 c.c., nell’imporre che il patto di non concorrenza sia determinato nel tempo, preclude al datore di lavoro la possibilità di incidere unilateralmente sulla durata temporale del vincolo e di vanificare, conseguentemente, la previsione della fissazione di un termine certo. In tale prospettiva, deve giungersi ad affermare l’illegittimità di tutte quelle clausole contrattuali che rimettono la definizione temporale del patto di non concorrenza ad elementi certi nell’an ma incerti nel quando, nonché al verificarsi di condizioni risolutive potestative, a cui viene assimilata dalla giurisprudenza la facoltà di recesso, trattandosi di situazioni tra loro accomunate dall’oggettiva incertezza, al momento della stipulazione, della durata del vincolo».45

44 Cass. 10 aprile 1978, n.1686, in Or. Giur. Lav. 1978, 999

45 MASSIMO LANOTTE, Patto di non concorrenza e nullità della clausola di recesso, Mass.

Giur. Lav. 2005, 45

6.1. Congruità del corrispettivo

E’ stata sollevata, da un’interpretazione giurisprudenziale,46 l’ipotesi di violazione del principio di corrispettività delle obbligazioni all’esercizio datoriale del potere di recesso. Invero, quest’ultimo incide solamente sulla durata del vincolo, determinandone una riduzione temporale. Non può invece, rinvenirsi alcuna correlazione diretta tra esercizio del recesso e violazione del principio di corrispettività. In prima battuta, si può affermare che il recesso non altera necessariamente l’equilibrio tra prestazione e controprestazione, tutelato dal legislatore con la previsione, tra i requisiti di legittimità del patto, di un corrispettivo.

D’altra parte, la cessazione del vincolo libera il datore di lavoro dall’adempimento delle obbligazioni non ancora eseguite, in base al principio generale che regola il recesso dai contratti ad esecuzione continuata o periodica e di conseguenza potrebbe ridurre il guadagno del prestatore di lavoro per il vincolo assunto. Da questa considerazione si dovrebbe partire per valutare se il recesso causi la violazione del principio di corrispettività delle obbligazioni, tenendo in considerazione che sono previste diverse modalità di erogazione del corrispettivo.

Si può affermare, pertanto, che l’esercizio del potere di recesso non determina necessariamente uno squilibrio tra prestazione e controprestazione. Bisognerebbe valutare nel caso specifico, alla luce delle concordate modalità di attribuzione del compenso se alla cessazione del vincolo si possa riscontrare una disparità tra le prestazioni in oggetto tale da ledere il principio di corrispettività tutelato dall’art. 2125 c.c. Tale

46 Tribunale di Milano, 25 luglio 2000, n. 138

valutazione non può essere limitata all’applicazione di criteri quantitativi ed aritmetici, mediante meccanismi che, ad esempio, equiparino percentualmente la riduzione della durata del patto con la riduzione del corrispettivo, ma soprattutto che il patto di non concorrenza vincola fin dalla cessazione del rapporto di lavoro e, probabilmente, fin dalla sottoscrizione del patto, le scelte del lavoratore. Di conseguenza dalla data del recesso, il datore di lavoro continuerà a trarre vantaggio delle scelte del lavoratore assunte in relazione al vincolo cui era sottoposto e in questo senso si potrebbe verificare una disparità nella corrispettività delle prestazioni.

In conclusione, non pare intrinseca nel potere di recesso la lesione del principio dim corrispettività delle obbligazioni, ma bisognerà fare una valutazione caso per caso.

6.2. Diritto alla programmazione della futura attività lavorativa

Seguendo l’iter decisionale delle sentenze in commento però, la preclusione del diritto di recesso al datore di lavoro, non deriva tanto dall’esposizione del lavoratore al rischio di non essere adeguatamente compensato, quanto perché la norma codicistica, impone che quest’ultimo

«abbia sicura contezza, fin dall’assunzione dell’impegno, della durata del vincolo, per assumere le determinazioni più opportune sulle scelte lavorative, le quali verrebbero seriamente ostacolate ove il medesimo fosse soggetto alle determinazioni della controparte».47 La ratio della norma è quella di garantire i diritti fondamentali del lavoratore, in particolare i valori costituzionalmente tutelati del diritto al lavoro ed alla libera iniziativa

47 Cass., 16 agosto 2004, n. 15952

economica, i quali non possono essere compressi oltre determinati livelli minimi essenziali.

La norma, quindi, garantisce al lavoratore la durata del vincolo, al fine di consentire allo stesso la programmazione della sua futura attività lavorativa in relazione alla ridotta libertà d’impiego. Pertanto ogni pattuizione che attribuisca al datore di lavoro il potere di incidere sul termine del patto, deve ritenersi illegittima, anche qualora sia previsto specifico compenso.

Inoltre, secondo la corte, la situazione di precarietà sostanziale in cui verrebbe a trovarsi il lavoratore dopo la cessazione del rapporto, per essere

«costantemente soggetto alle determinazioni altrui», non può trovare adeguata compensazione né sul piano economico, né nell’utilità che pur sempre consegue alla liberazione dal vincolo.

6.3. Fidelizzazione del lavoratore

Secondo parte della dottrina, il patto di non concorrenza produce degli effetti già in corso di rapporto sulle determinazioni negoziali del lavoratore.

Secondo questo orientamento il patto, durante lo svolgimento del rapporto, non costituisce tanto un vincolo alla libertà di lavoro, quanto una limitazione sostanziale alla facoltà di dimissioni. Invero, «il lavoratore, sapendo di non poter svolgere dopo la cessazione del rapporto determinate attività lavorative è inevitabilmente privato della piena libertà di recedere dal rapporto di lavoro in essere. Di conseguenza, può affermarsi che il patto di non concorrenza può costituire anche uno strumento di fidelizzazione del dipendente». In questo modo, la tutela dell’impresa dalla concorrenza dell’ex dipendente opera su due piani distinti: da un lato, dopo la cessazione

del rapporto del rapporto di lavoro, in via repressiva, mediante il divieto di svolgere attività concorrenziale; dall’altro in via preventiva, già in costanza di rapporto, incentivando la permanenza del lavoratore nell’impresa, proprio in ragione della futura limitazione della libertà di scegliere una nuova occupazione».48

Assume quindi rilevanza la questione della legittimità del recesso dal patto di non concorrenza entro la fine del rapporto di lavoro, che pur rispettando l’assunto della predeterminazione temporale del vincolo, garantendo al lavoratore la certezza della durata del vinvoloe sfuggendo così alle ipotesi di illegittimità che la giurisprudenza ha elaborato, pone comunque il lavoratore in una situazione di precarietà sostanziale, in quanto soggetto all’eventuale determinazione datoriale di recedere dal patto. Di conseguenza, il datore di lavoro potrebbe beneficiare dell’effetto fidelizzante del patto senza essere soggetto ad alcuna controprestazione.

A giudizio di chi scrive, è da affiancare l’orientamento della Corte di Cassazione, che indica l’incertezza della durata del patto, quale elemento essenziale per determinare la nullità delle clausole che attribuiscono alla parte datoriale il potere di recesso dal patto di non concorrenza. Invero, nelle motivazioni delle sentenze in commento, la Suprema Corte non fa riferimento né al principio di corrispettività delle obbligazioni, né al rischio di fidelizzazione del lavoratore provocata dal patto stesso.

E’ da dire, che l’adeguatezza del corrispettivo dovrebbe essere valutata con un giudizio di merito nella fattispecie specifica, in quanto, come sopra detto, il recesso del datore di lavoro non implica, nella

48 MASSIMO LANOTTE, Patto di non concorrenza e nullità della clausola di recesso, Mass.

Giur. Lav. 2005, 48

generalità dei casi, una violazione del principio di corrispettività; per questo motivo non è possibile considerare quest’ultima, una motivazione che permetta di considerare nullo, in via generale, il recesso datoriale.

Per quanto riguarda il secondo aspetto, non è da ritenere un elemento sostanziale, in quanto i limiti posti dall’art. 2125 c.c. (limite di tempo, di territorio e di oggetto) a tutela del diritto al lavoro, se rispettati, garantiscono al lavoratore delle prospettive di lavoro tali da rendere incontaminata la propria scelta sul se, e sul quando cessare il rapporto lavorativo.

D’altra parte, il recesso del datore di lavoro dal patto di non concorrenza prima della cessazione del rapporto è da ritenere allo stesso modo lesivo per il prestatore di lavoro, in quanto non rispetta il diritto alla programmazione della futura attività lavorativa riconosciuto allo stesso lavoratore.

6.4. Patto di opzione

Discussa in dottrina e in giurisprudenza è, inoltre l’ammissibilità di un patto di opzione ai sensi dell’art. 1331 c.c., che acceda al patto di non concorrenza, nonché del recesso unilaterale del datore di lavoro.

Quanto al patto di opzione, attraverso il quale il datore di lavoro si riserva, entro un termine prestabilito, la facoltà di accettare o meno il contenuto dell’obbligo assunto dal lavoratore, con la conseguenza che soltanto in caso di accettazione il patto di non concorrenza si perfezionerà a tutti gli effetti, secondo una parte della giurisprudenza,49 sarebbe inammissibile, in quanto anche qualora sia previsto un patto di opzione, il patto di non concorrenza limita comunque ed immediatamente le potenzialità personali di lavoro e di iniziativa economica, ben oltre il vincolo di subordinazione e di fedeltà tipica di ogni rapporto di lavoro. Tale orientamento ha precisato che il corrispettivo non può configurarsi esclusivamente come controprestazione del concreto rispetto da parte del dipendente, dopo la cessazione del rapporto, dell’impegno assunto, ma vale anche a compensare la perdita della possibilità di libera determinazione di se stesso che il dipendente ha subito fin dal momento della stipulazione del patto con il datore di lavoro. Dall’altro lato, l’orientamento giurisprudenziale prevalente sembra escludere una controprestazione onerosa per l’attribuzione al datore di lavoro della facoltà di rendere o meno operante il vincolo di non concorrenza. Così, con riferimento al patto di opzione, si afferma che la previsione di un compenso sarebbe privo di causa giuridica, in quanto, da un lato, estraneo al patto di non concorrenza, dall’altro non previsto dalla legge a favore del soggetto passivo

49 Pret. Bologna, 28 febbraio 1985, in Lav. ’80, 1985, 873.

dell’opzione medesima. Tale orientamento ha affermato che il patto di non concorrenza può essere oggetto di una opzione o di un contratto preliminare unilaterale a favore del datore di lavoro, purchè sia in essi previsto un termine che renda definitivo il patto stesso anteriormente alla cessazione del rapporto di lavoro. Solo la mancanza di tale termine, risolvendosi in una elusione dell’art. 2125 c.c., renderebbe nulla l’opzione ai sensi dell’art 1344 c.c.50

Di fatto, si crea una situazione di incertezza, che limita il lavoratore nelle determinazioni inerenti alle proprie future scelte lavorative, prospettandosi comunque l’eventualità che il datore di lavoro si avvalga della facoltà di rendere efficace il patto di non concorrenza.

Rifacendosi ai recenti orientamenti della Cassazione51, i quali impongono che il lavoratore debba avere «sicura contezza» del vincolo assunto, al fine di non essere soggetto alle determinazioni del datore di lavoro, si dovrebbe dedurre che anche il patto di opzione applicato al patto di non concorrenza, che di fatto pone il lavoratore in uno stato di assoluta incertezza sull’efficacia del vincolo assunto, risulti illegittimo ai sensi dell’art. 2125 c.c.

50 Cass. 24 marzo 1980, n. 1968, in Giust. Civ. 1981, I, 1111

51 Cass. 10 aprile 1978, n.1686, in Or. Giur. Lav. 1978, 999

BIBLIOGRAFIA

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