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Voglio introdurre questo breve ragionamento sulla montagna, le donne e

l’alpinismo agganciandomi alla sigla, per il vero un po’ ermetica, comparsa accanto al mio nome sul programma del convegno: RHM Torino – che più precisamente avrebbe dovuto essere RHM Italia. Ebbene, l’acronimo RHM sta per Rendez-vous Haute Montagne, un’associazione internazionale di al- piniste che ha sede in Svizzera e la cui storia calza a pennello con il tema di questa relazione.

Per capire di che cosa si tratta, dobbiamo spostarci nel cuore delle Alpi svizzere, dove una spumeggiante baronessa ungherese, Felicitas von Rezni- cek, aveva preso dimora per sfuggire al blocco sovietico in cui era caduto il suo paese dopo la seconda guerra mondiale. Von Reznicek non ne sapeva granché di montagna, ma trovandosi in uno dei più blasonati milieu alpini- stici d’Europa si appassionò a tal punto all’ambiente, che pensò di aiutare le alpiniste rimaste oltre cortina organizzando un incontro internazionale al quale invitò tutte le più forti scalatrici del momento. Questo accadde preci- samente a Engelberg nel 1968. Nel 2018 si sono festeggiati dunque i 50 anni del Rendez-vous Haute Montagne. Ed è una bella soddisfazione che il soda- lizio abbia saputo non solo preservarsi nel tempo, ma arricchirsi e rinnovarsi; tanto che oggi oltre sessanta alpiniste di una decina di paesi europei ne fanno stabilmente parte, compresa l’Italia, che da tre anni lo presiede. Certo, dal 1968 i tempi sono mutati e oggi le stelle del verticale viaggiano nell’empi- reo dell’alpinismo mediatizzato, ma ciò che conta è la partecipazione delle alpiniste “normali” – tutte autosuffi cienti e in grado di scalare da prime di cordata.

Questa è la fotografi a di una ordinaria contemporaneità. Non pare vero che sia il frutto di un lungo e travagliato processo, uscito da decenni di bat- taglie combattute su terreni infi di, accidentati, quasi si trattasse di cammi- nare su un ghiacciaio costellato di crepacci e di precari ponti di neve. Come reagirebbe un’alpinista di fi ne ’800-primi ’900 di fronte a tanta familiarità

con le alte quote, di fronte a tanta semplicità nell’avvicinarsi alla montagna da parte di qualunque donna che si senta attratta dall’alpinismo e che voglia misurarsi con la diffi coltà, lo sforzo, la prestazione atletica? In sintesi, con l’avventura. Il suo stupore, del resto, non sarebbe minore guardando alla pos- sibilità di esercitare diritti civili e politici, o di scegliere cosa studiare e quale mestiere praticare.

Il rapporto donne-montagna è dunque paradigmatico e rimane una vi- cenda complessa, ricca di chiaroscuri: è impossibile disgiungerla dall’evolu- zione sociale e del costume. E chi volesse scrivere una storia dell’alpinismo includendo l’azione esplorativa delle donne deve prepararsi a una sorta di

mission impossible. Per la semplice ragione che per oltre un secolo, salvo ra-

rissime eccezioni, solo una manciata di donne ce l’ha fatta a superare il muro di divieti, coercizioni e pregiudizi; e quand’anche ci fosse riuscita, nell’epo- ca d’oro della conquista delle cime inviolate non se ne poteva aggiudicare la “paternità” poiché nessuno l’avrebbe creduta. Esemplare il caso delle sorelle britanniche Anna ed Ellen Pigeon, la cui pionieristica traversata del Monte Rosa da Zermatt ad Alagna, nel 1869, fu a lungo messa in dubbio e avvalora- ta solo dopo la presentazione di molte prove; oppure quello di Meta Breevort Coolidge, zia e mentore del forte alpinista americano William A. Coolidge, i cui scritti venivano regolarmente fi rmati col nome del nipote. Il risultato è che spesso delle donne non vi è traccia nelle cronache. Curioso, però, che tanta assenza rifulga anche quando abbiano compiuto un’impresa eclatante e inedita, mai realizzata prima né da uomo né da donna. Come dimostra un re- cente libro di divulgazione alpinistica, che ignora bellamente la prima salita in libera della via del Nose compiuta dalla fuoriclasse americana Lynn Hill nel 1994 sulla gigantesca parete rocciosa del Capitan, nella Yosemite Valley: un exploit di valore assoluto1.

Se dunque le donne intendono partecipare al gioco dell’alpinismo – crea- to dagli uomini, con regole stabilite da loro – debbono adeguarsi. Ma come? Con che tempi? Secondo quali norme e criteri? Negli anni a cavallo tra XIX e XX secolo, la regola aurea è quella di andarci con gli uomini, siano essi padri, fratelli o mariti. Non c’è scelta.

Interessante al proposito lo studio condotto da Dagmar Günther sulla sto- ria culturale dell’alpinismo tra il 1870 e il 1930 in area germanofona2. Nel

capitolo “Identifi cazione di una donna”, la studiosa prende in esame il feno- meno a cominciare dal “come si parla” di alpinismo femminile. I percorsi dell’argomentazione sono sempre orientati a giustifi care la pratica di un’at- tività tradizionalmente maschile da parte di una donna. Ne emerge con forza il timore che, per dedicarsi alla montagna, e a causa delle fatiche e dei rischi

1. Enrico Camanni, Di roccia e di ghiaccio. Storia dell’alpinismo in 12 gradi, Laterza, Roma-Bari 2013.

2. Dagmar Günther, Alpine Quergänge. Kulturgeschichte des bürgerlichen Alpinismus

che questa comporta, la donna perda la propria femminilità; da cui discende il rischio che si crei confusione tra i generi. Tra i punti messi in rilievo: la tu- tela, l’accompagnamento, l’iniziazione alla montagna da parte di un uomo, così come la facilità e l’accessibilità dei luoghi, di cui è testimonianza il fatto stesso che siano percorribili da una donna (non disse forse l’inglese Albert Frederick Mummery, che un’ascensione prima è impossibile, poi è estrema- mente diffi cile e infi ne non è più che un’escursione per signore?).

Data per implicita l’equazione donna = natura, altra argomentazione ri- corrente vuole che essa non affronti la montagna con gli strumenti della forza fi sica, peculiarità maschile, bensì con un sentimento precipuo che solo a lei consente di mettersi in armonia con il mondo naturale di cui la montagna è simbolo possente. Non meno importante è la potenzialità curativa della mon- tagna, a benefi cio soprattutto di quante soffrono di isteria o malattie nervose; il che pare non fosse raro tra le aristocratiche e le borghesi, affl itte da una vita troppo comoda e vuota.

Di “alpinismo femminile” vero e proprio si comincia a parlare con una certa sistematicità sulle riviste del Deutsch-Österreichisch Alpenverein negli anni ’20 del ’900, e il dibattito monta su una serie di questioni: l’abbiglia- mento, soprattutto l’uso dei pantaloni; la forza fi sica – è giusto che la donna porti il proprio zaino?; le qualità necessarie all’andare in montagna – auto- controllo, capacità di orientamento, autosuffi cienza. Resta implicito che non possono esistere cordate solo femminili.

Particolarmente interessanti sono le voci in presa diretta citate dalla studiosa; a dire la loro, oltre ad alcuni uomini che ritengono doveroso esprimersi, sono le alpiniste più note. Una di queste è Maud Wundt. Moglie del militare tedesco Theodor Wundt – autore di celebri fotografi e che ritraggono l’alpinista olandese Jeanne Immink sulla Cima Piccola di Lavaredo – Maud pubblicò sul settimanale «Die Woche» un articolo intitolato Berühmte

Bergsteigerinnen. Accadde che Edmondo De Amicis, attento ai risvolti

culturali dell’alpinismo, lesse l’articolo e decise di diffonderlo nel nostro paese traducendolo e proponendone un’articolata “variazione sul tema”. De Amicis presenta la galleria di alpiniste citate da Wundt (circa 27) e non si lascia sfuggire l’occasione per commentare le questioni poste dall’autrice, in buona sostanza quelle citate sopra. Dopo aver fatto proprio il consiglio da dare a «signore e signorine nervose di dedicarsi alla montagna, dove troveranno un prosaico, ma salutare appetito e un buon sonno pacifi catore, e da cui ritorneranno a casa rifatte anche di spirito», non rinuncia a rimarcare che «vi sono certo degli sforzi, come le ascensioni che richiedono due giorni di fatiche continuate, dai quali le donne è bene che si astengano, e che soltanto qualcuna, di fi bra eccezionale, può compiere».

E qualcuna che sfodera una fi bra eccezionale c’è eccome. In ambito te- desco non si può tacere di Eleonore Noll-Hasenclever, vera e completa alpi- nista che realizzò ascensioni su tutte le montagne più diffi cili delle Alpi. Di lei si racconta che da ragazzina, sorpresa dalla madre alla stazione del treno

mentre rientrava da una fuga in montagna vestita di tutto punto da alpinista, avesse affermato con sussiego: «Ich bin eine Bergsteigerin!». Certo il suo era un caso unico, impossibile da inquadrare negli schemi dell’epoca; non solo perché Hasenclever era nota per le sue ascensioni “senza guida”, ma perché scalava anche in cordata di sole donne, perché era lei a condurre il marito e non viceversa, e perché rivendicava come necessario alla pratica dell’alpini- smo un carattere deciso e risoluto, considerato inaccettabile nel gentil sesso. Quando morì, a soli 45 anni nel 1925, travolta da una valanga sul Bieshorn, fu la prima alpinista a morire in montagna e venne sepolta a Zermatt, come si conveniva a una grande scalatrice. Onore a Herr Noll, che ne pubblicò i diari: se non fosse stato per lui, di Eleonore si saprebbe assai poco.

Al di qua dalle Alpi il dibattito era sicuramente meno organico, ma non per questo del tutto assente. Emblematica, a questo proposito, fu la confe- renza che tenne Carolina Palazzi Lavaggi al Club Alpino di Torino nel 1882, in cui venivano esaltati i benefi ci dell’aria pura che si respira in montagna e si metteva l’accento sulla resistenza di cui le donne sono capaci, abituate – diceva – alla ben maggiore fatica di estenuanti serate di ballo, rinchiuse in abiti soffocanti come strumenti di tortura, con ai piedi scomode scarpe. Questa conferenza è in realtà posteriore alla realizzazione di alcune ascen- sioni importanti, che a dire il vero furono casi talmente isolati da non essere signifi cativi di un mutamento del costume. Tra essi, uno dei primi tentativi italiani di salita al Monviso nell’agosto 1863 da parte di Alessandra Boarelli: l’ascensione fallì a causa del maltempo, ma senza perdersi d’animo la giova- ne donna ritentò con successo l’anno dopo (1864). Peccato che la compagnia di Quintino Sella avesse nel frattempo raggiunto la cima, soffi andole così una “prima” prestigiosa. È legittimo domandarsi come avrebbero reagito i signori uomini.

Un periodo di osmosi feconda tra i due versanti delle Alpi sono gli anni tra le due guerre mondiali, quando a sud si respirano fl ussi di idee che scia- mano da nord. Di fatto l’Italia più che elaborare, accoglie, fa proprie le sug- gestioni d’oltralpe e ne offre una rilettura. Complice il fascismo, che puntava sullo sport e le imprese sportive, tanto più alpinistiche, quale incarnazione ideale dell’eroismo di regime, le donne – uscite dalla Grande Guerra con una nuova coscienza di cittadine – prendono slancio per dedicarsi alla montagna. Tanto che negli anni ’30 a emergere sulle cime ci saranno tre italiane, con- siderate a ragione le prime vere alpiniste del nostro paese. Ninì Pietrasanta, che con il marito Gabriele Boccalatte compì una serie di prime salite di li- vello assoluto e suggellò le sue avventure in parete nel libro Pellegrina delle

Alpi; Mary Varale, fortissima scalatrice e donna autorevole, che seppe creare

relazioni tra i grandi alpinisti dell’epoca ed ebbe l’ardire di entrare in pole- mica aperta con il CAI (allora Centro Alpinistico Italiano), da cui diede le dimissioni con un’appassionata lettera di denuncia; infi ne Paula Wiesinger, arrampicatrice altoatesina di valore e campionessa di sci alpino, nota anche per essersi travestita da uomo per partecipare al Trofeo Mezzalama. Grazie

alla sua estrema determinazione, “la Paula” riuscì a trarsi d’impiccio in varie occasioni diffi cili, come quando salvò la vita a due suoi compagni sulla Sud della Marmolada e commentò in modo lapidario: «Alle due ero a casa mia a Bolzano e alle otto di mattina in uffi cio. I miei compagni, congelati, sono stati sei settimane a letto, la Paula niente, nemmeno un raffreddore, perché io non sono mai stata ferma, ho sempre massaggiato i miei compagni e me stessa per non gelare. Questo lo dico perché non è vero che la donna perde la testa e l’uomo no».

La situazione è dunque radicalmente mutata nel giro di due generazioni: Wiesinger deve sì travestirsi da uomo per partecipare al Mezzalama, ma non deve giustifi care la sua passione per la montagna e neppure l’impiego del suo tempo trascorso sulle pareti dolomitiche. Nel gioco di chiaroscuri cui accen- navo all’inizio, può però, accadere che negli anni ’50 un’architetta affermata, nonché fortissima scalatrice, quale l’austriaca Helma Schimke, senta ancora a tal punto incombere il peso del condizionamento sociale da tacere ai fi gli le sue fughe alpinistiche.

Concludo annotando due momenti-chiave di questo lungo viaggio verso la libertà. Il primo arriva negli anni ’70 del XX secolo, quando tre alpiniste, le prime tre, salgono sulla cima dell’Everest, la montagna più alta del piane- ta, e così facendo – come ha sottolineato con lieve ironia Nives Meroi, una delle quattro donne al mondo ad aver salito tutti i 14 Ottomila – sottraggo- no agli uomini l’ultimo scampolo di epica maschile: l’Himalaya. Il secondo momento irrompe a metà anni ’80, quando con le prime competizioni di ar- rampicata sportiva, insieme ai nuovi campioni nascono, inevitabilmente, le nuove campionesse. Tra le prime la francese Catherine Destivelle, colei a cui si deve il merito di aver sfondato anche il muro dell’invisibilità: rimarrà nella storia il manifesto con cui venne tappezzata persino la metropolitana di Pari- gi e che la ritraeva nel gesto elegante della scalata.

Ecco allora che potrebbe essere fruttuosamente applicato alla storia dell’alpinismo il suggerimento di Geneviève Fraisse e Michelle Perrot della Scuola delle Annales: l’azione delle donne ha da essere intesa come integra- zione essenziale alla completezza della ricostruzione storica3 (3). Nel caso

dell’alpinismo non dunque una meccanica rivisitazione di esplorazioni-con- quiste-fallimenti, ma una ricerca che si spinga sottotraccia e sappia indagare nelle pieghe nascoste di attività apparentemente invisibili. Solo così si potrà uscire dalle secche di una storiografi a ripetitiva, che relega l’alpinismo fem- minile a fenomeno di costume.

3. Georges Duby, Michelle Perrot, Storia delle donne. L’Ottocento (1991), Laterza, Ro- ma-Bari 2007.

A Constitutional Borderland: Republic and Monarchy

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