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Verso il ’900: Alpi, mobilità e migrazioni

Nella loro introduzione al primo volume interamente dedicato al fenome- no migratorio che l’editore Einaudi ha integrato nella propria collana Storia

d’Italia, Paola Corti e Matteo Sanfi lippo ricordavano:

le Alpi non sono mai state una barriera [nei confronti della mobilità] e hanno al con- trario innescato continui fl ussi da e verso l’Europa, nonché all’interno dello stivale. La catena alpina è stata una via di comunicazione, piuttosto che un elemento (de)limitante e al contempo, proprio in questa sua ultima caratterizzazione, ci ricorda che il crocevia migratorio peninsulare non ha visto soltanto partenze e arrivi, ma anche una continua circolazione interna1.

Sin dal Medio Evo le Alpi sono state una sorta di asse strategico e una ri- sorsa importante per le popolazioni locali, diventando fonte di reddito grazie all’organizzazione dei traffi ci e dei trasporti delle merci, in forma regolare o attraverso il contrabbando, che spesso si intrecciava ad altre dinamiche mi- gratorie2.

La mobilità umana nel suo complesso ha peraltro acquisito una posizio- ne imprescindibile negli studi storici che, nel solco dei percorsi storiografi ci degli ultimi decenni, le riconoscono oramai una dimensione di normalità, e non più di eccezionalità, nel quadro dell’esperienza umana3. Tra le ricerche

capaci di dimostrare la debolezza delle ricostruzioni che opponevano un pas-

1. Paola Corti, Matteo Sanfi lippo, Introduzione, in Paola Corti, Matteo Sanfi lippo (a cura di), Storia d’Italia. Migrazioni. Annali 24, Einaudi, Torino 2009, p. XX.

2. Marco Marcacci, Giochi con frontiere e percezione dei confi ni: il caso ticinese, in Oscar Mazzoleni, Remigio Ratti, Vivere e capire le frontiere in Svizzera. Vecchi e nuovi signifi cati

nel mondo globale, Dadò/Coscienza svizzera, Locarno/Bellinzona 2014.

3. Breve, ma utile e intensa, è la ricostruzione che Ferdinando Fasce ha presentato nel suo intervento Il lessico, in Gli studi sulle migrazioni italiane negli Stati Uniti: ieri e oggi, in

sato statico a una contemporaneità caratterizzata dalla mobilità, una rilevan- za notevole hanno avuto proprio quelle dedicate ai sistemi migratori delle montagne italiane ed europee4, sebbene le medesime ricerche rendano al-

trettanto evidente come la mobilità abbia avuto in ogni tempo caratteristiche specifi che, confi gurando percorsi e pratiche differenti a seconda dei caratteri propri delle singole comunità da cui le persone muovevano, delle ragioni che le legavano a specifi che comunità di destinazione, dei sistemi di organizza- zione familiare, degli usi relativi alla trasmissione ereditaria, degli equilibri economici che le caratterizzavano. In questo quadro, le forme della mobilità e i tempi della sua stagionalità sono dipesi spesso dal settore di impiego e dal livello di specializzazione di cui ogni individuo in movimento disponeva all’interno delle gerarchie professionali della sua comunità d’appartenenza. I lavoratori dell’edilizia, per esempio, si distinguevano tra quelli impegnati in cicli lunghi – ovvero i lavoratori specializzati – e quelli soggetti a cicli più brevi – ovvero la manodopera non qualifi cata5; allo stesso modo, i facchini

ticinesi attivi nella Milano d’età moderna variavano tempi e cicli della loro permanenza nella capitale lombarda proprio in relazione a fattori gerarchici: i gestori del traffi co della manodopera e gli organizzatori delle piazze erano presenze stanziali, i trasportatori dotati di carri e cavalli avevano una perio- dicità più lunga, mentre i manovali deboli, anziani, incapaci di dedicarsi a trasporti importanti erano presenti solo nella stagione in cui si trasportavano prodotti leggeri come la paglia e il fi eno6.

Altrettanto complesso è il discorso relativo alle cause e ai fattori condizio- nanti la mobilità nell’arco alpino, che conta oramai su una solida tradizione di indagine7. Nell’insieme le ricerche proposte dagli studiosi fanno luce sulla plu-

4. Si vedano: Dionigi Albera, Paola Corti, La montagna mediterranea: una fabbrica di

uomini? Mobilità e migrazioni in prospettiva comparata (secoli XV-XX), Gribaudo, Caval-

lermaggiore 2000; Jan Lucassen, Migrant Labour in Europe (1600-1900). The Drift to North

Sea, Croom Helm, London-Sydney-Wolfeboro 1987.

5. Luigi Lorenzetti, Razionalità, cooperazione, confl itti: gli emigranti delle Alpi italiane

(1600-1850), in Angiolina Arru, Daniela Luigia Caglioti, Franco Ramella, Donne e uomini migranti. Storie e geografi e tra breve e lunga distanza, Donzelli, Roma 2009, p. 183.

6. Stefania Bianchi, La patria di quartiere: identità e mercato dei servizi nella patria dei

facchini, Percorsi di ricerca, Labisalp, 6-2014.

7. Bernard Derouet, Luigi Lorenzetti, Jon Mathieu, Pratiques familiales et sociétés de

montagne, XVIe-Xxe siècle, Schwabe, Basel, 2010; Patrizia Audenino, Paola Corti, Il mondo diviso. Uomini che partono, donne che restano, in «L’Alpe», IV, 2000; Jon Mathieu, Storia delle Alpi, 1500-1900. Ambiente, sviluppo e società, Casagrande, Bellinzona 2000; Raul Mer-

zario, Adamocrazia. Famiglie di emigranti in una regione alpina (Svizzera italiana, XVIII se-

colo), il Mulino, Bologna 2000; Dionigi Albera, L’emigrante alpino: per un approccio meno statico alla mobilità spaziale, in Daniele Jalla (a cura di), Gli uomini e le Alpi: atti del Con- vegno, Torino, 6-7 ottobre 1989, Regione Piemonte, Torino 1989, pp. 179-206; Jean-François

Bergier, Il ciclo medioevale: dalle società feudali agli stati territoriali, in Paul Guichonnet (a cura di), Storia e civiltà delle Alpi. Destino storico, Jaca Book, Milano 1986, pp. 167-266; Paul Guichonnet, La suddivisione politica delle Alpi nei secoli XVII-XIX, in Id., a cura di, Sto-

ralità di aspetti e di elementi che occorre tenere in considerazione, guardando anche al di fuori dei confi ni delle regioni alpine oggetto di studio. Pier Paolo Viazzo, per esempio, ha proposto una rifl essione sulla migrazione transalpina d’età moderna evidenziando il ruolo che ebbero nel favorirla tutti i fattori d’at- trazione riconducibili al processo di urbanizzazione delle pianure circostanti, ponendosi così in contrapposizione alla nota tesi di Braudel, secondo la quale la migrazione dalle montagne avrebbe avuto il suo principale motore nei fattori di espulsione dalla montagna, ossia principalmente il sovrappopolamento e la scarsità di risorse8. Gli studi nel loro complesso confermano come i caratteri

della mobilità alpina variassero da regione a regione, per tipologia e consisten- za dei fl ussi, oltre che per i fattori demografi ci propri delle regioni stesse. In merito, guardando al caso delle Alpi italiane, Luigi Lorenzetti ha scritto:

A più riprese, nel corso degli ultimi anni, gli storici hanno descritto l’economia delle Alpi italiane tra il sedicesimo e il diciannovesimo secolo come un insieme di sistemi discreti, caratterizzati dalla diversità e dalla frammentazione. È suffi ciente pensare alla varietà che caratterizza le Alpi piemontesi – alcune orientate verso l’economia della transumanza, altre verso la migrazione stagionale o periodica –, oppure a quella che contraddistin- gue le valli della provincia di Sondrio – alcune orientate all’attività commerciale, altre all’economia dell’allevamento, altre ancora all’agricoltura o alla viticultura – o ancora a quella che troviamo in seno alle montagne della Carnia, la cui parte meridionale è carat- terizzata da una emigrazione artigianale, mentre la parte settentrionale da una emigrazio-

ne commerciale fondata sul lavoro ambulante9.

Altrettanta varietà si riscontra guardando alle vallate di cui si compone la Confederazione Elvetica – paese che fonda la propria identità sul rapporto con le Alpi –, costantemente attraversata da fl ussi migratori in entrata e in uscita. I suoi passi alpini e le sue numerose frontiere interne – che, di ordi- ne geografi co, istituzionale, culturale e mentale, moltiplicavano largamente la frammentazione del fenomeno migratorio – sono state attraversate in tut- te le direzioni: da soldati svizzeri; da commercianti impegnati nel trasporto di merci tra il nord e il sud dell’Europa; da commercianti-setaioli originari di diversi cantoni elvetici che, nel corso del ’700, cominciarono a investire i loro capitali in Italia nella produzione della materia prima; da lavoratori spe- cializzati così come da semplici manovali. Tanto che, già alla metà dell’800, nonostante fosse ancora un paese rurale, la Svizzera contava già su una nutri- ta presenza migratoria che consentiva di considerarla una realtà cosmopolita, soprattutto qualora si prendessero in esame alcuni cantoni, come Ginevra, il Ticino, il Vallese. Nel 1837 gli stranieri nel paese erano 54.767, ossia il 2,5 per cento della popolazione residente, mentre nel 1850 erano saliti a quota

8. Pier Paolo Viazzo, La mobilità nelle frontiere alpine, in Corti, Sanfi lippo (a cura di),

Storia d’Italia. Migrazioni, pp. 96-97.

9. Luigi Lorenzetti, Des systèmes aux pratiques. Famille, rapports familiaux et

organisation domestique dans les Alpes italiennes, in Derouet, Lorenzetti, Mathieu, Pratiques familiales et sociétés de montagne, p. 151.

71.970, ossia il 3,0 per cento. Più del 75 per cento degli stranieri viveva in otto cantoni, ovvero: nei quattro cantoni di lingua tedesca di Zurigo, Berna, Basilea-città e San Gallo; nei tre cantoni di lingua francese di Ginevra, Vaud e Neuchâtel; e, infi ne, nell’italofono Canton Ticino. Inoltre, i migranti erano più presenti nelle città di frontiera: a Basilea e Ginevra il 20 per cento della popolazione era di origine straniera, tanto che una parte degli autoctoni si sentiva già all’epoca sotto la minaccia di überfremdung, ossia di sovrappo- polazione straniera, per usare quella che diventerà una categoria chiave per comprendere la storia della cultura politica elvetica e il ruolo giocato dai paesaggi e dai caratteri alpini nel processo di elaborazione identitaria della popolazione svizzera10.

Ciò nonostante, in quegli anni, il saldo migratorio continuò a mantenersi negativo. Solo nel corso della seconda metà dell’800, a fronte di un continuo aumento delle quote di immigrati, la Svizzera passò defi nitivamente dallo status di paese d’emigrazione a quello di paese d’immigrazione11. Tutto ciò

avveniva in parallelo allo sviluppo economico e industriale elvetico che ri- guardava principalmente i settori della meccanica e della chimica, del tessile – soprattutto nel Canton San Gallo e nel Canton Glarona –, dell’orologeria – forte nella regione dell’arco giurassiano –12, oltre all’industria del turismo

e al suo importante indotto13. Un ruolo fondamentale nell’attrazione dei mi-

granti veniva inoltre dall’edilizia, un settore che, come è stato ampiamente documentato, si è sempre caratterizzato per la consistente presenza di mi- granti nei suoi segmenti di mercato del lavoro14. Tuttavia, nella seconda metà

dell’800, si assistette a una forte espansione della domanda di manodopera edile legata tanto alla generalizzata crescita urbana quanto alle importanti opere pubbliche: a cavallo dei secoli diciannovesimo e ventesimo si progetta- rono e realizzarono anche alcuni grandi trafori e tunnel che avrebbero facili- tato la comunicazione, i trasporti e il turismo, come il Sempione, il Gottardo, il Lötschberg15.

10. George Andrey, La quête d’un état national (1798-1848), in Nouvelle Histoire de la

Suisse et des Suisses, Payot, Lausanne 1982, pp. 497-598.

11. Gérald Arlettaz, Silvia Arlettaz, La Suisse et les étrangers, Lausanne, Antipodes 2004. 12. La Chaux-de-Fonds e Le Locle – cittadine del Cantone di Neuchâtel e capitali interna- zionali del settore orologiero – vennero descritte già da Karl Marx come industrie dell’orolo- gio a cielo aperto, nel suo libro primo del Capitale. Per un approfondimento relativo alle dina- miche di questa regione si veda Francesco Garufo, L’emploi du temps. L’industrie horlogère

suisse et l’immigration (1930-1980), Antipodes, Lausanne 2015.

13. Marc Gigase, Cédric Humair, Laurent Tissot (dir.), Le tourisme comme facteur de

transformations économiques, techniques et sociales (XIXe-XXe siècles), Alphil, Neuchâtel

2014.

14. Pietro Cafaro, Guglielmo Scaramellini (a cura di), Mondo alpino. Identità locali e for-

me d’integrazione nello sviluppo economico secoli XVIII-XX, FrancoAngeli, Milano 2003.

15. Luigi Lorenzetti, La manodopera dell’industria edile. Migrazione, strutture profes-

sionali e mercati (secc. XVI-XIX), in «Mélanges de l’école française de Rome», 119/2, 2007,

Per tutta la seconda metà del secolo, comunque, la popolazione elvetica si mantenne per la gran parte concentrata nelle regioni rurali nonostante la riduzione delle percentuali di impiego nel settore primario a favore dell’in- dustria, proprio perché tanto l’industria a domicilio quanto le fabbriche veni- vano installate per la gran parte in prossimità dei corsi d’acqua, nelle vallate e fuori città, con effetti rilevanti anche sulla distribuzione della popolazione migrante.

Tutti i processi messi in moto dall’industrializzazione ebbero un effetto decisivo sulle dinamiche della mobilità umana e dei fl ussi migratori. Gra- zie ai nuovi mezzi di trasporto e di comunicazione sarebbero diminuite le frontiere interne al paese e sarebbe sfumata progressivamente quella fram- mentazione regionale che aveva caratterizzato la mobilità alpina nei secoli precedenti, con le forme e i profi li migranti differenziati dagli equilibri delle comunità locali, dalle loro logiche interne, dai rapporti tra i generi, dalle ge- rarchie e dalle identità dei diversi gruppi di uomini e di donne in movimento. Tali sviluppi conobbero un’importante accelerazione nel ’900, dal momento che i vari settori industriali e produttivi acquisirono una crescente capacità di attrarre manovalanza con nuovi strumenti di reclutamento massiccio e da regioni sempre più distanti. I sistemi migratori che con le loro connessioni tra spazi alpini – o tra spazi alpini e zone limitrofe – avevano caratterizzato i secoli precedenti subirono una mutazione profonda, con l’avvento della mo- dernità industriale novecentesca.

Immigrazione italiana e identità alpina svizzera

Negli anni precedenti la Prima guerra mondiale gli immigrati in Svizzera erano già il 15 per cento della popolazione complessiva. Le principali com- ponenti di quella presenza, nei primi due decenni del secolo, furono italiani, tedeschi e austriaci e, in buona parte, si trattava da giovani donne impiegate nei lavori domestici o nell’industria tessile. Numerosi erano anche i lavora- tori stagionali, spesso non registrati tra le presenze effettive nei cantoni, così come le lavoratrici e i lavoratori frontalieri che, nel caso italiano, si dirigeva- no principalmente verso il Canton Ticino e Cantone dei Grigioni, contribuen- do in modo signifi cativo alle attività di contrabbando: dal momento che le fi nanze elvetiche non ne risultavano danneggiate, le autorità svizzere tollera- vano tale pratica. Una parte consistente della popolazione locale ne risultava peraltro coinvolta e avvantaggiata, mentre la quasi totalità delle fabbriche di tabacco erano collocate nelle zone di frontiera, proprio per favorire l’assun- zione di lavoratrici frontaliere e il commercio di contrabbando16.

16. Lucia Bordoni, La donna operaia all’inizio Novecento, Dadò, Lugano 1993; M. Mar- cacci, Giochi con frontiere e percezione dei confi ni: il caso ticinese, in Mazzoleni, Ratti, Vive-

Diversi fattori – in buona parte riconducibili al quadro economico e poli- tico internazionale – contribuirono a intensifi care l’ostilità nei loro confron- ti, tanto che, nel 1922, vennero presentate due iniziative referendarie dirette a complicare le naturalizzazioni degli stranieri e a fornire concreti strumenti per l’espulsione dei soggetti ritenuti indesiderabili: inevitabile l’associazio- ne tra stranieri e sovversivi bolscevichi, data la prossimità temporale con la Rivoluzione russa e le forti tensioni sociali che nel Paese avevano preso la forma di scioperi – si ricordi lo sciopero generale del 1918 – e manifesta- zioni di piazza. Come ha ricordato Hans-Urlich Jost, sebbene quelle inizia- tive referendarie siano state respinte, il Consiglio federale ne fece l’occa- sione per introdurre rigide misure di controllo degli stranieri, fi no a quan- do, nel 1931, con la “Legge federale concernente la dimora e il domicilio degli stranieri” si giunse persino all’istituzionalizzazione della fi gura del lavoratore stagionale, soggetto a limitazioni dei diritti civili e politici così drastiche da sollevare fortissime polemiche negli anni successivi e, in Ita- lia, almeno fi no alla fi ne degli anni ’7017. La Legge federale gettava inoltre

le basi di quelle che sarebbero state le linee guida della politica migratoria elvetica novecentesca, riarticolate anche negli accordi bilaterali fi rmati con l’Italia nel 1948 e nel 1964. Ad ogni modo, fu proprio nel corso degli anni ’20 e ’30 che la minaccia dell’überfremdung acquisì un carattere politico e istituzionale. In merito al clima regnante in quella stagione, risulta illumi- nante la posizione espressa da Heinrich Rothmund, capo della polizia degli stranieri, nel 1938: «Da quando la polizia degli stranieri esiste, noi abbiamo preso una posizione chiara. Gli ebrei così come gli altri stranieri sono con- siderati un pericolo riguardo al rischio della sovrappopolazione straniera. Con misure sistematiche e prudenti, siamo riusciti a evitare una ebraicizza- zione della Svizzera»18.

L’impennata dei sentimenti xenofobi nella Confederazione si accompa- gnava peraltro a una stagione di crisi economica generalizzata, con la ridu- zione dei salari e un aumento della disoccupazione, sensibile per quanto con- tenuta rispetto ad altri contesti internazionali, dal momento che si assestava a quota 5 per cento. Uno degli elementi utili per spiegare il contenimento della disoccupazione appare qualora si pensi che tra i settori più colpiti dal rallen- tamento economico ci furono proprio i due che occupavano più manodopera straniera, ossia il tessile e l’edilizia. Considerando che tra la fi ne della Prima guerra mondiale e il 1940 la presenza straniera era passata dal 15 per cento al 5 per cento, risulta chiaro come il contrasto dell’immigrazione abbia avuto un ruolo importante nel contenimento della disoccupazione.

17. Delia Castelnuovo Frigessi, Elvetia il tuo governo. Operai italiani emigrati in Svizzera, Torino, Einaudi 1977; Vittorio Moioli, Made in Italy. Il mercato svizzero del lavoro italiano, Alfani, Roma 1976; Claudio Calvaruso, Sottoproletariato in Svizzera. 152.000 lavoratori

stagionali. Perché?, Coines, Roma 1971.

18. Hans-Urlich Jost, Menace et rempliment (1914-1945), in Nouvelle Histoire de la

Occorre tuttavia sottolineare come tra le due guerre le forze che organizza- rono campagne e polemiche xenofobe fondassero gran parte dei loro discorsi sulla rappresentazione di un paese minacciato nella propria identità da forze estranee. L’identità elvetica veniva ricondotta a immagini tradizionali e leg- gendarie, integrate dai valori della Svizzera democratica e radicale. La con- cezione artistica e culturale che si sviluppò sul tornante degli anni del primo confl itto mondiale si alimentava di un discorso patriottico di cui era compo- nente importante anche il desiderio di valorizzare, oltre alla storia nazionale, il paesaggio alpino. Chi, come Charles Ferdinand Ramuz, denunciava il de- grado culturale del paese lo faceva rappresentando la fi ne della antica purez- za, che pareva rifl ettersi nelle immagini alpestri corrotte da presenze aliene, artifi ciali, inquinanti19. Diversi autori e pensatori elvetici denunciavano la di-

sgregazione del paese, motivandola con il problema del materialismo impo- stosi nella cultura politica, con la diffusione degli ambienti urbani e il conse- guente disorientamento delle masse. Si imposero insomma il tradizionalismo e il regionalismo di forze orientate a una politica provinciale che riconosceva il massimo valore alla dimensione paesana rurale, opposta ai valori degli in- tellettuali urbani esterofi li20. Si sviluppò proprio in tal contesto il movimen-

to politico e culturale della “Difesa spirituale”, il cui programma di fondo si basava sull’esaltazione di tutto quanto fosse elvetico – nella Svizzera Italiana si declinò in un movimento denominato “Elvetismo” – e sulla sua difesa dal- le incursioni di forze aliene e degradanti, politicamente come esteticamente.

Dopo la Seconda guerra mondiale l’immigrazione verso la Svizzera ripre- se velocemente e, almeno fi no alla metà degli anni ’60, l’Italia fu il principale paese di provenienza dei migranti. La Confederazione era uscita intatta dal confl itto, la sua industria poteva essere messa immediatamente al servizio della ripresa internazionale e la sua classe imprenditoriale ritenne opportuno ritardare gli investimenti in tecnologia e in ammodernamenti delle attrezza- ture, in favore di un abbondante uso di manodopera straniera a basso costo.

In parte infl uirono sulla ripresa dell’immigrazione dall’Italia i sistemi migratori che avevano caratterizzato i decenni precedenti, le reti di contat- to che avevano messo in comunicazione lavoratori di determinate comunità italiane, spesso alpine o prealpine, con le destinazioni elvetiche. Per esem- pio, i commercianti setaioli originari dei Grigioni così come i cotonieri dei cantoni tedeschi di San Gallo, Zurigo o Argovia scesi nelle vallate Lom- barde tra ’700 e ’800 per installare le loro unità produttive diventavano me- diatori nel reclutamento di lavoratori e lavoratrici da inviare nelle fabbriche elvetiche dove la disponibilità di lavoro era fortissima. Analogamente una parte dei boscaioli, degli edili, dei lavoratori del legno, delle cave e delle

19. Si veda: Hans Urlich Jost, Politique culturelle de la Confédération et valeurs

nationales, in http://home.citycable.ch/josthistoire/styled-6/index.html.

20. H.U. Jost, Menace et rempliment (1914-1945), in Nouvelle Histoire de la Suisse et des

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