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Gli anni senza fi ne della Prima guerra mondiale, oltre a ridisegnare la geografi a dell’Europa e di altre ampie porzioni di mondo (basti pensare alle sorti dell’ex impero ottomano e alle ex colonie tedesche in Africa, in Nuova Guinea, nel Pacifi co); a ridefi nire orientamenti ideologici e politici; a causare sommovimenti traumatici all’economia di una parte importante del pianeta; a mutare l’immaginario di interi popoli; ebbero un effetto profondo anche sullo sguardo collettivo nei confronti del mondo alpino e di quello dolomi- tico. I sanguinosi scontri avvenuti in montagna su parte del fronte italo-au- striaco avevano trasformato colli, forcelle, crode e ghiacciai in un immenso cimitero, contribuendo a sedimentare un’immagine della montagna assai di- stante da quella paesaggistica, scenografi ca e idilliaca che si era imposta tra metà ’800 e inizio ’900, con la diffusione dell’alpinismo e delle villeggiature estive. E anche il mondo dell’alpinismo, dopo il 1918, aveva mutato aspet- to: parecchi dei migliori esponenti dell’alpinismo d’anteguerra erano rimasti vittime del confl itto bellico, e i vecchi ideali della scalata libera a oltranza (pensiamo alla lezione di Paul Preuss) erano ormai sul punto di smarrirsi.

In Italia, nel clima di insoddisfazione generale successivo alla guerra, il ritorno alla montagna fu molto lento. Per diverse stagioni, sulle crode dolo- mitiche e sulle pareti del settore centro-orientale dell’arco alpino gli scalatori italiani si ritrovarono a subire l’iniziativa dei colleghi di lingua germanica; sulle Alpi occidentali, invece, dovettero fare i conti con la forte concorrenza degli alpinisti francesi. Di lì a poco, però, sull’onda del nazionalismo e del mito di una pretesa superiorità non dimostrata a suffi cienza durante la guerra, la cultura popolare del ventennio fascista spingerà gli alpinisti di casa nostra alla competizione con gli scalatori d’oltralpe.

Se potessimo tornare indietro nel tempo e scattare un’istantanea con un obiettivo grandangolare, congelando nell’immagine la situazione alpinistica di quegli anni, vedremo come i britannici, che per buona parte dell’800 l’a- vevano fatta da padroni su tutto l’arco alpino, stavano ormai spostando al-

trove il loro «terreno di gioco», mentre negli ambienti degli scalatori austro- tedeschi, che cominciavano a primeggiare nelle Dolomiti a colpi di vie nuove di grande diffi coltà ritenute a quel tempo ai limiti delle possibilità umane, si assisteva all’esasperazione del carattere romantico e all’inseguimento delle suggestioni ricavate da una lettura superfi ciale e frettolosa di Nietzsche.

Gli anni ’20 videro ovunque l’indiscusso trionfo degli scalatori della Scuola di Monaco, che avevano ormai avviato la cosiddetta «rivoluzione del sesto grado»1. Sui Monti Pallidi, in particolare, tedeschi e austriaci avevano

cominciato a mettersi in mostra aprendo nel 1924 una grandiosa via sulla pa- rete nord del Pelmo, con Roland Rossi, di Innsbruck, e Felix Simon, di Lip- sia, che segnava il limite massimo delle diffi coltà del tempo.

Neanche un anno dopo Emil Solleder, di Monaco, classe 1899, con il concittadino Gustav Lettenbauer, fece di meglio, e riuscì a portare a termine la prima via di sesto grado, riconosciuta uffi cialmente tale, in Dolomiti. Un itinerario formidabile di 1200 metri sulla gigantesca e tetra parete nord ovest della Civetta. Ma anche un capolavoro che indicava con evidenza la supe- riorità della scuola austro-tedesca rispetto a quella italiana. Una condizione determinata da allenamenti specifi ci su pareti di bassa quota, dall’impiego di tecniche di progressione più sofi sticate e da una convinzione psicologica più disinibita rispetto a quella dei dolomitisti di casa nostra.

Per qualche anno tutte le prime ripetizioni della via di Solleder e Let- tenbauer furono fi rmate da austriaci e tedeschi. Sicché cominciò a diffon- dersi la convinzione che lassù potessero passare solo scalatori di lingua ger- manica. Si diffuse anche la notizia – diffi cile oggi dire quanto fosse fondata – che alla base della parete nord ovest della Civetta era stato posto un cartello con la scritta: «Questa parete non è pane per gli italiani…». E non è diffi cile immaginare lo spirito di rivalità che una battuta del genere può aver generato. Tanto più in un clima arroventato come quello degli anni ’20 del ’900.

Ad ogni buon conto, le Dolomiti, che erano diventate interamente italia- ne solo dopo il 1918, tra le due guerre svolsero un importante ruolo di cer- niera culturale, e gli ambienti alpinistici italiani e austro-tedeschi divennero un settore cruciale di interscambio e di confronto dialettico. Anzi, l’esempio germanico funzionò come innesco per la rinascita dell’alpinismo italiano. E anche della sua rivincita, che arrivò con l’apertura di grandi vie nuove da parte di Renzo Videsott, Emilio Comici, Luigi Micheluzzi, dei bellunesi At- tilio Tissi, Giovanni Andrich, Furio Bianchet, Ernani Faè, Alvise Andrich, e poi dei vicentini Gino Soldà e Raffaele Carlesso, del valgardenese Gian Bat- tista Vinatzer, del trentino Bruno Detassis e del lecchese Riccardo Cassin2.

1. Con «rivoluzione del sesto grado» si intende l’introduzione da parte degli scalatori te- deschi della scuola di Monaco di una nuova scala chiusa di misurazione delle diffi coltà d’ar- rampicata, che andava dal I al VI grado, indicati in numeri romani. La scala è tutt’oggi utiliz- zata, ma è stato superato il limite del sesto grado.

2. Claire-Eliane Engel, Storia dell’alpinismo, Einaudi, Torino 1965; Gian Piero Motti, La

Stiamo parlando di anni in cui le grandi imprese alpinistiche fi nivano in prima fi la sui quotidiani nazionali. E non solo quelle dolomitiche. Pensiamo alla corsa internazionale sulle tre grandi pareti nord delle Alpi – quelle del Cervino, delle Grandes Jorasses e dell’Eiger (la prima fu “vinta” nel 1931 e le ultime due “caddero” nel 1938). La sfi da alla parete nord dell’Eiger diven- tò addirittura, in senso letterale, una sfi da alla morte per il primato.

Oggi a nessuno, vedendo ad esempio un lungometraggio ambienta in un atollo corallino, con immersioni, escursioni in canoa, e magari mareggiate e naufragi, verrebbe in mente di etichettare quel lavoro cinematografi co come fi lm di mare. Si parlerà invece, ad esempio, di fi lm d’avventura.

La suddivisione in generi è determinata dalla sceneggiatura, dallo svol- gimento dell’azione e dall’intreccio della narrazione. Nelle recensioni cine- matografi che, i generi sono, ad esempio: avventura, poliziesco, commedia brillante, spionaggio, ecc. E costituiscono il risultato di un lungo dibattito teorico, cominciato negli anni ’20 del ’900 e determinato dalla necessità di mettere ordine in una produzione cinematografi ca che, già in quel periodo, stava assumendo dimensioni imponenti.

Ma se è vero che la montagna non costituisce un genere cinematografi co, è anche vero che, nella storia del secolo scorso, esiste un’eccezione impor- tante: quella del Berfgfi lm, un fi lone cinematografi co nato nei primi anni ’20, cresciuto nel periodo compreso tra le due guerre mondiali e conclusosi nel 1945, al termine dell’ultimo confl itto mondiale. Un fi lone che, di fatto, ha assunto le sembianze di un vero e proprio genere cinematografi co. Un gene- re fatto di drammi e drammoni il cui plot narrativo si è rivelato decisamente funzionale alla politica culturale dei regimi totalitari dell’epoca. Con una co- spicua serie di fi lm imperniati soprattutto sulla lotta titanica dell’eroe contro la montagna, con sfondi tragici, atmosfere cariche di tensione, incidenti mor- tali, aloni di maledizione.

Il Bergfi lm fu creato essenzialmente da tre registi di lingua e cultura ger- manica: Arnold Fanck (di Frankenthal, classe 1889), Leni Riefenstahl (nata a Berlino nel 1902) e l’altoatesino Luis Trenker (nel suo caso sarebbe più esat- to dire sudtirolese, perché Trenker nacque a Ortisei in Val Gardena nel 1892 quando Ortisei faceva parte dell’impero austroungarico).

Al Bergfi lm facevano capo lavori di fi ction che, dal punto di vista tecnico, erano confezionati in maniera eccellente. Dietro la gran parte di quelle pelli- cole, per lo meno dietro le più importanti, c’erano i soldi dell’industria cultu-

smo eroico, Tamari, Bologna 1961; Édouard Frendo, La face nord des Grandes Jorasses, Sus-

se, Paris 1950; Anderl Heckmair, My life as a mountaineer, Littlehampton Pbs., London 1975; Tita Piaz, Mezzo secolo di alpinismo, Melograno, Milano 1986; Guido Rey, Alpinismo acro-

batico, Lattes, Torino 1914; Vittorio Varale, La battaglia del sesto grado, Longanesi, Milano

1965; Fergus Fleming, Cime misteriose, Carocci, Roma 2001; Alessandro Pastore, Alpinismo

e storia d’Italia, il Mulino, Bologna 2003; Stefano Morosini, Sulle vette della patria, Franco-

Angeli, Milano 2009; Aldo Audisio, Alessandro Pastore (a cura di), CAI 150, Museo Nazio- nale della Montagna Duca degli Abruzzi, Torino 2013.

rale dei regimi tedesco e italiano, e i registi potevano permettersi macchinari e accorgimenti tecnici da effetti speciali ante litteram. Al punto che ancora oggi, a riguardarle, le sequenze di alcuni lungometraggi di quel periodo, ap- paiono come paradigmi su cui è stata successivamente costruita la fortuna di parte del cinema dei decenni successivi.

In particolare, la stagione del Bergfi lm nacque con Arnold Fanck, uno dei pionieri del cinema ambientato in montagna. Anche se Fanck non era certa- mente stato il primo a portare la cinepresa ad alta quota. Il cinema era infat- ti salito in montagna molto presto, poco dopo l’invenzione delle immagini in movimento mostrate per la prima volta al pubblico dai fratelli Lumière al Grand Café del Boulverad des Capucins, a Parigi, nei giorni successivi al Natale del 1895. Il primo documento cinematografi co girato su una vera montagna è, allo stato attuale delle ricerche, un cortometraggio svizzero di pochi minuti intitolato Cervino e realizzato nell’estate del 1901. Si tratta di un timido tentativo di raccontare l’ascensione di tre scalatori, uno dei quali è una guida alpina, lungo la cresta dell’Hörnli al Cervino. Verrebbe da parlare di documentario, ma all’epoca il termine ancora non esisteva3.

Solo otto anni più tardi, nel 1909, Luigi Amedeo di Savoia duca degli Abruzzi organizzò e diresse una spedizione alpinistico-esplorativa sulle montagne del Karakorum (oggi in territorio pakistano; a quel tempo sem- plicemente ai confi ni settentrionali dell’India). Per l’occasione aveva inca- ricato il fotografo Vittorio Sella di girare delle sequenze sul viaggio di avvi- cinamento al K2. E Sella, che pure continuava ad essere un fotografo (e che fotografo!) prestato per caso al cinema (non abbandonerà infatti mai la foto- camera), con la sua capacità di inquadratura, riuscirà a realizzare un prodot- to interessante, 25 minuti in tutto, dal titolo Sul tetto del mondo, viaggio di

S.A.R. il Duca degli Abruzzi al Karakoram. Un cortometraggio che illustrava

il viaggio da Rawalpindi alla testata del ghiacciaio Baltoro, cioè fi no a 3500 metri di altitudine.

Torniamo ora a Fanck. Il cineasta tedesco aveva girato pellicole belle e interessanti in montagna già negli anni ’10 del ’900, soprattutto sui ghiac- ciai del versante svizzero del Monte Rosa: salite e discese con gli sci in alta montagna. Il lavoro di Fanck che diede inizio al Bergfi lm fu però Der Berg

des Schicksals / La montagna del destino, proiettato per la prima volta a Ber-

lino, al Theater am Nollendorfplatz, il 10 maggio 1924. È la tragedia vissuta da un giovane scalatore a cui è morto il padre in montagna. E quando la sua fi danzata, che si trova in pericolo sulla stessa vetta, chiede aiuto, il giovane alpinista viene liberato dalla madre dalla promessa di non scalare mai quella montagna e trae in salvo la ragazza.

Der Berg des Schicksals fu il preludio di una serie di fi ction di grande

successo in cui il tema delle Alpi mescolava civiltà montanara tradizionale,

3. Piero Zanotto, Le montagne del cinema, Museo Nazionale della Montagna Duca degli Abruzzi, Torino 1990.

alpinismo e sci in un ambito in cui primeggiano spirito romantico e scenari lammeriani.

Eugen Guido Lammer era un alpinista viennese vissuto tra la seconda metà dell’800 e la prima metà del ’900 (morirà nel 1945), il cui libro, Jun-

gborn, una vera e propria biografi a “ideologica”, venne pubblicato nel 1922

e divenne un manifesto per i giovani che, all’indomani della Grande Guerra, erano pronti a gettarsi allo sbaraglio per la conquista del sesto grado. Era un inno al rischio e alla sfi da con la bella morte in montagna.

Sulla base di quei presupposti, l’ambiente delle cime, che per ottant’anni i pionieri britannici dell’Alpine Club avevano considerato il playground of

Europe, il terreno di gioco dì Europa, cominciò presto ad assumere le sem-

bianze di un campo di battaglia in cui abbeverarsi alla lezione del rischio e del pericolo, in un clima di esaltazione nazionalistica.

In Italia, il libro di Lammer arrivò solo dieci anni più tardi, tradotto con il titolo di Fontana di giovinezza e pubblicato in due volumi tra la fi ne del 1932 e l’inizio del 1933 nella collana dell’Eroica, la cui linea editoriale, in chiave dichiaratamente nazionalista, era perfettamente in linea con la politica culturale del fascismo e, tra le altre cose, intendeva promuovere la montagna come alternativa sana alla città, e l’alpinismo come scuola di coraggio e di resistenza fi sica, oltre che come allenamento per la difesa del paese sui vali- chi che ne cingono il confi ne settentrionale.

In Italia, Fontana di giovinezza spargerà il verbo lammeriano soprattutto tra le fi la degli arrampicatori dolomitici e diverrà il fondamento morale ed etico del nuovo corso dell’alpinismo sulle crode dei Monti Pallidi. Tra l’altro è importante ricordare che fu un noto e forte scalatore Trentino, Pino Prati, classe 1902, bilingue e culturalmente a cavallo tra Italia e Austria, a fare da tramite per la traduzione italiana del libro, che anni dopo verrà bollato come un classico maledetto4.

Già negli anni ’20, Lammer era stato defi nito da Pino Prati il «Nietzsche dell’alpinismo», con intenti elogiativi. Più tardi, da parte britannica, lo scrit- tore austriaco venne invece indicato come fervente nazionalsocialista. In re- altà, oggi pare molto probabile che ci sia stata una strumentalizzazione passi- va degli scritti di Lammer da parte del nazismo, qualcosa di simile a ciò che toccò a Nietzsche, che fu ampiamente utilizzato – in maniera decontestualiz- zata – dal pensiero totalitario

Ad ogni buon conto, nei lungometraggi del Bergfi lm, la montagna si im- pose come protagonista di storie eroiche, quasi sempre drammatiche, che la vedevano presentata in una continua altalena tra i suoi aspetti più sublimi e quelli crudeli e nefasti, tra la sua luce e la tenebra più profonda, tra il sacro e il profano, e la proponevano inoltre come via d’accesso al soprannaturale e

4. Un’edizione critica del libro di Lammer è uscita nel 1998; Eugen G. Lammer, Fontana

al grande mistero, ricorrendo alla simbologia delle tradizioni teutoniche e ai miti capaci di affascinare i popoli germanici.

Il secondo titolo importante del Bergfi lm fu Der Heilige Berge/ la Monta-

gna sacra, sempre di Fanck, del 1926. Un lungomretraggio imperniato sulla

gelosia di due uomini per una ballerina, impersonata da Leni Riefensthal, che tocca il suo apice durante una scalata dei protagonisti maschili. E quan- do uno cade e l’altro riesce a trattenerlo a stento, si pone il dilemma del che fare…

Va poi citato Das Blaue Licht / La bella maledetta (1932), di una Riefen- stahl all’esordio nella regia: una fanciulla semiselvaggia di un villaggio del- le Dolomiti è l’unico essere umano in grado di salire sulla cima del Monte Cristallo, illuminato durante la notte da una strana e misteriosa luce Blu. A nessun altro è concesso il privilegio di scalare la montagna. Così si sparge la voce che la ragazza sia una strega. I valligiani la inseguono e la cacciano. A salvarla è un pittore, un paesaggista, Vigo, che va poi a vivere con lei. In una notte di plenilunio, di nascosto, l’artista segue la ragazza sul Cristallo. E sco- pre il segreto: la luce blu scaturisce da uno scrigno di cristalli. Vigo lo raccon- terà ai paesani che, saliti anch’essi lassù, asportano la fonte di luce e vendono i cristalli. Quando la ragazza torna sulla vetta, non trova più la luce e muore.

Assolutamente da menzionare è anche Der Kampf ums Matterhorn, di Mario Bonnard e Nunzio Malasomma (1928), di produzione tedesca (Hom- Film), incentrato sulle drammatiche circostanze della prima scalata del Cer- vino e sulla rivalità tra Edward Whymper e la guida valdostana Jean-Antoine Carrel. Quest’ultima è interpretata da Luis Trenker. Un Trenker che dieci anni più tardi, passato dietro la cinepresa e diventato produttore, ne lancerà il re- make con i titolo Der Berg Ruft / La Grande Conquista, che verrà proiettato in prima visione assoluta il 6 gennaio 1939 all’Ufa-Palast am Zoo a Berlino.

Successivamente, nel 1931 Trenker fi rma la regia di Berge in Flammen, sulla guerra del 1915-’18 in Dolomiti; nel 1932 quella di Der Rebell, in- centrato sulla lotta tra i tirolesi, che anelano a indipendenza e libertà, e i bavaresi alleati di Napoleone; nel 1934 quella di Der Verlorene Sohn / Il

Figliol prodigo, del 1934; nel 1936 quella di Der Kaiser von Kalifornien,

storia di un colono svizzero di lingua tedesca che diventa contadino in Ca- lifornia e viene rovinato dagli effetti della corsa all’oro; nel 1937 quella di

Condottieri, su Giovanni de’ Medici. Il sudtirolese sarà anche il regista di Liebesbriefe aus dem Engadin / Lettere d’amore dall’Engadina, del 1938,

dove alla storia rosa si aggiungono eccezionali sequenze dell’inseguimen- to del treno con gli sci da parte di Trenker (che nel fi lm impersona la gui- da alpina engadinese Toni Anewanter); e poi di Der Feurteufell / Il ribelle

della montagna, del 1940, sulla rivolta dei contadini della Carinzia contro

il regime napoleonico. L’attore-regista di Ortisei assumerà pou anche la di- rezione della produzione di altri noti lungometraggi, come ad esempio Der

Ruf des Nordens / Legione Bianca, del 1929; o Grenzfeuer / Fiamme alla Frontiera, del 1939.

L’abbondanza di citazioni dei lavori cinematografi ci di Trenker è dovuta al fatto che i suoi fi lm, negli anni compresi tra le due guerre mondiali, ebbe- ro una grandissima circolazione in Italia e segnarono davvero in profondità il gusto e l’immaginario delle platee cinematografi che in fatto di montagna5.

Dopo il 1945, il Bergfi lm fu liquidato in fretta e furia con l’etichetta di «ci- nema di regime». In realtà il Bergfi lm non fu mai un cinema di propaganda di- retta. In Germania, Goebbels, responsabile nazionale dell’informazione negli anni del nazionalsocialismo, aveva chiesto ai registi una netta distinzione dai reportage giornalistici, smaccatamente pro regime: i fi lm avevano casomai il compito, come del resto tutta l’industria culturale del tempo, di creare in modo subliminale nello spettatore un terreno psicologico in grado di accogliere con facilità l’ideologia del regime.

Il caso più evidente è quello della Riefenstahl, prima ballerina e poi in- terprete preferita di Fanck che, una volta carpiti al maestro i segreti del me- stiere, passerà dietro la cinepresa e diventando anch’ella regista. Il suo primo fi lm in quest’ultima veste, il già citato Das Blaue Licht, / La bella maledetta lì per lì verrà accolto in maniera piuttosto tiepida dal grande pubblico ma ver- rà molto apprezzato dai vertici nazisti. Al punto che nel 1933, contro il parere di tutti i gerarchi, Hitler in persona chiederà alla Riefenstahl di realizzare un fi lm sul congresso del partito che si sarebbe tenuto a Norimbrga nel 1934.

Ne nascerà un fi lm di propaganda, Triumph das Willens, un lavoro ma- gistrale dal punto di vista del committente, che racconta il capo del partito come un genio superiore, un dio. Un fi lm assolutamente discutibile ma for- malmente perfetto, che riesce a colpire in maniera diabolica i punti deboli della psicologia dello spettatore.

L’opera formalmente più interessante della Riefenstahl, partita che ab- biamo visto dal «cinema di montagna» e in seguito divenuta la regista del leader del partito nazionalsocialista, è però Olympia, il documentario sulle

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