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1. L’ANALISI TRADUTTOLOGICA

1.4 Il linguaggio

Ci sono delle traduzioni che arricchiscono

splendidamente la lingua di destinazione e che, in casi che molti ritengono fortunati, riescono a dire di più (ovvero sono più ricche di suggestioni degli originali). […] Una traduzione che arriva a “dire di più” potrà essere un’opera eccellente in se stessa, ma non è una buona traduzione.41

Ichi rittoru no namida è redatto nel linguaggio consueto di un’adolescente che

imprime su carta i suoi pensieri, senza la preoccupazione che verranno letti da altri; le postfazioni al diario presentano una scrittura scorrevole e chiara, il cui scopo principale è la comunicazione con il lettore (che come supposto in precedenza, rappresenterebbe la premessa sulla base della quale è stata decisa la pubblicazione).

Nonostante spesso si possa ritrovare una notevole semplicità nel linguaggio scelto da Aya, altre volte è notevole la sua attenzione nel riportare accuratamente e dettagliatamente alcuni passaggi, molti tra i quali comprendono dialoghi appartenenti ad altri, trascritti con cura e con grande spirito di osservazione. Il testo originale è infatti carico di discorso diretto, spesso di espressioni appartenenti alla lingua parlata e altamente confidenziali, ancora più spesso di dialetto. La necessità primaria è stata, quindi, quella di conservare la forma originale di diario, e, di conseguenza, la resa di alcuni termini e passaggi in un linguaggio intimo e familiare anche in traduzione ha avuto la priorità. Per un esempio immediato, si consideri il termine giapponese okāsan

お 母 さ ん, traducibile con “mia madre” nei casi in cui il parlante ne parla in terza

persona, ovvero non rivolgendosi direttamente al genitore. Considerato il legame che Aya ha con la madre e la delicatezza della sua personalità, è apparso più opportuno addolcire maggiormente il termine e renderlo in italiano con “la mamma”.

Come dalle parole di Eco sopra riportate, arricchire il metatesto non è la soluzione che soddisfa al meglio il processo traduttivo, e arriva inoltre a falsare ciò che in molti casi costituisce il cuore del testo di partenza. Presentare un’opera come “diario” e rivendicare che si tratta degli scritti di un’adolescente in principio ignara della pubblicazione che sarebbe seguita, presuppone una certa genuinità nel testo anche nel caso in cui l’autrice avrebbe potuto essere una scrittrice letteraria amatoriale. Con queste considerazioni, ho tentato di cercare nella lingua di arrivo fra le possibili forme di traduzione quelle che risultassero il più rispettose possibile della struttura e del contenuto del prototesto.

Come è successo per il termine okāsan, la traduzione di molti altri termini ha innanzitutto richiesto un’immedesimazione nel contesto diaristico e colloquiale prima di poter operare una scelta. Ad esempio, nel tentativo di assecondare le scelte lessicali di Aya, ho così trattato la modifica fonetica ironna いろんな:

寝ていると、いろんないろんないろんないろんなことを考える。(p.24)

Quando mi corico penso a un sacco di cose.

La locuzione colloquiale “un sacco” mi è parsa adeguata non solo come corrispettivo italiano dell’avverbio scelto in giapponese, ma anche perché in grado di riflettere il modo di esprimersi di una ragazza intenta a comunicare una confidenza. Per questo motivo ho reputato di utilizzare la suddetta locuzione anche in altri casi, in cui l’espressione di partenza non conteneva necessariamente ironna い ろ ん な ma la

traduzione italiana del periodo nel suo insieme suggeriva una maggiore familiarità con l’informazione che veniva comunicata.

La lingua parlata giapponese, sebbene possa essere definita in vari gradi di formalità, presenta numerose possibilità di espressione soprattutto nel linguaggio informale. Nei racconti di narrativa, in cui spesso ogni personaggio si esprime secondo

canoni insiti nella cultura, che l’autore piega per rendere la narrazione più familiare al lettore, potrebbe rivelarsi opportuno adattare le diverse scelte operate dal prototesto nel brano di arrivo; trovandoci di fronte a un diario che raccoglie episodi di vita vissuta e molta meno finzione e intenzione di rendere fittizio ogni personaggio, il linguaggio parlato non ha richiesto studi o approfondimenti per essere reso in traduzione, ma ha inevitabilmente subito delle modifiche e si è considerato di trasporre i dialoghi di tipo colloquiale semplicemente supponendo che fossero generati da un parlante italiano. Si considerino ad esempio i seguenti passaggi:

「[…]英語が得意だから徹底的にマスターマスターマスターマスターしりんしりんしりんしりん ...

。[…]」(p.16)

«[…]Sei brava in inglese, perciò perfeziona quello. […]»

「はよう鼻かんでジュースを飲飲飲飲 みんみんみんみん。[…]」(p.34)

«Dai, soffiati il naso e bevi il tuo succo. […]»

Sia shirinしりんche nomin 飲みんsono forme dialettali in uso nella prefettura di

Aichi,42 semplificazione degli esortativi shinasaiしなさいe nominasai飲みなさいe,

in genere, questa modifica della lingua parlata avviene frequentemente in sostituzione della terminazione –nasai –な さ い. Non desiderando confinare Aya a un contesto

regionale proprio della cultura italiana e, dal momento che questa caratterizzazione non avrebbe aiutato in alcun modo la traduzione, semmai l’avrebbe privata di buona parte del suo richiamo alla cultura che fa da sfondo al testo, ho preferito non cercare una corrispondenza in un dialetto italiano. Cosciente che privare il metatesto di questa sfumatura avrebbe leggermente falsato il background culturale in cui Aya Kitō era immersa, ho persistito nell’adattarmi alla strategia da me scelta previa traduzione, ovvero quella di favorire la comunicazione agevolata del contenuto dell’opera e di non fuorviare il lettore modello con dettagli di dubbio significato. Inoltre le espressioni familiari del discorso diretto e il vincolo che lega loro al contesto dialettale della

42

Più precisamente, si tratta di forme in uso nella metà orientale della prefettura di Aichi, tutt’oggi identificata con l’antico nome di Mikawa 三河. Toyohashi e Okazaki, le città che ospitano Aya e i suoi

prefettura di Aichi non incide profondamente sugli episodi narrati (come al contrario potrebbe verificarsi in un’opera di narrativa in cui un autore volesse enfatizzare le origini di un personaggio).

Come accennato in precedenza, la differenza tra linguaggio formale e informale nella lingua parlata giapponese è piuttosto incidente e le corrispondenze di tono in italiano non mancano. Tuttavia, vorrei accennare un caso in cui appare una diversità di resa in traduzione. Nel seguente passaggio, Aya si rivolge a un dottore chiedendo spiegazioni riguardo al trattamento medico che sta ricevendo. In originale si esprime in modo informale anziché rispettoso nei confronti di un estraneo, e ho supposto che ciò avvenga a causa delle difficoltà nel parlare a cui è andata incontro durante la sua malattia:

「クリーム、どうして ....

ぬるの?」と聞いたら、

「検査するんでね」と的はずれの返事が返ってきた。(p.159)

«Perché mi spalma la crema?», ho chiesto. «Per fare l’esame», mi ha risposto lui vago.

Secondo il dialogo riportato da Aya, lei si sarebbe espressa semplicemente con la particella noの a fine frase, anziché articolare la sua domanda in modo più formale. Se

prendiamo in considerazione i peggioramenti della malattia che le hanno reso difficoltoso persino esprimersi, ciò è plausibile; inoltre il passaggio è atto proprio a giustificare l’impressione che Aya ha del suddetto medico, ovvero quella di un uomo che tratta la paziente come se fosse mentalmente disabile e non possedesse le facoltà sufficienti a sostenere una normale conversazione. La semplicità della domanda di Aya, in lingua originale, esprime molto bene la sua difficoltà a parlare e aggiunge una contestualizzazione esauriente nel prototesto. A questo punto, che la frase in sé slitti da un grado di formalità a uno indesiderato di informalità, nonostante sia sempre un fattore da considerare, è solo una parte dell’insieme di cose che il periodo esprime. Si potrebbe ad esempio tener conto anche della struttura sbrigativa o della virgola al posto di una particella di caso e così via. Traslare in italiano tutti questi elementi estranei alla lingua di arrivo si traduce molto più essenzialmente in semplificare all’estremo una frase. Ciò

che si è perso è stata invece l’informalità del prototesto, dal momento che in italiano l’informale in seconda persona “spalmi” e il formale del medesimo caso “spalma” contano le stesse lettere e non c’è una vera e propria scelta da operare tra le due opzioni, nel qual caso ci si trovasse a dover risparmiare sulle emissioni di fiato. Inoltre, forzare Aya a esprimersi quasi senza motivo in linguaggio informale mi sembrava denaturalizzante per caratterizzare la sua persona, anche se ciò non toglie che scegliere come forma adeguata per questo passaggio “Perché mi spalma la crema?” non è a mio parere totalmente soddisfacente.

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