Considerata da sempre come un’attività afferente al campo della gestione del lavoro di altre persone, l’alba dello HRM risale alla fine dell’ottocento in Europea e negli Stati Uniti. Successivamente, tecniche e concetti HRM sono stati applicati in Giappone, ma almeno un decennio dopo.
Il primo sviluppo di queste pratiche v’è stato in relazione all’emergere di politiche di welfare industriale. A partire dagli anni ’90 dell’ottocento, in Germania, difatti, alcune organizzazioni hanno cominciato a fornire una varietà di servizi connessi lavoro e ai familiari dei dipendenti, come spazi per pranzare, assistenza medica, programmi ricreazionali, biblioteche, riviste aziendali (Eilbirt, 1959; Gospel, 1992; Spencer, 1984). La posizione lavorativa creata per governare queste dinamiche era una posizione mediamente segretariale. L’impulso a porre in essere determinate pratiche nasceva da una sorta di interesse umanitario e religioso nei confronti dei dipendenti (Boxall, Purcell & Wright, 2007).
Il secondo impulso verso l’attuazione di pratiche di HRM è stato la creazione di primordiali uffici di collocamento, creati per centralizzare e standardizzare determinate funzioni legate all’occupazione, come le pratiche di assunzioni, le buste paga e la registrazione del lavoro.
Nel 1912, in America, nacque un primordiale dipartimento generale per la gestione delle risorse umane, con funzioni mediamente occupazionali, attraverso la formazione della Boston Employment Managers Association.
Da questo momento, la gestione dell’occupazione delle risorse umane è stata velocemente accettata come una funziona manageriale e, nel 1916, si diffuse al punto tale da spingere verso la formazione della Employment Managers Association, su scala nazionale.
Ciò che ha dato linfa vitale alla funzione risorse umane, però, è stata l’emersione delle dottrine legate allo scientific management, secondo cui, per aumentare l’efficienza dei sistemi di produzione aziendale, c’era bisogno di utilizzare i principi legati alle scienze.
Per questa ragione, al mero ed unico aspetto legato alla produzione ed ai metodi di produzione si cominciò ad associare quello legato alle persone all’interno delle
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organizzazioni, includendo i metodi di selezione, l’assegnazione dei compiti, le supervisioni, la gestione degli spazi di lavoro e gli incentivi.
Questo nuovo approccio trovò la sua formulazione più influente nello scritto di Frederick Taylor «Principles of Scientific Management» (1991).
L’interesse dei datori di lavoro statunitensi all’approccio scientifico delle gestione è stato influenzato dai risultati empirici di due lavori pubblicati all’inizio degli anni ’10: il primo calcolava il costo del turnover dei lavoratori ed il secondo i potenziali risparmi di costo generati attraverso l’adozione dei principi dello scientific
management.
Dopo un periodo di generale maturazione dei concetti legati gestione delle persone a cavallo tra gli anni ’10 e gli anni ’50 del novecento, in cui si è percepita una – quasi – piena maturità dei temi dello HRM, negli anni ’60 si è verificata una battuta d’arresto allo sviluppo dello stesso, a favore di una forte concentrazione sulle mere relazioni industriali.
Un vero e proprio divorzio tra le due discipline, almeno dal punto di vista accademico, si è verificato negli anni ’60, anni in cui lo HRM, sotto la forma del c.d. personnel management, acquisiva forza e vigore anche in relazione alle questioni politiche di sempre maggiore interesse legate alle relazioni sindacali e di mercato. Gruppi di ricercatori delle teorie organizzative sposarono i temi della gestione delle persone, inserendoli nella vera e propria progettazione dei sistemi. Arensberg, Argyris, McGregor, Whyte, ad esempio, aderirono a tale movimento ma, avanzando negli studi, si avvicinarono sempre più ai temi del comportamento organizzativo (OB).
La prima vera menzione della locuzione Human Resource apparve nel testo «The
Human Resources Funcion» di Wight Bakke (1958), nel quale stabiliva che «The general type of activity in any function of management […] is to use resources effectively for an organizational objective […]. The function which is related to the understanding, maintenance, development, effective employment, and integration of the potential in the resource ‘people’ I shall call simply the human resources function.». In più, egli afferma «The first thing that we ought to be clear on is that there is nothing new about the managerial function of dealing with people […]. Like other sub-functions of management […] it has been carved out of the general managerial function, not put into it.».
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Da questo momento l’esistenza delle pratiche di gestione delle persone viene proclamata e, in un certo senso, lo HRM viene considerato un sinonimo concettuale di personnel management.
Solamente dagli anni ’80 allo Human Resource Management viene data una propria autonomia, differente dai concetti di industrial relation e personnel management. Il libro Managing Human Assets (1984) di Beer e l’articolo Human Resource
Management: the integration of Industrial Relations and Organizational Development (1984)
di Beer e Spector descrivono un nuovo paradigma di gestione delle persone, allontanandosi delle relazioni industriali e della teoria organizzativa, nell’emergente punto di vista che le persone sono un asset e non un costo e che la funzione HR è pienamente consapevole e coinvolta nelle decisioni di business (1984).
Da allora, negli ultimi 30 anni, le pubblicazioni e le teorie sono state tante e l’importanza del capitale umano è stata è stata largamente proclamata.
Seppure brevemente, descrivere l’evoluzione storica dello HRM permette di comprenderne l’entità del fenomeno: ricavare uno spazio scientifico ed operativo all’interno di un settore in cui i numeri, le progettazioni e le relazioni industriali ne dominavano la produzione di conoscenza è stato difficile e, in un certo senso, ne ha influenzato le modalità di pensiero.
Difatti, l’influenza del passato dello HRM (Wall & Wood, 2005) ne ha determinato la macrodifferenziazione dei suoi obiettivi, di carattere economico e socio-politici.
In quello che gli economisti chiamano breve periodo, il compito primario delle organizzazioni è assicurare la redditività economica nel settore in cui si è scelto di competere.
Tale obiettivo è concettualmente raggiungibile attraverso l’implementazione e l’utilizzo delle leve della produttività del lavoro e stabilendo un sistema di lavoro economicamente sostenibile dal punto di vista dei costi (Boxall & Purcell, 2003; Geare, 1977; Godard, 2001; Osterman, 1987). La sostenibilità può essere intesa come la necessità, per ogni azienda, di sostenere e stabilizzare un sistema produttivo capace di farla competere nel mercato scelto (Rubery, 1994; Rubery & Grimshaw, 2003). È chiaro che, quando si parla di lavoro e di sistemi produttivi, il
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riferimento, non più implicito, è anche nei confronti delle pratiche di gestione delle persone e delle strategie affinché i processi funzionino.
Il processo di formazione di un modello di HRM che sostiene la redditività aziendale avviene alla fondazione e durante la crescita delle aziende di successo (Boxall & Purcell, 2003).
La necessità fondamentale di adattare la strategia HR all’economia della produzione introduce una grande verità nello HRM. Modelli di lavoro molto costosi e fondati sulle capacità degli individui, che comprendono una selezione rigorosa, un elevato salario e un ampio sviluppo interno, sono inusuali tra le aziende caratterizzate da un grasso grado di integrazione tecnologica e da bassa intensità di capitale.
In tali circostanze, le organizzazioni utilizzano tipicamente modelli basilari fondati sul risparmio di costo e sull’utilizzo di personale poco qualificato.
D’altra parte, come sostengono Godard e Delaney (2000), costose pratiche HR di alto impegno si trovano più spesso quando il sistema di produzione è capital
intensive o dove l’alta tecnologia è coinvolta. In queste condizioni, il livello assoluto
del costo del lavoro può essere abbastanza basso, ma i lavoratori hanno un produttività importante. È quindi economicamente efficiente remunerarli e addestrarsi al meglio, sfruttando meglio le loro competenze e assicurando che la loro motivazione sia mantenuta alta.
Identificare l’efficienza di costo come il driver economico più importante nell’ambito dello HRM aiuta a spiegare perché le aziende, nelle figure dei decisori, non adottino modelli di gestione fondati sull’high commitment in maniera allargata. Fare questo, difatti, ignorerebbe l'impatto delle differenze industriali legate alle dotazioni tecnologiche di produzione e gli atteggiamenti dei clienti sui quali i modelli di HRM sono economicamente sostenibili.
L’enfasi sui costi aiuta anche a capire che in ogni modello di HRM sono inevitabili «tensioni strategiche» tra il datore di lavoro e il dipendente, a prescindere dal livello e dall’inquadramento (Evans, 1986; Boxall, 1999; Evans & Genadry, 1999). Molte micro e piccole imprese falliscono perché non riescono ad ottenere il lavoro di cui hanno bisogno, mentre alcune semplicemente sopravvivono restando organizzazioni fragili e deboli con un elevato turnover del lavoro e
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problemi legati alle assunzioni (Hendry et al; 1995; Hornsby & Kuratko, 2003; Marchington et. al., 2003; Rubery, 1994; Storey, 1985).
L'immagine è ulteriormente complicata dalla realtà del cambiamento negli ambienti aziendali: la produttività del lavoro o l’efficacia dei costi, difatti, sono collocati in un determinato contesto. In altre parole, dato un particolare mercato e un certo tipo di tecnologia (tra le altre cose), si tratta di rendere produttive le risorse del lavoro aziendale a costi concorrenziali.
Le revisioni teoriche nell’economia del lavoro e nelle relazioni industriali, negli anni ’80 (Osterman, 1987; Streeck, 1987), hanno sottolineato la necessità di dirigersi verso la continua attitudine al cambiamento e verso la capacità di ottenere, ovvero perseguire, logiche di flessibilità organizzativa, attitudini e capacità connesse a doppio filo con la gestione delle persone.
È possibile, quindi, affermare che gli obiettivi economici dello HRM si muovano continuamente tra logiche tendenzialmente statiche, di cost effectiveness, e logiche dinamiche, di flessibilità e continuo riadattamento per il raggiungimento degli obiettivi desiderati.
Dal punto di vista, invece, degli obiettivi socio-politici dello HRM, la trattazione diviene trascendentale e legata ad aspetti profondi, meccanismi, dell’individuo. Difatti, mentre perseguono logiche di produttività del lavoro, i lavoratori ricercano simultaneamente un certo grado di legittimità all’interno delle organizzazioni e nel contesto in cui vivono (Boxall & Purcell, 2003).
Dal momento che le aziende si sentono legittimate ad avere un pronto accesso alle risorse della società – ossia, in maniera allargata, le persone –, le pratiche di impiego devono essere considerate uniformi ai costrutti socio-politici, alle leggi del lavoro e alle norme sociali (Lees, 1997). Questo bisogno di legittimazione sociale, che tanto si ricollega alle idee istituzionaliste affrontate nel Capitolo I, implica che vi siano forti variazioni nelle pratiche di HRM, basate su ciò che accade, a livello nazionale ed internazionale, nei diversi ambienti istituzionali. In questo senso, però, è importante trattare il tema della coerenza interna delle organizzazioni, la razionalità organizzativa, la c.d. internal fit delle aziende. Essendo la legittimità sociale un obiettivo necessario, spesso, per le aziende, è impossibile – o raramente possibile – che tutte le pratiche HR riflettano una missione
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economica o competitiva. Alcune pratiche, difatti, nascono e si sviluppano solamente per assicurare l’adesione alle leggi sul lavoro, alle convenzioni sociali, morali ed economiche. Avvolte, non c’è una diretta connessione con le strategie competitive. Il tema del decoupling18 (Meyer & Rowan, 1977) organizzativo descrive appieno tale logica (Boxenbaum & Jonsonn, 2008).
Denominata autonomia manageriale (Boxall, Purcell & Wright, 2007), questa tendenza si colloca, nel quadro degli obiettivi socio-politici, all’opposto della legittimazione, in un ottica di sostanziale dinamicità organizzativa.
Elevati livelli di autonomia manageriale sono estremamente necessari se si presentano problemi relativi alla costruzione di imprese produttive e flessibili, richiedenti, al tempo stesso, il sostegno da parte delle comunità e degli stakeholders. Completa autonomia manageriale è ciò che le organizzazioni desidererebbero.
Il giusto bilanciamento, ovviamente, deve prevedere un pieno rispetto delle leggi sulla protezione del lavoro, sulla sicurezza sui luoghi e, in generale, di tutti i temi legati ad imposizioni normative alle organizzazioni.
In definitiva, le ragioni che muovono le decisioni manageriali sullo HRM sono economiche e socio-politiche. La mission è sostenere la redditività d’impresa attraverso la stabilizzazione di un sistema di gestione di un tipo di lavoro, da un lato, ben retribuito e, da un altro, socialmente legittimato.
Se i dipartimenti HR non riescono in tale impresa, la produttività risulterà minata dal lato economico-finanziario e, in generale, sul versante organizzativo. Lavoratori ben retribuiti, motivati e pronti a collaborare in gruppi strutturati sono una condizione necessaria per la sopravvivenza e lo sviluppo aziendale.
Le tensioni strategiche, le contrapposizioni di interessi tra dinamicità e stabilità, si collocano, quindi, nell’ambito delle scelte di lungo periodo d’azienda, poiché lo
18 Quando le organizzazioni sono costrette ad adattarsi ai miti razionalizzati della società, su come
le organizzazioni dovrebbero apparire e fare, devono affrontare due problemi: in primo luogo, i miti razionalizzati potrebbero non comprendere una soluzione efficiente per l'organizzazione, e secondo, possono esistere miti razionali concorrenti e internamente inconsistenti contemporaneamente. Meyer e Rowan (1977) hanno proposto che le organizzazioni dissociassero – decouple – le loro pratiche dalla loro struttura formale per risolvere questi due problemi di pressione istituzionale. In effetti, decoupling vuol dire che le organizzazioni rispettano solo superficialmente la pressione istituzionale e adottano nuove strutture senza necessariamente attuare le pratiche correlate (Boxenbaum & Jonsson, 2017).
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studio delle contrapposizioni, dei meccanismi interni e dei progressi nelle tensioni – intese, ora, come pulsioni – offrono una chiave di lettura qualitativamente valida per collocare il fenomeno HRM.
Bisogna avanzare nella comprensione degli obiettivi dello HRM a partire dai momenti della nascita d’impresa (Purcell, 1999).
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