Capitolo 3. L’unione Bancaria europea
3.4 Lo schema comune di assicurazione sui depositi
Per ora l’assicurazione sui depositi resta un elemento dell’Unione Bancaria non molto preso in considerazione. Pur riconoscendo la necessità di costruire uno schema comune di assicurazione sui depositi, le autorità europee ne rilegano l’implementazione ad un prossimo futuro. Quindi, anche se verrà deciso di creare un fondo comune di assicurazione, e bisogna sottolineare il se, sarà comunque da ultimo.
Per ora la Commissione europea si è limitata ad emanare una Direttiva, la Deposit Guarantee Scheme Directive (DGSD), che armonizza le regole relative ai depositi nazionali: la portata dei depositi sarà, e fin qui nulla di nuovo, 100.000 euro ma è previsto un finanziamento ex ante pari all’1,5% da parte delle banche.
Anche gli economisti si dividono sulla questione dell’assicurazione sui depositi.
Pisani-Ferry e Wolff (2012) in un recente paper sulle implicazioni fiscali di una Unione Bancaria sostengono che l’assicurazione sui depositi non è uno strumento necessario in questa fase della crisi. La ragione data è che i fondi possono servire ad assicurare i depositanti nel caso in cui a fallire siano piccoli o singoli istituti finanziari, ma non possono assicurare i depositanti contro il fallimento del sistema finanziario della zona euro.
Al contrario Gros e Schoenmaker (2012) ritengono necessario rafforzare la fiducia dei depositanti nel sistema bancario europeo attraverso la costruzione di un fondo comune di assicurazione (da inserire nel cosiddetto progetto di EDIRA). Anche Carmassi e al. (2012) sono a favore di una Unione Bancaria completa in tutti e tre i suoi elementi, supervisione, risoluzione, assicurazione sui depositi.
3.5 Conclusioni
Riassumendo le fila del discorso, ad oggi, il progetto di Unione Bancaria Europea è piuttosto incompleto. Se gli ostacoli sulla vigilanza unica alla BCE paiono superati con
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l’accordo tra Parlamento Europeo e BCE, non lo sono quelli sull’assicurazione sui depositi, sui sistemi di risoluzione e le relative procedure di decisione, sull’entità dei fondi attivabili per le crisi bancarie.
In mancanza di un chiaro progetto di unione Bancaria, l’UE ha definito che pagherà gli oneri delle future crisi bancarie: prima gli azionisti, poi i creditori subordinati, gli altri creditori e i depositanti oltre i 100 mila euro, solo alla fine potranno intervenire i fondi europei. Sono criteri basati sull’equità, volti ad evitare oneri ingiusti a carico dei contribuenti, ma che purtroppo possono scontrarsi con il bisogno di stabilità finanziaria di cui in questo momento ha bisogno l’area euro.
Sarebbe allora meglio creare un fondo comune europeo, come proposto, seppur con modalità diverse, da molti economisti, che intervenga quando e in misura necessaria a discrezione di una unica autorità di risoluzione delle crisi bancarie. Eppure, anche se proposto su carta, quest’ultimo scenario sembra ancora quanto mai lontano dal diventare la prassi.
113 Conclusioni
Se il disegno iniziale dell’Unione Monetaria Europea avesse incluso il progetto di Unione Bancaria europea la crisi dell’area euro forse non avrebbe assunto una dimensione così catastrofica.
Ma ormai le cose sono fatte e i se non servono a risolvere la crisi.
Piuttosto è necessario recuperare il tempo perduto, superando i nazionalismi e gli interessi egoistici che hanno fin ora impedito la costruzione di un sistema bancario veramente europeo, in tutti i suoi aspetti.
Tra il 28-29 giugno il Consiglio Europeo propone la ricapitalizzazione diretta delle banche europee tramite l’ESM, al fine di spezzare il circolo vizioso tra banche e Stati che caratterizza l’area euro. L’utilizzo dell’ESM per la ricapitalizzazione bancaria è però subordinato alla creazione di un nuovo organismo, il Single Supervisory Mechanism.
È questo il primo passo verso la costruzione di un progetto che va al di là della semplice risoluzione di problemi di natura contingente, la crisi dei debiti sovrani, ma che si pone come obiettivo il ripristino dell’integrazione e della stabilità finanziaria dell’area; si tratta dell’Unione Bancaria Europea.
Solo un supervisore unico europeo, un unico sistema per la risoluzione delle crisi bancarie e un'unica assicurazione sui depositi possono infatti superare il gap strutturale che in questi anni ha caratterizzato l’area euro: un sistema bancario integrato ma risorse e autorità di controllo nazionali.
Questo gap, meglio noto come financial trilemma, ha condotto alla segmentazione dei mercati finanziari lungo i confini nazionali, uno scenario a dir poco grave in una Unione Monetaria che si è trovata così divisa in due zone: quella dei paesi core e quella dei paesi periferici.
La frammentazione finanziaria significa infatti che gli stessi tassi di policy della banca centrale si traducono in diversi tassi sui prestiti, a seconda del luogo. Questa non è una situazione che può durare a lungo. L’autarchia finanziaria comporterebbe alla fine un cambiamento fondamentale nell’equilibrio tra costi e benefici di partecipare all’euro.
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Nonostante l’opposizione di alcuni economisti, soprattutto tedeschi, l’Unione Bancaria è ben presto diventato un progetto appoggiato da tutte le autorità e i governi europei, e infatti già dal prossimo anno la BCE assumerà di fatto il ruolo di supervisore su tutto il sistema bancario europeo. E certo anche la stessa BCE ha dato una notevole spinta per la creazione dell’UBE; in questo modo l’autorità di politica monetaria potrà proseguire con le operazioni di finanziamento, ovvero agire come prestatore di ultima istanza per le banche europee, potendo però disporre di molte più informazioni sui sistemi bancari nazionali rispetto al passato.
Oltre al SSM è in corso di approvazione anche la costituzione di un Single Resolution Mechanism, un organo il cui compito è affiancare la Banca Centrale nella gestione e risoluzione delle crisi bancarie.
Nonostante gli evidenti progressi nella creazione dell’UBE, tuttavia sembrerebbe che le autorità europee, dietro il velo dell’entusiasmo e dell’approvazione, nascondano una certa ostilità.
L’Unione Bancaria Europea infatti, non deve essere solo vista come un organo composto da autorità di controllo centralizzate, ma è anche e soprattutto un meccanismo per mettere in comune le risorse necessarie per superare le crisi bancarie, ponendo così fine a diverse problematiche tra cui quella degli accordi tra paesi host e home su come dividere le spese di salvataggio ma soprattutto ridurre al minimo i costi per i contribuenti e quindi far si che i salvataggi non gravino più sui bilanci pubblici, spezzando di conseguenza il circolo vizioso banche e Stati.
Fino a che non sarà creato un fondo europeo per la risoluzione delle crisi inoltre verranno applicate le disposizioni contenute dalla Direttiva europea in materia di risoluzione delle crisi, che abbiamo visto aver sancito il bail in come regola di intervento nel caso di fallimenti bancari. Abbiamo però anche visto che questa tecnica di partecipazione alle perdite che coinvolge azionisti, creditori e correntisti non elimina il rischio di perdite per i contribuenti, ne le problematiche di natura economica legate alla crisi, in particolare il rischio di un credit crunch.
È pur vero che la Commissione Europea ha proposto di creare un fondo unico di risoluzione finanziato ex ante dal sistema bancario; la creazione di questo fondo richiederà tuttavia molto tempo e inoltre potrà essere utilizzato solo dopo l’entrata in funzione del SRM prevista per il 2015, ciò però non toglie che i tempi possano ulteriormente slittare, come del resto è avvenuto per il SSM.
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A questo si aggiunge la questione dell’assicurazione sui depositi. Pur riconoscendo la necessità di ultimare il progetto di Unione Bancaria attraverso uno schema comune di assicurazione sui depositi, le autorità europee ne rilegano l’implementazione ad un prossimo futuro. Per ora le assicurazioni sui depositi possono restare nazionali.
Infine delicata è la questione dell’ESM. L’ESM sembra essere lo strumento più adeguato per fare da back up al SRM, almeno fino a quando non sarà creato un fondo europeo per la risoluzione delle crisi. Eppure le severe condizioni imposte ai paesi che ne richiedono l’utilizzo ne limitano notevolmente la funzionalità: è infatti evidente che gli Stati membri tenderanno a procrastinare il più a lungo possibile la richiesta di ricapitalizzazione, facendo ulteriormente aumentare i costi di un eventuale salvataggio.
Concludendo l’Unione Bancaria è ad oggi un progetto incompleto. Certo esso richiede tempo e molte risorse, ma non per questo si può pensare di abbandonare l’impresa, solo una Unione Bancaria può infatti risolvere i problemi congiunturali e strutturali che caratterizzano il sistema finanziario dell’area euro.
Eppure, nonostante siano già stati raggiunti alcuni traguardi, molti altri, soprattutto quelli che richiedono il comune uso di risorse, restano in dubbio, ostacolati dai diversi interessi politici - soprattutto quelli di chi, in primis la Germania, si ostina a non voler pagare per i paesi più ‘deboli’- in una unione che ancora una volta sembrerebbe avere di unito solo la moneta.
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Appendice
1 Introduzione
La crisi dell’area euro, come già documentato nel capitolo 1, si caratterizza per la stretta interdipendenza fra crisi bancaria e crisi del debito pubblico, una interdipendenza anche definita come ‘circolo vizioso’ fra banche e Stati. Certo l’interdipendenza manifestatasi nell’area euro non è unica nel suo genere, come dimostrano Reinhart e Rogoff (2009), storicamente le crisi bancarie che colpiscono uno Stato tendono ad essere seguite dalla crisi dello Stato medesimo. Eppure il circolo vizioso dell’Eurozona risulta essere particolarmente forte e carateristico.
Poiché all’interno dell’area euro non esiste un sistema sovranazionale per la risoluzione delle crisi bancarie, gli Stati membri sono individualmente responsabili del salvataggio delle proprie banche. Tuttavia i numerosi salvataggi bancari, avvenuti nel corso della crisi, hanno messo in luce che le dimensioni delle banche dei paesi membri possono essere di molto superiori alle capacità fiscali del paese responsabile del salvataggio. Ciò spiega perché gli stress del settore bancario, nella prima fase della crisi, 2008-2010, si sono trasmessi agli Stati dell’Eurozona. L’altro elemento del legame fra banche e Stati risiede nel fatto che le banche europee sono strettamente legate all’home country perché queste detengono in bilancio considerevoli quote del debito emesso dal ‘proprio’ governo. E così, nella seconda fase della crisi, 2011-2012, ogni dubbio sulla solvibilità di uno Stato si immediatamente ripercossa sulle banche domestiche.
In questa appendice dimostrerò, attraverso un’analisi empirica, l’esistenza della forte interdipendenza fra banche e Stati dei paesi dell’area euro maggiormente colpiti dalla crisi, quindi i paesi periferici, e lo farò utilizzando i Credit Default Swap (CDS).
I CDS sono titoli derivati che assicurano contro il rischio di default di un creditore e per questo risultano essere particolarmente idonei a dimostrare quanto successo all’interno della zona euro.
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2 Credit Default Swap: aspetti teorici
I Credit Default Swap (CDS) rientrano nella categoria dei credit derivatives, ossia degli strumenti derivati over-the-counter (OTC), che consentono di trasferire il rischio di credito implicito in una esposizione creditizia senza trasferire il credito stesso. Essi nascono dunque come una sorta di ‘garanzia sintetica’ legata al deterioramento della qualità creditizia dell’emittente del debito.
Esistono diverse tipologie di credit derivatives: Credit Default Swap (CDS)
Binary CDS
Credit default options First-to-default basket CDS Total return swap
Asset-Backed Securities (ABS)
Collateralized Debt Obligations (CDO)
I credit derivatives sono accomunati da tre elementi:
a) Reference credit: credito sottostante al quale è legato il rischio di credito;
b) Credit event: evento negativo al cui verificarsi scatta l’obbligo per il venditore di protezione del rischio, come ad esempio l’insolvenza o l’inadempienza del debitore, la riduzione del valore del reference credit oltre una determinata soglia pattuita, la riduzione del merito creditizio del debitore. Il credit event si definisce normalmente su criteri oggettivi e pubblicamente verificabili;
c) Recovery rate: entità del pagamento dovuto dal venditore al verificarsi del credit event, è espresso in percentuale sul nominale del reference credit;
Per quanto riguarda il credit default swap, si tratta di un contratto finanziario bilaterale nel quale una parte (protection buyer) accetta di versare un premio (credit default spread), in cambio di un eventuale pagamento della controparte (protection seller o swapper) al verificarsi di un credit eventsu un determinato reference entity (un soggetto terzo). Se il reference entity risulta insolvente il protection buyer ha il diritto di vendere al seller il reference credit al valore nominale, oppure il seller paga al buyer la differenza fra il valore nominale e il valore di mercato del reference credit.
Per il protection buyer l’operazione assume una valenza principalmente protettiva: egli trasferisce una quota di profitto della propria attività allo swapper ricevendone in
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cambio la copertura, parziale o totale, del relativo rischio di credito. Lo swapper realizza, invece, un’operazione di pura speculazione. Così, mentre il protection buyer si espone ad una perdita certa (la percentuale di rendimento) per garantirsi un eventuale indennizzo, lo swapper si procura un profitto certo, esponendosi ad una perdita incerta. I CDS rappresentano quindi una sorta di contratto di assicurazione contro il “rischio di fallimento” dell’emittente dei titoli sottostanti (azioni o titoli di stato), con un prezzo correlato alla probabilità di default del sottostante.
Il credit default swap è un contratto altamente personalizzato, infatti è negoziato sui mercati OTC, ed è necessario porre particolare attenzione ad alcuni aspetti. In particolare, i termini chiave che devono essere necessariamente definiti affinché il contratto possa perfezionarsi sono i seguenti:
a) Determinazione del premio; b) Definizione del credit event; c) Durata del contratto;
d) Meccanismo di regolamento nel caso in cui si verifichi il credit event.
a) Determinazione del premio (credit default spread). Gli elementi principali che si dovrebbero teoricamente considerare per la determinazione del premio sono:
1. il tasso di recupero del reference asset, ovvero dell’asset sottostante il rapporto tra reference entity e protection buyer;
2. il merito creditizio dell’emittente e quindi la probabilità che si verifichi il credit event;
3. il rischio di credito della controparte;
1. Il tasso di recupero, o recovery rate, è generalmente un'incognita fino a molti mesi o persino anni dopo il default, perciò determinare a priori il tasso di recupero di un investimento non costituisce certo un'operazione agevole. Esso dipende dal valore di liquidazione dell'asset di riferimento, dall'entità di eventuali garanzie collaterali e dal tempo necessario per il recupero parziale del credito. Il problema principale è costituito, tuttavia, dalla forte volatilità che lo caratterizza.
2. La probabilità del verificarsi dell'evento costituisce un altro elemento difficile da valutare e controllare. Le frequenze di default pubblicate dalle agenzie di rating possono essere adottate efficacemente per le obbligazioni negoziate nei mercati. Nel caso dei prestiti bancari, invece, per i quali manca il giudizio di mercato sulla rischiosità e sulle
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prospettive dell'impresa, occorre procedere per analogia; in tal caso, però, si introdurrebbe un elemento di soggettività che potrebbe inficiare la qualità dei risultati. 3. Nell’ambito della determinazione del premio, colui che fornisce la protezione ha un’importanza rilevante. In generale, a parità di condizioni, il costo dello swap è inversamente collegato alla correlazione che esiste fra il rischio di credito del protection seller e quello del debitore principale. Per l’acquirente della protezione, infatti, l’effettivo rischio di perdita finale è subordinato al verificarsi di un duplice default: quello del debitore principale, in primis, e quello della controparte dello swap.
b) Definizione del credit event. Nel credit default swap l’aspetto più delicato riguarda la definizione precisa di credit event, vale a dire dell’evento futuro e incerto che esprime il deterioramento del profilo creditizio e che fa scattare la protezione. L'obbligo di pagamento da parte dello swapper non opera incondizionatamente al verificarsi di qualsivoglia inadempienza, ma solo nei casi specificatamente previsti nel contratto. La manifestazione del credit event deve essere puntualmente definita, basata su eventi pubblicamente verificabili. Inoltre, affinché il pagamento sia dovuto, il verificarsi di uno degli eventi menzionati deve essere accompagnato da un significativo deterioramento del valore del titolo di riferimento. Questa clausola, nota come materiality, serve a garantire che il pagamento venga effettuato solo se l'evento dannoso risulti sostanziale. Per questo motivo, al fine di ridurre al minimo gli elementi discrezionali di giudizio, si ricorre alle cosiddette “soglie di rilevanza” che fanno scattare il pagamento solo dopo significative variazioni della qualità del credito (trascurando le piccole variazioni di valore che possono verificarsi nel corso del tempo o inadempienze tecniche che non intaccano il merito creditizio del soggetto).
c) Durata del contratto swap. La scadenza varia da uno ai dieci anni, anche se la maggior parte delle negoziazioni è concentrata sulle scadenze brevi.
d) Meccanismo di regolamento del contratto. L’inadempienza del debitore provoca, oltre all’obbligo di rimborso da parte dello swapper, l’estinzione dell’operazione. L’ammontare da versare nel caso di realizzazione del credit event viene calcolato ricorrendo alternativamente a diverse procedure.
120 3 CDS e crisi del debito sovrano
Con lo scoppio della crisi finanziaria credit default swap (insieme a spread) è diventato un termine molto comune ed utilizzato non solo nelle pubblicazioni di molti economisti ma anche in campo giornalistico. Lo scoppio della crisi del debito sovrano nei paesi periferici ha infatti portato alla ribalta le indicazioni importanti che un investitore può trarre dallo spread fra i vari titoli di stato europei o dal valore dei CDS su ciascuno di essi. Si potrebbe dunque affermare che spread e CDS rappresentano come un termometro della salute e della coesione economica europea. In particolare i CDS accentuano gli umori del mercato e i suoi segnali di fiducia o sfiducia nei confronti delle singole economie che compongono l’Eurozona nonché dei relativi settori bancari. L’acquisto del CDS spinge infatti al rialzo il prezzo del derivato; il prezzo, nell’assumere trend crescente, “trasmette” agli operatori finanziari il messaggio di un aumento della probabilità di default dell’emittente del titolo a cui si riferisce il CDS. Molti economisti si sono infatti serviti dei CDS come uno strumento per analizzare e spiegare la crisi della zona euro, soprattutto per quel che concerne la stretta interdipendenza fra crisi bancaria e crisi del debito sovrano.
Tra gli altri, Acharya e al. (2011) attraverso i CDS dimostrano che l’annuncio dei salvataggi nell’Europa occidentale è coinciso con un ‘spostamento’ generalizzato del rischio di credito dalle banche i paesi europei, evidenziato dal contemporaneo abbassamento dei CDS bancari e l’innalzamento dei CDS sui paesi sovrani. Inoltre essi hanno trovato che i CDS su banche e Stati dei paesi europei si sono innalzati nel periodo post-salvataggio muovendosi insieme. Aller e Schueler (2011) dimostrano attraverso i CDS che nella prima fase della crisi (2008-2010) il rischio di credito delle banche è stato trasferito agli Stati, nella seconda fase della crisi (2010-2012) il contagio ha iniziato ad andare in direzione opposta, dagli Stati alle banche. Merler e Pisani-Ferry (2012) mostrano invece l’esistenza di una correlazione fra grado di solvibilità delle banche e degli Stati europei.