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Circolo vizioso banche e Stati e Financial Trilemma: il lungo percorso verso l'Unione Bancaria Europea

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Academic year: 2021

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Indice

Introduzione ……….5

Capitolo 1. Dalla crisi finanziaria alla crisi del debito pubblico 1.1 Introduzione cronologica alla crisi: dalla crisi finanziaria globale alla crisi dell’area euro ... 9 1.1.1 Il caso greco ... ..16 1.1.2 Il caso irlandese ... ..20 1.1.3 Il caso portoghese... ..22 1.1.4 Il caso spagnolo ... ..24 1.1.5 Il caso italiano ... ...27

1.2 Le tre crisi dell’area euro ... ..30

1.2.1 La crisi bancaria ... ..30

1.2.2 La crisi del debito pubblico ... ..32

1.2.3 La crisi macroeconomica ... ..37

1.3 Le interconnessioni tra le tre crisi ... ..41

1.3.1 Il Legame tra crescita economica e crisi del debito ... ..41

1.3.2 Il circolo vizioso banche e Stati: dalle banche agli Stati ... ..42

1.3.3 Il circolo vizioso banche e Stati: dagli Stati alle banche ... ..47

1.3.4 Il legame tra crescita economica e crisi bancaria ... ..51

1.4 Le misure intraprese per risolvere la crisi ... ..52

1.4.1 Il Fondo salva-Stati e le politiche di austerità ... ..53

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1.4.3 L’Esm e l’Unione Bancaria Europea ... ……….57

1.5 Conclusioni ... ..59

Capitolo 2. L’Unione Bancaria europea: ragioni strutturali 2.1 Introduzione ... ….60

2.2 Integrazione finanziaria (benefici e costi) e financial trilemma ... …62

2.2.1 I benefici dell’integrazione bancaria transfrontaliera sulla stabilità finanziaria... ….63

2.2.2 I costi dell’integrazione sulla stabilità finanziaria ... ….65

2.2.3 Financial trilemma e incentivi dei supervisori nazionali... …68

2.3 Un esempio di financial trilemma: il caso europeo ... ...…….71

2.3.1 Zona euro: dall’integrazione finanziaria ... ……….72

2.3.2 ..all’instabilità finanziaria: crisi sistemiche e disintegrazione finanziaria ..75

2.3.3 Caratteristiche dell’assetto istituzionale europeo per la salvaguardia della stabilità finanziaria ... ….77

2.3.4 Fallimento dell’assetto istituzionale europeo per la salvaguardia della stabilità finanziaria ... ..79

2.4 Frammentazione finanziaria o Unione Bancaria? ... ….86

2.5 Conclusioni ... ..88

Capitolo 3. L’unione Bancaria europea 3.1 Introduzione ... ..89

3.2 La vigilanza bancaria e le dimensioni dell’Unione Bancaria ... ….90

3.2.1 Quale autorità di supervisione? ... ….92

3.2.2 Quali paesi, quali banche, cosa sarà dell’European Banking Authority? ...99

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3.3.1 L’importanza di un piano europeo per la risoluzione delle crisi bancarie 104

3.3.2 Common recovery e resolution tools ... ….105

3.3.3 Il Single Resolution Mechanism ... 106

3.3.4 Il fondo europeo di risoluzione delle crisi e il fiscal backstop ... 109

3.4 Lo schema comune di assicurazione sui depositi ... ..111

3.5 Conclusioni ... ….111

Conclusioni ... 113

Appendice 1 Introduzione ... 117

2 Credit default swap: aspetti teorici ... 120

3 CDS e crisi del debito sovrano ... 122

3.1 Evoluzione dei Sovereign Credit Default swap (CDS) premia ... ..123

3.2 Correlazione fra Bank e sovereign CDS premia ... ..128

3.3 L’evidenza del circolo vizioso banche e Stati ... ..132

Bibliografia ... ..134

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Introduzione

L’Unione Monetaria Europea è costituita da 17 Paesi appartenenti all’Unione Europea che condividono un’unica moneta, l’euro. L’introduzione dell’euro ha sicuramente costituito per questi paesi un notevole beneficio perché, tra le altre cose, ha contribuito alla creazione di un mercato finanziario integrato. A sua volta un sistema finanziario integrato è necessario affinché gli impulsi di politica monetaria stabiliti dalla Banca Centrale Europea siano trasmessi il più uniformemente possibile a tutti i Paesi appartenenti all’area.

Essendo quello europeo un sistema finanziario essenzialmente banco centrico è altresì molto importante che anche il sistema bancario europeo sia integrato.

Con l’introduzione dell’euro, la conseguente eliminazione del rischio di cambio e una regolamentazione sempre più armonizzata quello dell’integrazione bancaria può dirsi un obiettivo certamente raggiunto. Numerosi sono infatti i gruppi bancari sviluppatisi tramite filiali e succursali in tutti i paesi dell’area, c.d. gruppi bancari pan-europei o cross-border, e notevole è stato l’incremento del volume delle partecipazioni bancarie bilaterali (sempre cross-border).

Un sistema finanziario integrato porta con se una serie di benefici economici, oltre quelli legati alla trasmissione della politica monetaria, ad esempio consente di ampliare il range delle opportunità d’investimento e delle fonti di finanziamento, favorisce la concorrenza, permette agli investitori una migliore diversificazione del portafoglio; tuttavia può anche costituire una grave minaccia per la stabilità finanziaria. Quando il sistema finanziario è integrato ma anche particolarmente interconnesso come quello europeo, diventa infatti più facile che una crisi, seppur inizialmente localizzata in settore o in paese, si diffonda anche agli altri settori o paesi tramite il contagio, assumendo le fattezze di una crisi di portata sistemica.

Poiché la stabilità finanziaria è un bene pubblico, governi, Banche Centrali o agenzie specializzate hanno un chiaro mandato per monitorare e minimizzare i rischi di instabilità sistemica. La questione è se i governi nazionali possono ancora difendere questo bene pubblico in presenza di mercati finanziari altamente integrati e interconnessi.

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Il Finacial trilemma di Dirk Schoenmaker(2011) stabilisce che in un ambiente finanziario altamente integrato e interconnesso, (1) stabilità finanziaria, (2) integrazione finanziaria e (3) politiche finanziarie nazionali (supervisione, gestione e risoluzione delle crisi, assicurazione sui depositi) sono incompatibili; solo due dei tre obiettivi possono coesistere. Quindi per garantire la stabilità finanziaria in un ambiente finanziario integrato è necessario spostare a livello sovranazionale le funzioni di supervisione e gestione e risoluzione delle crisi.

Il sistema bancario europeo tuttavia, pur essendo caratterizzato da una forte integrazione e interconnessione, è privo di un assetto istituzionale europeo per la salvaguardia della stabilità finanziaria; la supervisione degli istituti di credito e la risoluzione delle loro crisi è infatti competenza delle autorità nazionali: l’area euro si trova di fatto intrappolata nel Financial Trilemma di Schoenmaker.

Tuttavia è solo dopo lo scoppio delle due crisi sistemiche che hanno colpito l’area euro, prima finanziaria e poi del debito pubblico, le quali hanno causato non solo la frammentazione del sistema finanziario ma hanno anche messo a dura prova la stessa sopravvivenza dell’area, che le autorità europee hanno seriamente riflettuto sulla necessità di creare un sistema unico europeo per la salvaguardia della stabilità finanziaria: l’Unione Bancaria Europea.

Tra il 28 e il 29 giugno 2012, nel corso dell’Euro area summit i capi di Stato e di governo europei prendono infatti la decisione di creare un Single Supervisory Mechanism (SSM), ovvero una autorità di vigilanza bancaria unica per tutti i paesi dell’area. La creazione di un meccanismo di vigilanza unico è la premessa necessaria affinché il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES o ESM secondo l’acronimo inglese) possa direttamente iniettare fondi nelle banche sottocapitalizzate per effetto della crisi, con l’obiettivo di spezzare il circolo vizioso tra banche e Stati europei.

Il circolo vizioso banche-Stati, anche detto negative feedback loop, rappresenta un elemento critico quanto caratteristico della crisi dell’area euro e si lega direttamente alla questione dell’Unione Bancaria Europea. Infatti, in mancanza di un sistema europeo di risoluzione delle crisi bancarie, con lo scoppio della crisi finanziaria del 2007 ciascuno Stato membro si è trovato costretto a salvare, utilizzando fondi pubblici, i ‘propri’ sistemi bancari, anche quando questi ultimi presentavano dimensioni e legami – dovuti all’integrazione finanziaria- che andavano al di la dei confini e delle capacità fiscali dell’home country.

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I salvataggi bancari avvenuti tra il 2007 e il 2008 hanno costituito un pesante fardello per le finanze pubbliche degli Stati europei e così il rischio bancario si è tramutato in rischio ‘sovrano’ e la crisi finanziaria ha posto le basi per la crisi del debito pubblico. Il filo che lega banche e Stati è tuttavia duplice: se da una parte il rischio delle banche si trasmette agli Stati, dall’altra anche il rischio degli Stati si trasmette alle banche. Il legame che va dagli Stati alle banche sussiste perché le banche hanno la propensione a detenere in portafoglio titoli di stato, attitudine che diventa ancora più forte nei periodi di crisi quando le banche preferiscono detenere in portafoglio i titoli di stato dell’ home country (c.d. home bias), piuttosto che diversificare acquistando anche titoli di altri paesi emittenti.

Per effetto dell’home bias, nel corso della crisi del debito pubblico, gli stress sopportati dai paesi periferici (Grecia, Irlanda, Italia, Spagna e Portogallo) si sono così trasferiti alle banche.

Per spezzare tale circolo vizioso le autorità europee hanno dunque ritenuto necessario che il MES potesse iniettare capitali nelle banche sottocapitalizzate in modo diretto al fine di non dover più far sopportare questo onere agli Stati membri e, di conseguenza, di non aggravare ulteriormente le condizioni dei sistemi bancari dell’area.

Poiché il MES deve saper distinguere quali banche possono essere ricapitalizzate e quali invece devono essere sottoposte alle procedure di liquidazione, è necessario che prima venga creato un supervisore unico europeo, e pertanto indipendente e competente, cui affidare il compito di decidere come e per quali banche usare le risorse del fondo salva-Stati. Il SSM sarà dunque il primo pilastro di una Unione Bancaria Europea, gli altri pilastri sono il meccanismo unico per la risoluzione e gestione delle crisi e il sistema unico di assicurazione sui depositi.

Quello dell’Unione Bancaria Europea è dunque un progetto ambizioso e che richiederà sicuramente tempo prima di essere completato. Tuttavia esso è un traguardo necessario per l’Unione Monetaria Europea sia da un punto di vista contingente (spezzare il circolo vizioso banche e Stati), sia da un punto di vista strutturale (risolvere il Financial trilemma). I padri fondatori dell’EMU avrebbero dovuto ascoltare le raccomandazioni di Tommaso Padoa Schioppa il quale, già nel 1999, sottolineava la contraddizione esistente tra un sistema finanziario integrato e autorità di vigilanza e meccanismi di risoluzione delle crisi bancarie posti a livello nazionale.

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Obiettivo della tesi è analizzare nel dettaglio le ragioni che hanno spinto alla creazione dell’Unione Bancaria Europea e le modalità, i tempi e i criteri con cui verrà strutturata. Nel primo capito viene fatta una analisi della crisi che ha colpito la zona euro a partire dalla crisi finanziaria del 2007 per poi passare a quella dei debiti pubblici scoppiata nel 2010. La crisi viene raccontata sia da un punto di vista cronologico sia da un punto di vista più critico, ossia sottolineando tanto le cause quanto i rimedi messi in atto. Attenzione particolare è stata data al problema del circolo vizioso fra banche e Stati, cui viene anche dedicata un’appendice nella quale, attraverso rappresentazioni grafiche e una analisi econometrica sui Credit Default Swap, viene dimostrato come il rischio bancario si sia trasferito al rischio sovrano e viceversa, finchè a partire dal 2010 le due tipologie di rischio hanno iniziato a muoversi insieme confermando l’esistenza del feedback loop.

Il secondo capitolo analizza invece le ragioni congiunturali che giustificano la creazione di una Unione Bancaria Europea, riportando la teoria che sta alla base del Financial Trilemma nonché i rischi e benefici derivanti dall’integrazione finanziaria. Viene poi fatto un confronto con la realtà europea per scoprire se questa si trova effettivamente intrappolata in un Trilemma. Il capitolo si conclude sottolineando in che modo le autorità nazionali e i sistemi previsti a livello europeo abbiano fallito nel garantire la stabilità finanziaria e ad evitare la frammentazione del sistema finanziario europeo, con gravi ripercussioni per la salute dell’Unione Monetaria.

Il terzo capitolo si concentra sull’Unione Bancaria Europea, facendo un confronto fra il pensiero economico e quanto proposto dai tecnici e dalle autorità europee, non mancando di sottolineare i limiti del progetto e quanto ancora deve essere fatto perché si possa parlare a tutti gli effetti di European Banking Union.

Infine l’ultima parte della tesi presenta alcune considerazioni conclusive sull’argomento.

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CAPITOLO 1.

DALLA CRISI FINANZIARIA ALLA CRISI DEL

DEBITO PUBBLICO

1.1 Introduzione cronologica alla crisi: dalla crisi finanziaria globale alla crisi dell’area euro; 1.1.1 Il caso greco; 1.1.2 Il caso irlandese; 1.1.3 Il caso portoghese; 1.1.4 Il caso spagnolo; 1.1.5 Il caso italiano; 1.2 Le tre crisi dell’area euro; 1.2.1 La crisi bancaria; 1.2.2 La crisi del debito pubblico; 1.2.3 La crisi macroeconomica; 1.3 Le interconnessioni tra le tre crisi; 1.3.1 Il legame tra crescita economica e crisi del debito; 1.3.2 Il circolo vizioso banche e Stati: dalle banche agli Stati; 1.3.3 Il circolo vizioso banche e Stati: dagli Stati alle banche; 1.3.4 Il legame tra crescita economica e crisi bancaria; 1.4 Le misure intraprese per risolvere la crisi; 1.4.1 Il Fondo salva-Stati e le politiche di austerità; 1.4.2 Le misure non convenzionali di politica monetaria; 1.4.3 L’Esm e l’Unione Bancaria Europea; 1.5 Conclusioni.

1.1 Introduzione cronologica alla crisi: dalla crisi finanziaria globale alla crisi dell’area euro

La crisi finanziaria del 2007-2008 ha avuto portata globale, ma affonda le sue origini negli Stati Uniti con la crisi dei mutui subprime.

La crisi dei mutui subprime può essere vista come il frutto di una serie di fattori interdipendenti.

In primo luogo la deregolamentazione finanziaria, giustificata dall’idea che i mercati finanziari sono efficienti, ha permesso agli agenti finanziari di assumere eccessivo rischio, inteso come un eccessivo livello di indebitamento a seguito dello sviluppo della finanza innovativa (titoli derivati).

In secondo luogo c’è chi sostiene che anche lo Stato, non solo dunque il mercato, abbia fatto la sua parte: la politica espansiva della Fed intrapresa a seguito degli eventi nefasti

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del 2000-2001 (scoppio della bolla della new economy e crollo delle torri gemelle) avrebbe infatti contribuito al crearsi della bolla immobiliare scoppiata poi nel 2005. Un ulteriore elemento che ha contribuito alla crisi è il ruolo giocato dalle agenzie di rating.

In effetti tra gennaio 2001 e giugno 2003, la Fed, riduce il tasso di riferimento, che passa dal 6% all’1%, incoraggiando le famiglie americane ad aumentare l’indebitamento per l’acquisto di abitazioni (D’apice e Ferri, 2009).

Così, i prezzi delle case iniziano a crescere, mettendo in moto due processi circolari che, amplificando gli effetti espansivi della politica monetaria, alimentano la bolla speculativa.

Il primo processo avviene sul mercato immobiliare: l’incremento del valore degli immobili consente di ottenere più credito (grazie all’aumento del valore dei collaterali) e, a sua volta, la maggiore offerta di credito contribuisce ad alimentare l’aumento dei prezzi degli immobili.

Il secondo processo circolare, strettamente collegato alla diffusione dei processi di cartolarizzazione, avviene sul mercato finanziario.

La cartolarizzazione1 è una tecnica finanziaria che ha permesso alle banche di ridurre, o anche annullare il debito, che si genera in bilancio quando la banca concede un prestito, trasferendolo ad altri soggetti (sistema originate-to-distribuite). Lo strumento essenziale nel processo di cartolarizzazione è la creazione di una Structured Invested Vehicle (SIV) una sorta di entità virtuale designata a condurre fuori bilancio le passività bancarie, cartolarizzarle e rivenderle. Per costituire una SIV, la ‘banca madre’ acquista una quota consistente di obbligazioni garantite da mutui ipotecari, chiamate mortgage-backed Securities (Mbs). La SIV, nel frattempo creata dalla banca, emette titoli di debito a breve termine detti asset-backed commercial paper che serviranno per acquistare le obbligazioni rischiose dalla banca madre, cartolarizzarle nella forma di collateralised debt obbligation (Cdo)2 e rivenderle ad altre istituzioni bancarie oppure a investitori, come fondi pensione o hedge funds.

Il problema, dunque, sta nel fatto che all’interno dei Cdo vengono confezionati differenti classi di mutui ipotecari, gli Mbs, contenenti anche mutui subprime, ossia

1 La cartolarizzazione è una tecnica finanziaria che utilizza i flussi di cassa generati da un portafoglio di

attività finanziarie per pagare le cedole e rimborsare il capitale di titoli di debito, come obbligazioni a medio-lungo termine oppure carta commerciale a breve termine.

2 Il Cdo è un titolo contenente diversi assets garanti dal debito sottostante. Essendo emesso dalla SIV, il

Cdo non rientra nel bilancio della banca. I Cdo dunque permettono di creare liquidità e allo stesso tempo di trasferire rischio.

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mutui concessi a soggetti dalle capacità di rimborso molto basse la cui solvibilità dipende quasi esclusivamente dalla possibilità di ottenere nuovi prestiti per onorare quelli già esistenti.

La fonte di maggiore rischiosità insita nel Cdo risiede nella logica stessa della cartolarizzazione, la quale pone il debito sottostante a garanzia del titolo. Se una quota consistente di debitori non dovesse essere in grado di onorare i propri impegni, la perdita di valore che ne conseguirebbe, potrebbe contagiare gli altri assets cartolarizzati nella medesima Cdo, causando una deflazione generale di questi titoli.

Nonostante la rischiosità insita nel processo di cartolarizzazione, l’inflazione dei prezzi immobiliari determina la continua rivalutazione dei titoli cartolarizzati e ciò spinge le banche a continuare ad indebitarsi pesantemente per acquistare Cdo, lucrando sulla differenza tra i tassi dei commercial papers emessi dalle Siv e i guadagni ottenuti, derivanti dell’avvenuto apprezzamento dei Cdo. Si è così giunti al cosiddetto “effetto Ponzi” consistente nella continua rivalutazione dei Cdo non basata sui flussi di reddito sottostante, ma sulla pura assunzione che il prezzo del titolo sarebbe continuato ad aumentare.

Di certo la crisi finanziaria scoppiata nel 2007, non avrebbe avuto dunque un simile impatto se la regolamentazione finanziaria avesse riconosciuto per tempo gli effetti dell’eccessivo livello di indebitamento, della crescita del valore degli immobili e soprattutto dell’incremento del rapporto tra mutui cartolarizzati e mutui erogati. A questo si aggiunge che per mezzo dei titoli derivati, i rischi derivanti dall’erogazione dei mutui subprime sono stati diffusi al resto del mondo. Le obbligazioni ad alto rendimento frutto della cartolarizzazione sono state infatti acquistate da molti investitori istituzionali anche all’estero, ponendo le basi per un contagio della crisi a livello globale.

Un altro elemento che ha contribuito alla crisi è il ruolo giocato dalle agenzie di rating che, coinvolte in un problema di conflitto di interessi, non hanno valutato correttamente il rischio contenuto nei titoli cartolarizzati.

Le tre agenzie di rating americane Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch hanno infatti assegnato rating tripla A anche a Cds contenenti titoli rischiosi e caratterizzati da merito creditizio molto basso.

Date queste premesse è chiaro che prima o poi l’ingranaggio si sarebbe inceppato. E infatti la situazione precipita quando, tra giugno 2004 e giugno 2006, il tasso di riferimento statunitense inverte rotta e passa dall’1 al 5,25%, provocando un sensibile

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aumento del servizio dei mutui a tasso variabile. L’aumento delle insolvenze che ne segue, in particolare sui mutui subprime, inizia così a far ridurre la domanda di case frenando il rialzo dei prezzi degli immobili.

Le difficoltà sul segmento subprime contagiano presto i mercati finanziari, perché, come appena detto, molti dei mutui insolventi, o a rischio di insolvenza, rappresentano il flusso di pagamenti delle obbligazioni Cdo, sottoscritte da moltissimi investitori internazionali. E così, a seguito di molti downgrades annunciati dalle maggiori agenzie di rating, il mercato perde fiducia sull’effettiva capacità delle agenzie di stimare la probabilità di default delle obbligazioni Cdo. Improvvisamente il mercato si rende conto di non avere sufficienti informazioni per valutare correttamente il rischio di questi strumenti.

Il 9 agosto 2007 la crisi subprime diventa globale: tre fondi d’investimento europei vengono congelati per l’impossibilità di stabilire il valore dei titoli nei loro portafogli diffondendo il panico sui mercati finanziari internazionali.

L’elevata opacità che avvolge i mercati in cui sono scambiati strumenti di finanza strutturata (prevalentemente mercati non regolamentati, Over the counter- OTC), non consente di isolare soltanto i titoli legati ai mutui subprime e, perciò, si propaga tra gli investitori una diffusa avversità a sottoscrivere un’ampia gamma di titoli.

In molti mercati la liquidità scompare, i prezzi crollano, i differenziali di interesse (spread) aumentano e i mercati azionari registrano pericolosi ribassi. La mancanza di liquidità che colpisce i mercati interbancari e della carta commerciale rendono necessario l’intervento delle Banche centrali.

Nonostante gli interventi il 19 settembre, la banca inglese Northern Rock, le cui forme di finanziamento sono assai sbilanciate sul breve termine, entra in crisi: l’illiquidità dei mercati finanziari internazionali le impediscono il rinnovo delle passività a breve termine mettendone in discussione la solvibilità e scatenando il panico tra i clienti, che si materializza con una corsa agli sportelli.

A ottobre anche altre banche annunciano i primi dati ufficiali sulle perdite relative alla crisi subprime. Le tensioni sui mercati si attenuano anche grazie all’intervento dei fondi sovrani nella ricapitalizzazione degli intermediari più colpiti dalla crisi, ma non sono sufficienti dal momento che le stime iniziali sulle perdite totali da subprime vanno viste verso l’alto.

Per evitare fallimenti bancari a catena, FED e BCE intervengono in due modi: fornendo agli intermediari la liquidità di cui hanno bisogno, evitando così di costringerli a

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vendere parte dell’attivo; acquistando titoli che gli intermediari vogliono vendere in modo da bloccarne la ricaduta di prezzo. Tuttavia a fine settembre 2008 né il governo USA né la FED decidono di aiutare Lehman Brothers, storica banca d’affari che, particolarmente esposta sul mercato immobiliare, dichiara la più grande bancarotta della storia americana.

L’ondata di panico che ne segue colpisce in modo significativo anche il sistema finanziario europeo. Il dissolversi della liquidità costringe l’Islanda a nazionalizzare la banca Glitnir, in Germania Hypo Real Estate viene aiutata da un consorzio di banche tedesche, i paesi del Benelux salvano il colosso finanziario Fortis, l’Inghilterra nazionalizza Bradford & Bingley, l’Irlanda garantisce i depositi delle sei maggiori banche nazionali e il gruppo Dexia riceve aiuti da Francia, Belgio e Lussemburgo. Il governo inglese annuncia la nazionalizzazione di un’ampia fetta del sistema bancario mentre l’EcoFin si riunisce d’urgenza per concordare garanzie sui depositi e obbligazioni bancarie.

Queste operazioni calmano le acque sul settore finanziario ma solo parzialmente in quanto ormai la crisi si è trasformata in una recessione a livello globale. Le performance economiche peggiori sono quelle europee e giapponesi.

Al fine di superare la crisi economica, i governi adottano politiche fiscali espansive che tuttavia provocano il deterioramento delle finanze pubbliche. E infatti in questo periodo il deficit di tutti gli Stati cresce sia per effetto dell’aumento della spesa pubblica, sia per la riduzione delle entrate fiscali provocato dalla recessione.

Ai fini della sostenibilità del debito pubblico nel 2010 molti governi del G-20 decidono allora di adottare politiche di consolidamento fiscale. La sostenibilità del debito pubblico dipende tuttavia anche dalla credibilità e dalla fiducia che i mercati finanziari ripongono nelle istituzioni e nelle scelte di politica fiscale adottate dai governi, in quanto di fatto ad un’alta credibilità corrisponde un’analoga facilità di finanziamento dei debiti pubblici.

Ecco quindi che nasce un grosso pericolo per l’European Monetary Union (EMU) quando analisti e investitori iniziano a sollevare dubbi e perplessità sulla sostenibilità del debito pubblico e sulla coesione dei paesi membri dell’area alle prese con le conseguenze della crisi finanziaria.

Nel 2010 la crisi europea entra infatti in una nuova fase, quella della crisi del debito sovrano. Essa è in buona sostanza la diretta conseguenza degli avvenimenti del 2009,

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ossia dell’anno della grande recessione, dello stimolo fiscale e del salvataggio del sistema bancario.

Col 2010 il conto del massiccio deficit spending dell’anno precedente è stato presentato dagli investitori ai governi sotto forma di incremento dei tassi d’interesse sui titoli di stato che, nel caso dei paesi considerati a rischio di insolvenza, si sono rivelati proibitivi. Questa volta però gli squilibri di finanza pubblica non sono dovuti alla strutturale inefficienza che solitamente si associa alla gestione della spesa pubblica. Gli squilibri sono ovunque il frutto dello sforzo eccezionale intrapreso dal settore pubblico per impedire che l’economia cadesse in recessione e il sistema bancario in default. In Europa, è il secondo obiettivo ad aver assorbito la quota di gran lunga prevalente delle risorse pubbliche impegnate contro la crisi. Superata in questo modo l’emergenza, gli operatori dei mercati finanziari e le banche sono tornate al “business as usual” – seminando il sentiero della ripresa faticosamente in corso con i germi di una potenziale nuova crisi – e la colpa della crisi corrente, come d’incanto, si è ritrovata sulle spalle dei governi (Baglioni e Delli Gatti, 2011).

La crisi dei debiti sovrani viene innescata da una notizia scioccante proveniente dalla Grecia: dopo le elezioni nell’Ottobre 2009, il nuovo governo annuncia una revisione della stima del disavanzo pubblico pari al 12,7% del PIL - più del doppio rispetto alle stime presentate dal precedente governo, pari al 6%; contestualmente vengono modificati anche i dati relativi al rapporto Debito/PIL.

In realtà quello greco è un caso poco rappresentativo. Infatti in Grecia non sono stati lo scoppio del boom creditizio e immobiliare e i salvataggi bancari ad aver colpito le finanze pubbliche come ad esempio in Spagna e Irlanda; ma è stato soprattutto il governo ad accendere grossi prestiti: durante gli anni di prestito facile, il governo conservatore greco ha contratto molti debiti - più di quanto ammesso dal Patto di Stabilità e Crescita (PSC)3. Quando il governo è cambiato, nel 2009, i trucchi contabili

3 Il Patto di stabilità e crescita (PSC), è un accordo, varato nel giugno 1997 dal Consiglio europeo, più

volte riformato nel periodo 2005-11, infine trasformato nel fiscal compact.

Esso prevedeva dei criteri di convergenza, di natura fiscale, stabiliti nel Trattato di Maastricht per l’ammissione dei singoli Paesi all’unione monetaria:

1.deficit di bilancio pubblico inferiore al 3% del PIL ;

2.debito pubblico inferiore al 60% del PIL, o in costante diminuzione verso questo limite di riferimento. La ragione di ciò risiede nell’obiettivo primario di prevenire l’instabilità monetaria e l’inflazione, viste come il risultato di grandi disavanzi pubblici, con l’idea di base che, non potendo alla lunga finanziare i propri deficit nazionali mediante l’emissione di titoli sul mercato, i governi finiscano con il ricorrere alla banca centrale, spingendola ad aumentare così la quantità di moneta in circolazione.

Furono anche previste sanzioni nei confronti degli Stati membri che non avessero messo in atto le azioni correttive prescritte.

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sono venuti alla luce, e improvvisamente è apparso che la Grecia aveva un deficit e un debito sostanzialmente molto più grandi di quanto non si pensasse, con una conseguente crisi di fiducia da parte degli investitori che hanno cominciato a pretendere rendimenti più alti per comprare titoli del debito greco, aggravando sempre più la situazione.

Nonostante le sue peculiarità la crisi greca innesca sui mercati finanziari, in particolare su quelli dei titoli di Stato, una perdita di fiducia degli investitori nei confronti dei paesi della zona euro più esposti al rischio di default sovrano, Irlanda in primis ma poi anche Portogallo, Spagna e Italia, (ossia i cosiddetti PIIGS4).

Questi avvenimenti hanno avuto come conseguenza l’aumento degli spreads5

dei rendimenti dei titoli dei paesi periferici rispetto ai rendimenti dei titoli tedeschi. Il rischio di default che ne è conseguito ha costretto i paesi in questione a ricorrere a massicci piani di salvataggio.

Per esempio, lo spread annuale sui rendimenti dei titoli di stato a 10 anni tra la Germania e i PIIGS prima della crisi era intorno allo zero.

La figura 1 mostra l’andamento dei rendimenti dei titoli di stato a 10 anni di sette paesi appartenenti all’area (Germania, Francia, Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) da ottobre 2009 a giugno 2012. Si possono distinguere in particolare tre periodi problematici. Primo, a partire dal maggio 2010, quando la Grecia chiede il primo pacchetto di assistenza, il rendimento greco inizia a divergere rispetto al resto del

Tuttavia, le prime applicazioni di quei criteri fecero emergere una serie di problemi e alcuni elementi di debolezza, quali: la natura in qualche misura arbitraria del limite del 3% per i deficit di bilancio; l’asimmetria del PSC, che era vincolante in periodi di congiuntura negativa ma non lo era quando il ciclo risultava favorevole.

L’esplosione della crisi finanziaria ed economica del 2008-09, e la conseguente crisi dell’euro (2010-11), hanno messo ulteriormente a nudo l’inadeguatezza dei meccanismi di sorveglianza del PSC. Nel corso del 2011 è stato così siglato il cosiddetto accordo six-pack con il quale sono state introdotte novità importanti sul piano della prevenzione e della correzione degli squilibri di bilancio nazionali. Nel dicembre 2011, poi, di fronte all’incalzare della crisi dell’euro, è stata siglata una nuova intesa per il rafforzamento della disciplina di bilancio e il coordinamento delle politiche fiscali, il cosiddetto fiscal compact, che ha introdotto vincoli e sanzioni fiscali e di bilancio, in parte nuovi e in parte non dissimili da quelli già adottati con il six-pack. www.treccani.it

4 L’acronimo ‘PIIGS’- Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna- sta ad indicare i Paesi europei che

presentano una precaria condizione dei conti pubblici che, unita ad una scarsa competitività dell'economia nazionale, rendono incerta la capacità di ripagare il debito pubblico accumulato. Gli indicatori a cui si può fare riferimento sono diversi. Tra questi: debito pubblico in rapporto al PIL; deficit pubblico, anch'esso in rapporto al PIL; rendimento dei Titoli di Stato; saldo dei conti con l'estero e indebitamento estero; produttività.

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Il termine spread inteso come credit spread denota il differenziale tra il tasso di rendimento di un'obbligazione e quello di un altro titolo preso a riferimento (benchmark).

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gruppo. Secondo, durante il 2010 e nella prima metà del 2011 i rendimenti portoghesi e irlandesi iniziano a muoversi insieme (l’Irlanda è infatti il secondo paese dopo la Grecia a richiedere un salvataggio, seguita poi dal Portogallo nel maggio 2011). Terzo, anche i rendimenti italiani e spagnoli a partire dalla seconda metà del 2011 iniziano a muoversi insieme, ad un livello intermedio fra i paesi salvati e i paesi core (Francia e Germania). Nel luglio 2011 lo spread di Italia e Spagna rispetto alla Germania cresce a circa 300 punti base. Verso la fine del 2011 inizia ad emergere un chiaro spread anche tra i rendimenti tedeschi e quelli francesi (Lane, 2012).

(Figura 1) Spread sui rendimenti delle obbligazioni sovrane a 10 anni (ottobre 2009-giugno 2012); Fonte: Data from IMF Public Debt Database; Lane (2012).

1.1.1 Il caso Greco

Prima dell’insorgenza della crisi dei mutui subprime del 2007, il governo greco si rivolge ampiamente ai mercati internazionali dei capitali per il sostegno al crescente debito. Tra il 2001 e il 2008, il deficit di bilancio cresce infatti mediamente del 5% all’anno contro una media dell’area euro del 2%. Analogamente il deficit delle partite correnti aumenta mediamente del 9% all’anno contro una media dell’1%.

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Il rapporto entrate uscite nettamente negativo si lega in gran parte all’inefficienza della pubblica amministrazione, alti costi pensionistici e salariali e a un alto livello di evasione fiscale.

La crisi di liquidità che colpisce molti paesi per la crisi dei mutui subprime sembra inizialmente risparmiare la Grecia che supera il momento relativamente bene potendo continuare a godere della fiducia degli investitori internazionali che finanziano il paese tramite l’acquisto di titoli di stato.

Ciò accade fino ad ottobre 2009, quando il nuovo governo socialista di George Papandreou rende noto che il deficit di bilancio nel 2009 avrebbe raggiunto il 12,7% del Pil: più del doppio di quanto previsto dall’amministrazione precedente (MEF, 2009). Gli effetti di tale annuncio si concretizzano nel declassamento dell'affidabilità finanziaria del debito greco da parte delle maggiori agenzie di rating, suscitando forti preoccupazioni circa la possibilità di default.

Inoltre emerge, a giudizio degli osservatori, il rischio di un "contagio" anche per gli altri stati della periferia europea come Portogallo, Spagna e Irlanda.

Questo rischio induce i capi di stato dell’area euro e FMI ad accordarsi, nel Maggio 2010, per un massiccio piano di salvataggio di 110 miliardi di euro di aiuti condizionati in 3 anni, (in particolare 80 miliardi in prestiti bilaterali e 30 miliardi corrisposti dal FMI). Contestualmente la Banca Centrale Europea (BCE) annuncia la decisione di sospendere la soglia minima di rating per il debito pubblico greco usato come garanzia nelle operazioni di rifinanziamento dell’Eurosistema.

Sempre nel maggio 2010, i leader della zona euro annunciano che tutte le istituzioni europee, inclusa la BCE, si sarebbero impegnate per una revisione del quadro europeo di sorveglianza macroeconomica e che avrebbero deciso di utilizzare "l'intera gamma di mezzi disponibili per garantire la stabilità della zona euro". A seguito di tale riunione, i ministri delle finanze annunciano la creazione del Fondo europeo di stabilità finanziaria (FESF)6, con un volume totale di fino a 500 miliardi di euro. Allo stesso tempo, la BCE

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Il Fondo europeo di stabilità finanziaria (FESF), anche detto Fondo salva-stati, è uno strumento costituito dagli Stati membri dell'Eurozona, il 9 maggio 2010 in seguito alla crisi economica del 2008-2010, con il fine di aiutare finanziariamente gli stati membri. Da punto di vista giuridico, si tratta di una società di diritto lussemburghese. Tecnicamente il FESF è una società veicolo SPV (Special Purpose Vehicle) fuori dal bilancio della Banca centrale europea.

Il FESF può emettere obbligazioni o altri strumenti di debito per raccogliere i fondi necessari a:  Fornire prestiti ai paesi della zona euro in difficoltà finanziarie;

 Ricapitalizzare le banche;  Comprare debito sovrano.

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annuncia misure eccezionali, comprese quelle di acquisti di debito sovrano sui mercati secondari (Security market programme, o SMP).

La situazione non sembra migliorare nel 2011, in quanto le agenzie di rating Moody's, Standard & Poor's e Fitch tagliano ulteriormente il rating della Grecia, valutandolo come debito altamente speculativo a rischio di insolvenza, cosa che costringe il governo ad effettuare nuovi tagli per 6,5 miliardi di euro e nuove privatizzazioni al fine di ottenere nuovi prestiti da parte dell'Unione Europea e del FMI. Dopo l'approvazione da parte del parlamento greco di un nuovo piano di austerità che imporrà al paese ellenico tagli per ben 28 miliardi di euro entro il 2015, l'Unione Europea dà il via libera alle ulteriori tranche di aiuti per tutto il 2011.

Il 25 luglio 2011 Moody's taglia il rating greco di altri tre livelli portandolo da Caa1 a Ca, dando per certo il default della nazione; ad inizio 2012 anche l'agenzia Fitch dà per certo il default della Grecia.

Il febbraio 2012 la crisi si accentua ed il default sembra concretizzarsi, in quanto non si trovano accordi tra i partiti politici del paese per attuare nuovi tagli alla spesa pubblica, che garantirebbero un aiuto economico da parte della Troika di 130 miliardi di euro, necessari per rimborsare i bond in scadenza a marzo per quasi 15 miliardi di euro. Il 20 febbraio 2012 i ministri dell’Eurogruppo trovano di fatto un’intesa per un secondo pacchetto di aiuti alla Grecia, che segue il primo piano approvato nel maggio del 2010 e che ha avuto scarso successo.

Tale secondo piano di salvataggio, che di fatto ha rappresentato una “insolvenza mascherata”, prevede: 1) Contributo pubblico, ovvero erogazione di prestiti da parte del

Le emissioni di obbligazioni sono coperte da garanzie fornite dagli Stati membri della zona euro in proporzione alla loro quota di partecipazione al totale del capitale versato alla BCE; le garanzie concesse dagli stati ammontano a 780 miliardi, la capacità di intervento a 440 miliardi di euro.

Il Fondo può agire solo dopo che:

 uno Stato membro della zona euro ha presentato richiesta di aiuto;

 un programma negoziato tra lo Stato richiedente aiuto, la Commissione europea ed il Fondo Monetario Internazionale (FMI) è stato approvato all’unanimità da parte dei membri dell’Eurogruppo (ministri delle finanze della zona euro) ;

un memorandum d'intesa è stato firmato.

Tutto ciò può avvenire soltanto quando il paese è impossibilitato ad ottenere sul mercato prestiti a tassi di interesse accettabili. Il FESF mira infatti ad emettere obbligazioni ad elevato rating al fine di acquisire denaro dal mercato bancario (dalla BCE principalmente) a costi (tassi d'interesse) inferiori a quelli che lo stesso mercato richiederebbe per obbligazioni direttamente emesse da un Paese membro in difficoltà economica.

Dal luglio 2012 è stato sostituito dal Meccanismo europeo di stabilità (MES), con la previsione che l’assistenza finanziaria ai Paesi insolventi sia condizionata alla partecipazione del settore privato (il cosiddetto bail-in), in genere tramite un taglio del credito (haircut) fino al 50%.

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Fondo di stabilità europeo (EFSF) e, in misura minore, dell’FMI, per un totale di 130 miliardi di euro. Parte di questi fondi sono serviti per ricapitalizzare le banche greche. Il contributo pubblico è subordinato alla attuazione del programma di aggiustamento economico e fiscale e del successo della operazione di coinvolgimento del settore privato. 2) Contributo privato, ovvero i creditori privati (banche, fondi, assicurazioni) rinunciano subito al 53,5 per cento del valore nominale dei titoli che detengono in portafoglio. Per il valore restante, i titoli vengono sostituiti in parte (31.5 per cento del nominale) con titoli pubblici greci a lungo termine (scadenza tra 11 e 30 anni) e tasso d’interesse inferiore a quello di mercato (tra il 2 per cento e il 4,3 per cento, a seconda della scadenza del titolo), in parte (15 per cento del nominale) con titoli emessi dallo EFSF. 3) Contributo del Sistema Europeo di Banche Centrali, ovvero i profitti realizzati dal Sebc (Bce e banche centrali nazionali) sui titoli in portafoglio vengono trasferiti, tramite i governi nazionali, alla Grecia.

A fronte di queste concessioni, il governo greco si è impegnato a realizzare un programma di aggiustamento economico e di finanza pubblica. L’accordo ha inoltre previsto che la Commissione Ue instaurasse un monitoraggio permanente, mettendo i propri rappresentanti nei ministeri del governo greco, per controllare che i provvedimenti previsti vengano adottati e messi in pratica. Inoltre, la Troika controlla che i fondi ricevuti con gli aiuti comunitari, oltre ai fondi interni destinati al servizio del debito, vengano versati su di un conto apposito, dedicato al rimborso del debito in scadenza.

Il vero contributo alla stabilizzazione del debito pubblico greco è venuto quindi dal settore privato, perché ha consentito una netta riduzione del debito greco (da qui l’insolvenza mascherata). Il contributo pubblico è avvenuto infatti sotto forma di prestiti: quindi sostituisce debito esistente con altri debiti. Naturalmente ciò non vuol dire che sia inutile: esso serve ad evitare che il governo greco vada sul mercato a finanziarsi ai tassi d’interesse proibitivi prevalenti sul mercato secondario. Il contributo del Sebc è invece in realtà solo un trasferimento dei profitti avendo acquistato titoli greci ad un prezzo ben al di sotto del valore nominale: i titoli detenuti dal Sebc sono stati infatti rimborsati al loro valore pieno7.

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A. Baglioni individua tre elementi di criticità nel piano di salvataggio così strutturato: “l’accordo con i rappresentanti dei creditori privati comporta la soluzione di un classico problema di coordinamento. È chiaro che ciascuna istituzione finanziaria ha un forte incentivo a non aderire al piano: se tutti gli altri vi aderiscono, chi si “chiama fuori” realizza dei bei profitti (la Bce ha dato il buon esempio…). In caso di mancato successo (una adesione inferiore al 90-95 per cento), il governo greco deve applicare

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La situazione si fa ancora più critica in quanto aleggia l'ipotesi che gli investitori retail non siano propensi alla ristrutturazione del debito; alla fine comunque più dell'80% dei creditori privati aderiscono e Atene, anche grazie all’attivazione delle Clausole ad azione collettiva (Cac), riesce a cancellare quasi del tutto i 107 miliardi di debito in scadenza.

Tuttavia le tensioni politiche iniziate nel maggio 2012 inducono l’agenzia Fitch ad un ulteriore declassamento (CCC) del rating a cui è seguita una massiccia corsa agli sportelli.

Verso fine 2012 per ridurre il proprio debito il ministero del tesoro ellenico effettua un'operazione di buy-back8 sul debito stesso, per un valore di 30 miliardi.

La crisi greca è particolarmente importante perché il suo scoppio ha esposto tutti gli Stati europei ad un focus più attento da parte degli investitori, pronti in qualsiasi momento a valutare, tramite i differenziali di rendimento sui titoli di stato, la credibilità e la solvibilità dei singoli Stati, così avviando un processo di contagio che ha coinvolto tutta l’area euro.

1.1.2 Il caso irlandese

forzatamente l’accordo, mediante la applicazione retroattiva di Cac (Clausole di Azione Collettiva, ovvero norme retroattive introdotte dal Parlamento greco per rendere obbligatorio lo scambio anche a chi non ha acconsentito, a condizione che vengano superate alcune soglie legali) ai titoli già in circolazione; anche questa strada però richiede un livello di adesione volontaria non da poco (almeno il 70-75 per cento dei creditori affinché si possa applicare la Cac). Questa strada potrebbe inoltre fare scattare i famosi Cds (Credit Default Swap), aggiungendo un ulteriore elemento di destabilizzazione del mercato dei titoli greci. Questi elementi di fragilità riflettono la contraddizione di fondo del cosiddetto “coinvolgimento del settore privato”: si sta di fatto organizzando una insolvenza senza volerla chiamare con il suo vero nome.Guardando oltre, le maggiori perplessità derivano dal fatto che, nonostante lo stretto monitoraggio della Troika, gli obiettivi di bilancio concordati potrebbero essere disattesi, anche a causa di un peggioramento della congiuntura rispetto alle previsioni alla base del piano stesso. Ciò è alquanto probabile, dato l’impatto recessivo di alcune delle misure imposte (riduzione dei salari e delle pensioni, licenziamenti nel settore pubblico, aumenti di imposte). Siamo quindi destinati ad assistere ancora alle estenuanti trattative che avverranno in prossimità della erogazione di ogni tranche del prestito.”

A. BAGLIONI, Grecia, l’uscita dal tunnel è lontana, <<lavoce.info>>, (2012), febbraio.

Per meglio comprendere il senso delle parole di Baglioni è necessario specificare che se scattano ("trigger") i Cds o credit default swap, cioè derivati di assicurazione contro il rischio di default di un Paese sovrano, vuol dire che se un fondo o un hedge fund hanno comprato bond greci ma allo stesso tempo si sono coperti dal rischio default, è probabile che non aderiranno allo swap ellenico perché a fronte del default possono esercitare i Cds e incassare il risarcimento.

8 Il buy-back (o riacquisto di azioni proprie) è generalmente una 'operazione di acquisto

di azioni proprie da parte di una società per azioni. A seguito della crisi del 2008, le operazioni di buy-back si sono diffuse anche per altri strumenti finanziari, come le obbligazioni, e a soggetti di diritto pubblico, in particolare con il riacquisto di titoli di debito sovrano da parte delle Banche Centrali.

In questi casi, il riacquisto è finalizzato a evitare che all'asta con gli investitori istituzionali restino invendute delle obbligazioni (e coprire le esigenze di liquidità degli Stati); oltre che a collocare i titoli con interessi più bassi: aumentando la domanda (ovvero, arrivando dallo stesso emittente, di ridurre l'offerta).

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L’economia irlandese vive una fase espansiva che si può dividere in due fasi. Dalla fine degli anni ’80 fino alla fine degli anni ’90, grazie al basso costo della manodopera e all’intervento statale si localizzano nel paese imprese industriali di matrice anglofona. A questa prima fase segue la terziarizzazione dell’economia irlandese grazie anche alle agevolazioni fiscali concesse alle imprese straniere, decretando lo sviluppo di un importante industria finanziaria e più in generale di servizi. A partire dal 2001, si registra un’esplosione delle costruzioni immobiliari grazie anche ai bassi tassi d’interesse con i quali è possibile ottenere credito. La maggiore disponibilità economica resa possibile da una economia forte, associata alla continua crescita dei valori immobiliari, danno origine a forti investimenti nel settore edilizio (Colombini e Calabrò, 2009).

Intanto le banche forniscono prestiti senza garanzie del debito, basati sul prezzo degli immobili in continua crescita; la bolla generatasi fa salire il livello di indebitamento privato e i rischi connessi vanno a incorporarsi nei mutui erogati dalle banche.

Dal lato finanziario i bassi tassi d’interesse scatenano un boom dei prezzi delle attività finanziarie e del credito.

L’espansione economica irlandese si esaurisce nel settembre 2008 quando il paese entra in recessione. La crescita del valore degli immobili si arresta e i cittadini non hanno più le risorse monetarie per la restituzione dei mutui contratti con le banche.

Il governo predispone un piano senza precedenti per la salvaguardia della stabilità del proprio sistema bancario garantendo le passività delle sei maggiori banche del paese per scongiurare una crisi finanziaria sistemica e il collasso dell’intero paese.

La garanzia viene estesa a tutte le tipologie di depositi sia corporate, sia retail, ai depositi interbancari, alle obbligazioni garantite e alle passività subordinate. La garanzia risulta essere talmente estesa che si genera una passività potenziale per lo stato irlandese di circa 200 volte il suo PIL. I successivi salvataggi bancari effettuati dal governo irlandese, nazionalizzazione della Anglo Irish, Irish Nationwide ed Ebs, e iniezioni di liquidità alla Allied Irish e alla Bank of Ireland, ( in totale gli istituti di credito hanno richiesto interventi per 50 miliardi di euro, il 28-31% del Pil) 9, fanno innalzare il rapporto deficit/PIL del paese del 32% e il tasso di rendimento dei titoli di stato irlandesi a dieci anni all’8%. Ma il vero problema nel 2009 risulta essere soprattutto il debito privato, pari al 317% del PIL. (European Central Bank, 2010)

9 Il Sole 24 Ore – I numeri della crisi in Irlanda, dalle banche ai conti pubblici, novembre 2010,

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Intanto le autorità europee temendo che ulteriori fallimenti bancari o svalutazioni dei titoli di stato irlandesi e lo spettro di una ristrutturazione del debito, mettessero a rischio quelle banche dell’area euro (principalmente tedesche e inglesi) particolarmente esposte in titoli di stato irlandesi, spingono affinchè il governo irlandese accetti aiuti finanziari. Nonostante le pressioni fatte dalle autorità europee e dal FMI il governo irlandese è in un primo momento restio ad accettare aiuti finanziari; in seguito le forti tensioni registrate sui mercati finanziari e le difficoltà di accesso ai mercati dei capitali a prezzi accettabili costringono anche l’Irlanda a chiedere aiuto.

Il governo di Brian Cowen accetta a fine novembre 2010 un programma di salvataggio fornito da UE e FMI, che comprende sia un prestito di 85 miliardi di euro sia un piano di austerità e di contenimento del deficit che obbliga a severe riduzioni della spesa sociale, tagli degli stipendi pubblici e applicazione di nuove imposte.

Il piano di aiuto viene finanziato per la prima volta tramite lo EFSF - (22,5 miliardi dall'Fmi, 22,5 dalla Ue, 17,5 dalla Facility europea, 17,5 dalla stessa Irlanda).

Il 12 luglio 2011 l'agenzia internazionale di rating Moody's taglia il rating dell'Irlanda a livello "junk" (Ba1), con prospettive negative, nel timore che "al termine del corrente programma di aiuti di Unione europea e Fondo monetario, alla fine del 2013, il Paese abbia bisogno di ulteriori finanziamenti prima di tornare sul mercato. E con la probabilità che una partecipazione del settore privato sia richiesta come precondizione per un sostegno addizionale".

In realtà nel 2012 la Troika afferma che l’attuazione del piano di aggiustamento economico per l’Irlanda è sulla buona strada e ad oggi secondo quanto affermato dal FMI, pur non avendo ancora superato la crisi, il paese non è in recessione.

Inoltre la BCE ha allungato i tempi entro i quali l’Irlanda dovrà ripagare metà del debito contratto permettendo così un risparmio fino a 20 miliardi sulle necessità di rifinanziamento nel corso del prossimo decennio.

Anche per questo motivo S&P ha migliorato da "negativo" a "stabile" l'outlook sul debito di Dublino (il giudizio resta "BBB+", lo stesso dell'Italia), a testimonianza della fiducia nel recupero10.

1.1.3 Il caso portoghese

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Maximilian Cellino, L’Irlanda torna al decennale e paga meno di Italia e Spagna, Il Sole24ore, marzo 2013, www.ilsole24ore.com

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Il Portogallo è la terza vittima della lunga saga della crisi dei debiti sovrani dell'eurozona. Un esito comune ma con cause molto diverse tra loro.

A differenza di Grecia (conti truccati) e Irlanda (crisi bancaria), il problema di Lisbona è la crescita, o meglio la mancata crescita del Pil dovuta all'erosione continua di competitività. Il Portogallo è un paese periferico perché da anni la sua economia è diventata tale non reggendo il passo con l'economia leader del continente, la Germania. Il governo portoghese finanzia per diversi anni la spesa pubblica a tassi molto bassi contando sulla partecipazione all’area euro. L’insorgenza della crisi finanziaria e le successive manifestazioni della crisi del debito sovrano in Grecia e Irlanda conducono i rendimenti richiesti dal mercato sulle obbligazioni portoghesi a livelli assai alti, alimentando incertezze circa la capacità di finanziamento del proprio debito pubblico. Comunque sia l’aumento del deficit pubblico nel 2009 è dovuto ad una riduzione delle entrate piuttosto che ad un considerevole aumento della spesa pubblica (International Monetary Fund, 2010).

Questo induce ad un calo di fiducia generalizzato dei mercati nei confronti del paese, punito per non aver posto in essere riforme strutturali per la crescita economica.

Il calo di fiducia nel paese al tempo stesso alimenta incertezze circa la solidità delle banche portoghesi le quali si trovano in difficoltà nel reperimento delle risorse sul mercato internazionale dei capitali.

L’assenza di sviluppo, combinato ad un gettito fiscale insufficiente, inseriti nel contesto di una crisi di fiducia degli investitori conducono rapidamente il Portogallo ad essere incapace di rifinanziarsi sul mercato e di onorare il debito contratto11.

Dopo aver fatto richiesta ufficiale di aiuti per 80 miliardi di euro, l’Eurogruppo approva il piano di salvataggio del Portogallo, concesso a condizione che il Parlamento approvi il risanamento di bilancio.

Il 5 luglio 2011 anche il Portogallo è colpito dal declassamento di Moody’s con un taglio del rating a lungo termine (dal Baa1 a Ba2) e outlook negativo alla luce - secondo il comunicato ufficiale dell'agenzia - del "crescente rischio che il Portogallo chieda una seconda tranche di finanziamenti internazionali prima che possa tornare sul mercato privato e dell’aumento delle possibilità che venga chiesta come pre-condizione la partecipazione del settore privato".

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Vittorio Da Rold, Tre crisi diverse in Europa: Grecia conti truccati, Irlanda crisi bancaria, Portogallo non competitivo, Il Sole 24 Ore, aprile 2011, www.ilsole24ore.com

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Comunque come per l’Irlanda, anche per il Portogallo nel 2012 la Troika afferma che l’attuazione del programma di aggiustamento economico è sulla buona strada.

Nonostante la situazione sembri migliorata, i fondamentali del paese restano ancora deboli: il debito totale (compreso quello privato) è pari a circa il 400% del PIL, mentre la disoccupazione ammonta al 17,6% del PIL12.

Inoltre con una caduta del 3,2% dell'economia nel 2012, il Portogallo ha registrato la peggiore depressione dal 1975, a causa del rallentamento delle esportazioni e del crollo del consumo privato, secondo i dati diffusi dall'Istituto nazionale di statistica. Gli analisti collegano la caduta del PIL, provocata da quella significativa dei consumi, crollati del 5,6% nel 2013, al severo programma di tagli concordato dal governo di Passos Coelho con l'Unione Europea e il Fondo monetario internazionale in cambio del salvataggio economico13.

Per questa ragione i membri dell’Ecofin hanno aperto la porta alla possibilità che Irlanda e Portogallo possano avere più tempo per rimborsare i prestiti internazionali ricevuti in questi anni; l’obiettivo è quello di allentare i conti pubblici senza mettere a repentaglio i vincoli di bilancio.

1.1.4 Il caso spagnolo

La Spagna sperimenta dagli anni 2000 fino al 2007 una crescita esponenziale del mercato immobiliare ampiamente finanziato da un largo ricorso al credito. I privati, sfruttando il periodo di bassi tassi d’interesse, si rivolgono alle banche per ottenere finanziamenti per acquisto di case e uffici commerciali innescando un processo di surriscaldamento dei prezzi.

Le avvisaglie inflazionistiche del 2006 inducono la BCE ad una politica monetaria restrittiva che si riversa sull’enorme mole di mutui a tasso variabile erogati dalle banche. Il crollo della domanda produce lo scoppio della bolla immobiliare e il motore dell’economia spagnola entra in crisi. Il tasso di disoccupazione sale a livelli preoccupanti passando dal 2008 al 2010 dal 10% al 20% (Bank for International Settlement, 2010).

Le banche spagnole sperimentano un forte aumento del tasso sulle sofferenze, e, in particolare, le prime ad entrare in crisi sono le cajas, vale a dire le casse di risparmio, in

12

Morya Longo, Per Spagna e Portogallo contagio al contrario, Il Sole 24 Ore, marzo 2013,

www.ilsole24ore.com

13 ILSOLE24ORE(2013), Portogallo, nel 2012 l’austerity porta alla peggiore recessione, marzo,

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quanto oltre il 65% dei mutui accesi nella penisola iberica sono iscritti nei loro bilanci (Banco de Espana, 2009).

A poco serve il Fondo de Reestructuracion Ordenada Bancaria (FROB) che, dotato di un capitale di 90 miliardi di euro, ha come obiettivo il rafforzamento delle cajas mediante un processo di fusioni. L’intervento governativo non è tuttavia sufficiente dal momento che l’ammontare dei crediti deteriorati è maggiore di quanto inizialmente stimato e quindi sia le cajas sia i colossi di credito spagnolo sono costretti a notevoli rettifiche di valore del portafoglio prestiti.

Gli interventi del governo spagnolo volti alla salvaguardia del sistema bancario producono a loro volta il deterioramento delle finanze pubbliche a seguito dell’insorgenza della crisi greca, irlandese e portoghese, l’attenzione dei mercati internazionali si rivolge anche alla solidità dei conti pubblici spagnoli.

La contrazione delle entrate provenienti dall’EU, la crescita degli spreads dei rendimenti delle obbligazioni spagnole su quelle tedesche e le misure adottate per l’economia nel 2009 producono un aumento del debito pubblico al 67% del PIL nel 2009 rispetto al 36,4% del 2007. Anche il debito di famiglie e imprese aumenta notevolmente (117% del PIL), mentre la disoccupazione raggiunge nel 2010 livelli storici.

Il 2011 è segnato dall’ulteriore aumento del debito pubblico e della disoccupazione, che raggiunge nel primo trimestre del 2012 livelli record (24,44% della popolazione attiva); disoccupazione imputabile oltre alla recessione, anche all'impatto delle drastiche misure di taglio della spesa pubblica avviate per ridurre il deficit, imposte da Bruxelles 14. Dal secondo trimestre del 2012 vengono però alla luce gli effetti perversi del crollo del settore immobiliare sul settore finanziario, dopo dieci anni di bolla speculativa: i prezzi dei terreni e delle costruzioni si sono dimezzati e le banche che avevano accumulato una esposizione sul mattone superiore a 320 miliardi di euro, circa un terzo del PIL nazionale, si sono ritrovate in bilancio, secondo le stime ufficiali di quel periodo, asset dubbi per oltre 180 milioni di euro.

La goccia che fa traboccare il vaso è il collasso di Bankia: nata nel 2010 dalla fusione di sette casse di risparmio in difficoltà diventa la quarta banca del paese per attivo. Dietro l’immagine di forza si celano però asset dubbi, perdite sempre più certe sui prestiti concessi alle società di costruzione oltre che alle famiglie iberiche. Nel luglio del 2011

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ANSAmed, Spagna: disoccupazione record primo trimestre a quota 24,4%, 27 aprile 2012, ansamed.ansa.it

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il 48% di Bankia viene quotato alla borsa di Madrid: riesce però a reggere solo per qualche mese, poi avviene il tracollo che fa perdere al titolo il 75% del suo valore15. Dal collasso di Bankia, e la sua nazionalizzazione in poi, la Spagna vede bloccarsi l’accesso al mercato così da essere costretta a chiedere aiuto all’Europa per salvare e ricapitalizzare il settore bancario e prosciugare la bolla immobiliare, nel quadro di un piano di 100 miliardi di euro accordato il 9 giugno 2012.

Il 14 giugno 2012 l’agenzia Moody’s taglia il rating della Spagna di tre gradini (da A3 a Baa3); la decisione è dettata da diversi fattori, tra cui la decisione del governo spagnolo di chiedere 100 miliardi di euro di prestito, che aumenterà il debito pubblico del Paese, la debolezza finanziaria del paese e le scarse prospettive di crescita.

A questo segue per tutto il 2012 l’aumento del rendimento sui titoli di stato a dieci anni, portando la Spagna sull’orlo del default, l’aumento del differenziale tra bonos spagnoli e bund tedeschi che nel luglio 2012 raggiunge i 638 punti base, e l’aumento del debito pubblico, che raggiunge il massimo storico nel dicembre 2012. Per non parlare della disoccupazione in costante crescita.

Nel 2013 la situazione resta preoccupante. Nonostante la rimonta sui mercati dei titoli di stato i fondamentali del paese restano deboli: la vulnerabilità maggiore della Spagna va cercata nelle banche e nelle regioni: il Governo ha speso (o impegnato attraverso garanzie) circa 100 miliardi di euro per salvare gli istituti di credito, le Regioni e per aiutare le utilities. Questo sforzo, unito agli sforamenti nei conti delle regioni iberiche, ha mandato in tilt i conti pubblici del Paese, che hanno registrato un deficit del 9,99% (sarebbe 6,75% escludendo i salvataggi bancari) e un debito pubblico che rispetto al 2009 è quasi raddoppiato (era al 61,5% a fine 2010, ha chiuso all'86% il 2012 ed è stimato dalla Commmissione Ue al 92,7% a fine 2013). Ma quello che pesa più sulla Spagna è l’indebitamento generale; l’esposizione delle famiglie sui mutui è pari al 60% del PIL, per questo il crollo del prezzo delle case iberiche ha messo in ginocchio famiglie, banche e in ultima istanza lo Stato.

Nonostante questo la percezione degli economisti è che la Spagna stia per stabilizzarsi sul fronte dell’economia e dei conti pubblici, seppur lentamente16

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Un aspetto importante della crisi spagnola e del suo piano di salvataggio è l’istituzione di una bad bank17. Con il piano di ricapitalizzazione del settore, finanziato con 37

15

Luca Veronese, Bankia e la responsabilità dell’IPO, Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2012,

www.ilsole24ore.com

16 Morya Longo, Italia batte Spagna (solo) in economia, Il Sole 24 Ore, 5 marzo 2013,

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miliardi di euro del Fondo Salva Stati, la Spagna ha creato il cosiddetto "Banco Malo". Una bad bank a capitale misto pubblico-privato, che ha il compito di rilevare le sofferenze immobiliari. Cioè gli asset a rischio la cui esplosione per effetto della crisi del mattone ha messo in ginocchio lo Stato spagnolo. I primi risultati di questa operazione si sono manifestati quando la Banca di Spagna ha comunicato che, a dicembre 2012, grazie al "Banco malo" i crediti inesigibili del settore si sono ridotti di 24 miliardi per la prima volta da due anni. Questo ha portato alcuni addetti ai lavori a preferire le banche spagnole a quelle italiane. In Italia infatti è successo il processo opposto. La situazione critica dei conti pubblici e l'impennata dello spread hanno alimentato la recessione che a sua volta ha fatto aumentare a dismisura le sofferenze, passate in un anno da 107 a 125 miliardi di euro. L'ipotesi di risolvere il problema della qualità del credito con una bad bank sul modello spagnolo si scontra però con il problema dei conti pubblici. Per non parlare della necessità di forte ruolo della politica che, allo stato attuale, è quanto mai aleatorio18.

1.1.5 Il caso italiano

La crisi del debito italiano è stata scatenata da tre ragioni combinate: l’enorme debito pubblico, la scarsa o assente crescita economica, la scarsa credibilità dei governi e del sistema politico (Sienna, 2011). La crisi ha raggiunto la sua fase più acuta a partire dal 2011, ovvero dopo le difficoltà riscontrate da Grecia, Irlanda e Portogallo. Nell’agosto 2011 si verificano ripetuti ampliamenti “a strappo” dei titoli di stato italiani (e spagnoli) rispetto ai bund tedeschi. Gli investitori mettono a nudo le criticità nella gestione del

17 In pratica si tratta di una società di asset management la cui finalità è quella di raccogliere crediti in

stato di insolvenza delle banche spagnole che hanno ottenuto sostegno attraverso capitali pubblici, per poi gestire queste attività, allo scopo di massimizzarne il ritorno economico, nell’arco di quindici anni. Questa bad bank ha preso il nome di Sareb ( Sociedad de Gestión de Activos procedentes de la Reestructuración Bancaria). Il primo obiettivo di Sareb è rimuovere velocemente i crediti in stato di insolvenza, soprattutto legati al mercato immobiliare, dai bilanci delle banche che hanno già ricevuto aiuti pubblici: Bfa-Bankia, Catalunya Banc, Novagalicia Banco e Banco de Valencia. A dicembre del 2012 queste banche hanno trasferito a Sareb impieghi bancari per un controvalore di 54 miliardi di euro. Il prezzo di trasferimento delle attività a Sareb è determinato dalla Banca di Spagna sulla base di una stima del valore di mercato, a cui poi è applicato uno sconto (haircut). A fronte delle attività trasferite, Sareb emette dei titoli di debito, costruiti in modo da rispecchiare i requisiti per essere accettati come collaterale dalla Bce, che vengono garantiti dallo Stato spagnolo e sottoscritti dalle banche che hanno trasferito i crediti in sofferenza.

Uno dei vincoli imposti è che la quota di partecipazione pubblica al capitale di Sareb non possa eccedere il 50%. È perciò previsto che possano entrare nel capitale investitori privati nella forma di banche, che non abbiano trasferito crediti deteriorati, assicurazioni e ogni altro investitore, cosicché a metà dicembre 2012 il capitale di Sareb era per il 52% in mano a banche private (Santander, Caixabank, Banco Sabadell, Popular, Kutxabank). Ad attirare gli investitori privati dovrebbero contribuire le prospettive di redditività: il Roe annuo stimato dalla Banca di Spagna per Sareb è pari a circa il 14 per cento.

18 Andrea Franceschi, I bancari bruciano 4,5 miliardi in 5 sedute, Il Sole 24 Ore, 5 marzo 2013,

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