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abriel Tarde racconta di come il giornalista Hugues Le Roux, a pranzo con un gruppo di anarchici parigini, fosse rimasto colpito dalla distanza che divideva questi uomini, tutti lavoratori con una cultura al di sopra della media, dalle celebri fotografie antropometriche del criminologo Alphonse Bertillon, di-vulgatrici di una rappresentazione del sovversivo plasmata dalla fe-rocia, dall’alcoolismo, dall’asimmetria facciale (Tarde, 1901, 220). Il pranzo di Le Roux suggerisce metaforicamente una metodolo-gia di osservazione empirica (l’incontro diretto con gli uomini della folla) solo parzialmente accolta da quegli studiosi (non sol-tanto lo stesso Tarde ma anche Sighele, Le Bon, Park, Pasquale Rossi e molti altri) che a cavallo tra Ottocento e Novecento ela-borano riflessioni (e rappresentazioni) sui comportamenti collet-tivi. Proprio in quegli stessi anni, il cinematografo sta per imporsi sulla scena pubblica e nel nascente complesso massmediale del Novecento come uno degli elementi chiave della cultura moderna (Casetti, 2005): il nuovo medium prospetta, in breve tempo, una potenza d’impatto sul tessuto sociale capace di arricchire eA
pranzo con gli anarchici301
riarticolare il rapporto di continuità/innovazione che stava infor-mando i cambiamenti tecnologici, comunicativi e culturali av-viati nel secolo precedente.
La formazione di un pubblico specifico sempre più esteso e fide-lizzato, in particolare, non rappresenta soltanto un passaggio decisivo per la trasformazione del cinema stesso in «istituzione» (Mosconi, 2006), ma è anche un processo che dialoga «orizzon-talmente» con altri spazi mediatici, integrando elementi di forte e innovativa diversità con esperienze comunicative e spettacolari coeve o storicamente già attestate (Gaudreault, 2004). Conte-stualmente a questo processo materiale, il pubblico cinematogra-fico delle origini, proprio come le folle (e gli anarchici...), diventa subito oggetto di rappresentazione, in un percorso plurale di ri-flessioni che lo costruisce come categoria «pensabile» e «assimila-bile» dalle istituzioni e dal pubblico stesso (o almeno da una par-te di esso).
La nascita di un pubblico cinematografico e il conseguente dif-fondersi di queste percezioni sociali dell’immagine del nuovo medium sono quindi fenomeni che non possono essere interamen-te compresi se collocati soltanto all’ininteramen-terno di una specifica sto-riografia del cinema: questo contributo nasce dalla convinzione che l’indagine sui processi «originari» di costruzione di una nuo-va esperienza massmediale, così come lo studio delle rappresenta-zioni socio-culturali che contestualmente provarono a interpretare (e spesso, come si vedrà, a disciplinare) questa stessa esperienza, possano offrire un contributo importante anche alla storiografia dei media, proprio perché si focalizzano, come si cercherà di di-mostrare nelle prossime pagine, sulla genesi di un processo epoca-le, specifico ma al tempo stesso esemplare, di gestione del cam-biamento del sistema massmediale e di contatto (variamente traumatico) con un «nuovo» a volte autentico e altre volte sol-tanto presunto o enfatizzato.
L’indagine sui fenomeni sociali di ricezione sono tuttavia proble-matiche, perché le fonti documentarie sull’identità empirica (e non discorsivo-teorica) degli spettatori sono esigue e incoerenti, con il rischio di condannare lo studio del pubblico delle origini a un destino chimerico (Kessler, 2000).
In Italia, in particolare, mancano, più che in altri paesi come gli Stati Uniti e la Germania (sociologicamente più sensibili al nuo-vo medium), inchieste d’epoca sul pubblico: un’eccezione parziale ma importante è data dall’ampia ricerca socio-demografica che il medico progressista Domenico Orano conduce, nel 1908, nel quar-tiere operaio romano del Testaccio. Pierre Sorlin ha recentemente contestato il luogo comune storiografico che il cinematografo sia stato in Italia, nei primi tempi, un divertimento per le classi popo-lari e disdegnato dal pubblico colto e borghese (Sorlin, 2009, 30-31). L’obiezione di Sorlin da un lato è condivisibile: gli operai ita-liani, nei primi anni del ’900, avevano orari di lavoro così pesanti da rendere poco plausibile un investimento significativo del loro tempo libero nel cinema. Dall’altro lato, l’indagine di Orano di-mostra come in certi settori della classe operaia si stesse consolidan-do, proprio nel primo decennio del nuovo secolo, il consumo cine-matografico. «Il cinematografo è entrato nell’usanza popolare», osserva infatti Orano. «È incredibile il fascino della pellicola cine-matografica, sia sopra l’operaio della sonante officina che sul con-tadino analfabeta (...). Una famiglia mi confessò candidamente che sei soldi alla settimana li metteva da parte per il cinemato-grafo. Un’altra, più larga nel fissare le spese di lusso, aveva stabilito per lo stesso scopo due lire al mese» (Orano, 1912, 673, 675). La carenza di indizi diretti stimola la storiografia a orientarsi su territori più «archeo-teorici», guardando alle fonti discorsive del-l’epoca (stampa di settore, riviste culturali, scientifiche e religiose, quotidiani, narrativa, fonti legislative ecc.) che concorsero a dif-fondere certe immagini del pubblico, non provando quasi mai a «invitare a pranzo» gli spettatori che riempiono le sale, e prefe-rendo invece la diffusione di «fotografie» scattate a distanza, spesso decisamente ritoccate.
Per restare al caso italiano, oggetto specifico di questo intervento, i discorsi sul pubblico sono prodotti soprattutto dalla Chiesa (Alovisio, Casetti, 2007) e dalla sfera pubblica borghese, animata da esponenti politici ma soprattutto dalla letteratura giuridica, pedagogica e scientifica, di matrice quasi sempre positivista. La popolarità del cinema è per queste voci un fattore di criticità che va non soltanto biasimato quanto descritto e problematizzato.
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In alcune riflessioni sul nascente pubblico cinematografico si ri-trova il fortunato nesso letterario tra folla e vita urbana, appro-fondito nei già ricordati studi di sociologia e psicologia collettiva. Nelle valutazioni di Orano, i problemi degli operai nascono dalle tentazioni che la città offre loro (non solo il cinema, ma anche l’osteria, il lotto, il teatro, il bordello ecc.), gravando sui già mi-seri bilanci delle famiglie. L’immagine della grande città tentatri-ce e iper-stimolante come causa di disagio sembra debitritentatri-ce delle tesi di Max Nordau o di Tarde: secondo quest’ultimo, in partico-lare, le caotiche variazioni e le sempre più distraenti novità della vita urbana eserciteranno un’azione quasi magnetica sugli agglo-merati spontanei che prendono corpo nelle città moderne, ren-dendo le folle metropolitane al tempo stesso sovraeccitate e suc-cubi (Tarde, 1901, 259). In estrema sintesi, per riprendere una distinzione che a cavallo tra Ottocento e Novecento ebbe parti-colare fortuna, l’uomo «nella» folla, il, «flâneur», tende sempre di più a trasformarsi nell’uomo «della» folla, il «badaud». Sembra essere proprio questo il destino dell’annoiato Gastone Fedi, protagonista di Al cinematografo, il primo romanzo italiano di argomento cinematografico. Mentre passeggia per la città in-terrogandosi su come occupare la serata, Fedi è risucchiato dalla folla dei marciapiedi, descritta dall’autore con accenti che evoca-no le moltitudini acefale e quasi demoniache di Le Bon: «La fiu-mana vivente (...) raccoglieva tutti gli affluenti delle vie laterali; affluenti torbidi di una vorticosa corrente, fosca viepiù. E, alle spalle, un’altra fiumana, non meno impetuosa e larga, seguiva il suo fatale andare. E la bolgia, il girone d’inferno, l’antro di Caco, la discesa ad inferos già si annunziava: coll’aumentarsi dei gorghi e delle onde del Maelstrom umano, coi suoi mille rumori, e colle seleniche luci delle centinaia di colossali lampade elettriche (...) Gastone Fedi si sentiva urtato, sospinto verso il fine ultimo, in-contro al quale, eziandio, andava col lento piede dell’incosciente» (Fabbri, 1994, 11). Proprio quando la volontà di Fedi sembra abdicare all’indifferenziato della massa, per ridursi – tardiana-mente – all’imitazione inconsapevole dei movimenti vorticosi della folla, il suo sguardo si ferma sull’insegna di un cinemato-grafo. Grazie all’imprevista emersione di questa soglia, insieme
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ia dalla pazza follafisica e simbolica, Fedi si scolla dalla fiumana infernale, recupe-rando la sua individualità. Il pubblico cinematografico, sembra dirci l’autore, nasce dalla folla urbana ma poi se ne distingue. Oltre l’insegna luminosa si apre uno spazio che canalizza la fiu-mana collettiva e in cui sembra prossima a ri-atomizzarsi nei suoi elementi costituivi, gli individui.
Fabbri è un piccolo intellettuale di settore che lavora attivamente per fondare un modello ideale del «buon spettatore» che rassicuri il pubblico borghese ancora restio ad affollare i cinematografi. È naturale, quindi, che il suo cinematografo sia frequentato da «persone dabbene in cerca di onesto divertimento» (Fabbri, 1994, 62-63). Se per la psicologia della folla la moltitudine abbassava il livello inibitorio delle personalità più elevate, nel pubblico immaginato da Fabbri accade il contrario: la contaminazione sociale tipica del cinema delle origini rafforza l’etichetta: «Una tra le tante virtù dell’ambiente cinematografico», scrive infatti Fabbri, «si è, appunto, di sopprimere il turpiloquio, l’intercalare triviale ed il gesto osceni in chi abitualmente vi si abbandona (...). Il contatto prossimo e alquanto prolungato con persone edu-cate, sì di medio che di alto ceto, e di sesso prevalentemente gen-tile, impone e opera la moderazione e la convenienza» (Fabbri, 1994, 20).
Al di là di questa idealizzazione, tuttavia, ciò che colpisce, nella visione del pubblico di Fabbri, è l’attenzione alle relazioni tra gli spettatori. Le immagini non sono soltanto viste ma discusse e commentate. Il corpo dello spettatore, per parafrasare un’illumi-nante definizione dell’esperienza immaginativa proposta di George Herbert Mead recentemente ridiscussa da Ortoleva, cerca di «adattarsi» (Mead usa l’espressione «adjustment») a un ambiente che «is not there» (Ortoleva, in corso di stampa). Nello stesso tempo, egli occupa una posizione da «questa» parte dello scher-mo, in uno spazio predisposto, malgrado il buio (o grazie ad esso) alle relazioni reciproche.
Anche in altre fonti d’epoca l’andare al cinema è rappresentato come un’affollata performance interclassista, dove fare esperienza della diversità. L’oscurità delle proiezioni può addirittura
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l cinema insieme: un modello orizzontale305
sentare un’opportunità di emancipazione, soprattutto per le ne. Il giornalista Emilio Scaglione rileva come al cinema la don-na possa emanciparsi dalla tutela del padre o del consorte, libera di scegliere se rendersi disponibile all’interazione con gli altri spettatori. Scaglione valuta quindi in termini positivi la promi-scuità sessuale della visione comune: «Due che non avrebbero mai potuto varcare i dieci metri che dal balcone alla via s’interpolavano tra i loro desideri, si sentono ora a pochi millime-tri, tanto pochi che è persino possibile scambiarsi reciprocamente, e per un’oretta, il calore d’un ginocchio e di un gomito» (Scaglio-ne, 1916, 14).
Da queste ultime parole si intuisce come le relazioni tra gli spet-tatori mettano in gioco non tanto la vista, attratta dallo schermo, quanto gli altri sensi. In una descrizione del regista Gino Zacca-ria, per esempio, la sala cinematografica è un crogiolo di voci, rumori, esclamazioni, sbadigli: «c’è il meccanico che dà ad alta voce consigli all’operatore, il cachettista che indica sé stesso agli amici (...), la signorina aristocratica che fa appunti sulle mode e sulla etichetta dei salotti (...), lo storico che chiacchiera sui co-stumi (...) il musicomane che canterella sui motivi dell’orchestra» (Zaccaria, 1913, 10).
Queste e altre immagini del pubblico affermano una verità che oggi ci pare scontata: vedere un film insieme non è la stessa cosa che vederlo da soli. La fruizione collettiva era in realtà una varia-bile che le scienze sociali guardavano con una certa preoccupa-zione. Come osserva il penalista Enrico Ferri, noto criminologo ma anche autorevole leader del movimento socialista, «la collet-tività rende più intensa ogni manifestazione psichica» (Ferri, 1894). «L’intensità di un’emozione», precisa il suo allievo Sighe-le, «cresce in proporzione diretta del numero delle persone che risentono quell’emozione nello stesso luogo e contemporaneamen-te» (Sighele, 1999, 124).
Di questa esperienza collettiva la maggior parte delle fonti ana-lizzate mette quindi in rilievo i rischi. La concentrazione in luo-ghi chiusi implica problemi di sicurezza e di igiene (alla cui soluzione lo Stato inizia a provvedere già dal 1908); la già ri-cordata promiscuità sessuale è percepita come una condizione
che stimola azioni pulsionali (dal pizzicotto all’adulterio), al punto che «Civiltà Cattolica» invoca la separazione del pub-blico maschile da quello femminile («Cinematografo e moralità pubblica», 1914); la presenza di minorenni vanifica la tutela morale sulle fasce deboli (ma le proposte di avviare una speci-fica produzione di film per ragazzi non si tradurranno mai in reazioni concrete).
Il modello relazionale implicito nelle rappresentazioni del pubbli-co appena citate è attento in prevalenza alla dimensione «oriz-zontale» dell’esperienza cinematografica, ossia alle relazioni tra gli spettatori. Il modello che tuttavia conosce maggiore fortuna nelle categorizzazioni del pubblico nel primo Novecento è invece improntato a una visione delle relazioni all’interno della sala ci-nematografica di tipo «verticale», dall’alto in basso, dove l’«alto» identifica le immagini cinematografiche e il «basso» coincide con il singolo spettatore incantato dallo spettacolo, posto in una con-dizione di isolamento che era stata già evidenziata da Rousseau in relazione al teatro (Ortoleva, in corso di stampa).
La matrice di questo modello deriva dalla letteratura su ipnosi, suggestione collettiva, psicosi epidemiche e imitazione involonta-ria. In molti testi sul pubblico cinematografico si riprende l’im-magine, tipica del materialismo scientifico sette-ottocentesco (Eu-geni, 2002; Violi, 2004), del sistema nervoso come macchina elettrofisiologica, perturbabile da stimoli esterni senza la media-zione dei processi logici. Per alcuni osservatori questa dinamica è una forma ordinaria delle relazioni sociali: Pasquale Rossi, socio-logo di orientamento socialista, vede per esempio nel cinema un mezzo capace di diffondere a distanza «scariche simpatetiche» artificiali, grazie alle «quali noi viviamo del mondo affettivo al-trui». Il cinema è una sorta di «broadcaster» di «onde nervose» emozionali capaci di unire le «psichi individuali (nella) psiche collettiva», generando nel pubblico «momenti di maggiore o di minore entusiasmo e commozione» (Rossi, 1899, 11, 23). Il mo-dello di Rossi è improntato a una sorta di «verticalità morbida»: le immagini propongono un’esperienza artificiale, intensa ma li-mitata nello spazio e nel tempo, che non annulla le identità dei
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o spettatore sotto ipnosi: un modello verticale307
singoli, ma le unisce attraverso processi emotivi di identificazione collettiva, dall’efficacia incostante.
Altri studiosi si collocano su questo versante, sostenendo che nel-la renel-lazione «verticale» nel-la risposta dello spettatore allo stimolo non sia interamente passiva. Lo psicologo sperimentale di forma-zione wundtiana Mario Ponzo, in uno dei primi studi internazio-nali dedicati alla psicologia della percezione filmica, osserva come l’egemonia della vista nell’esperienza cinematografica faccia si che la localizzazione di altre impressioni sensoriali simultanee (un odore, un suono ecc.) indotte da stimoli ambientali interni alla sala o dalla memoria sia attribuita erroneamente dallo spettatore al mondo che prende forma sullo schermo. Le immagini attivano quindi processi di integrazione dei sensi che esigono l’attiva coo-perazione dello spettatore: si afferma quindi la convinzione, poi sviluppata dalla teoria filmologica del secondo dopoguerra, che lo spettatore sia in grado di «realizzare» l’immagine più di quanto questa gli offra in termini di indizi di realtà (Ponzo, 1911). In altri testi sul pubblico, il dispotismo dell’immaginazione po-stulato da quasi tutte le teorie psicosociali dell’epoca non liquida la personalità dello spettatore ma propone dinamiche di parteci-pazione psichica. Il giornalista Riccardo Artuffo, per esempio, descrive la situazione di una spettatrice davanti a una scena di adulterio come un’oscillazione tra realtà e irrealtà che non si ri-solve mai nell’illusione totale (come aveva sostenuto anche Le Bon, riferendosi al pubblico teatrale): l’adulterio funziona per la spettatrice come una compensazione immaginaria, perché con-sente alla donna di «“froler” la colpa senza cascarci; di assapora-re il frutto proibito senza farsi male ai denti; di godersi lo spetta-colo dell’Inferno, rimanendo sulla soglia del Paradiso» (Artuffo, 1918, 80). Artuffo chiama in causa, di fatto, l’esistenza di «una forma di “transfert”, una corrente psichica che lega chi sta seduto in poltrona a un universo “altro”, quello della scena» (Ortoleva,
in corso di stampa).
Va detto, tuttavia, che la «verticalità morbida» di Rossi, lo spet-tatore collaborativo di Ponzo, o la spettatrice disponibile al tran-sfert di Artuffo rappresentano forme minoritarie di categorizzazio-ne del pubblico italiano del primo Novecento. Ben più egemonica
e durevole, nel quadro dei modelli «orizzontali», è invece l’im-magine dello spettatore passivo, quasi una prefigurazione del-l’audience postulata dalla «bullet theory»: lo spettatore, si legge ancora nel 1928, «accetta quello che gli si offre, passivamente, senza chiedere il bello ed il buono che gli si lesina, senza reagire contro il brutto che gli vien dato a piene mani» (Milani, 1928, 169-170). Va precisato che questa immagine dello spettatore ip-notizzato non investe un pubblico genericamente inteso ma alcu-ne sue categorizzazioni sociali e di gealcu-nere. È molto raro che i discorsi della sfera pubblica borghese italiana sostengano l’univer-salità psicologica delle dinamiche di ipno-suggestione, sulla scia di quanto aveva invece sostenuto Bernheim: in essi prevale piut-tosto un’interpretazione neuropatologica della suggestione, più vicina quindi alle tesi di Charcot.
Quali sono queste categorie a rischio di patologie percettive? «È noto», scrive Sighele, «che le donne, i bambini e anche i giovani sono assai più facilmente suggestionabili degli uomini adulti» (Sighele, 1985, 120). Al pubblico femminile e infantile, lo psi-chiatra Giuseppe D’Abundo aggiunge le «menti ignoranti, o poco evolute, o nevropatiche»: il cinema, egli sostiene, è una macchina che produce «quadri allucinatori belli e formati», resi possibili dal fatto che l’immagine cinematografica, così simile alla realtà, nasconde il suo «meccanismo di produzione» (D’Abundo, 1911, 441).
Masini e Vidoni, due psichiatri dell’Università di Genova, allarga-no queste categorizzazioni a una prospettiva crimiallarga-nologica. Se-condo loro il cinema eserciterebbe un’influenza criminogena so-prattutto su due tipologie di spettatore: i soggetti «dotati di una mentalità inferiore (...), frequentatori assidui del cinematografo» (Masini, Vidoni, 1915, 4), con una patologia latente che il cine-ma risveglierebbe, e i delinquenti nati, che vanno al cinecine-ma per trovare idee da imitare. Il tema del cinematografo come «politec-nico del delitto», variante aggiornata di un’accusa che per secoli aveva colpito il teatro (e poi, in tempi più recenti, la letteratura popolare) attraversa quasi un ventennio di riflessioni sul pubbli-co, arrivando persino a ispirare i contenuti normativi della Cen-sura cinematografica, introdotta da Giolitti nel 1913.
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Rispetto alla suggestione collettiva descritta dalla nascente psico-logia sociale, la suggestione cinematografica ha tempi di reazione un po’ diversi. Se l’uomo della folla passa «dall’idea all’atto con una celerità spaventevole» (Sighele, 1985, 81), quasi tutte le ri-flessioni italiane sul pubblico delle origini ritengono, come scrive Pasquale Rossi, che «ciò che una volta è comparso insieme nel campo della psiche, tende a ridestarvisi» (Rossi, 1899, 22). Se-condo D’Abundo, per esempio, l’immagine cinematografica «esplica silenziosamente la sua influenza», attraverso la riemersio-ne involontaria di «dettagli» mriemersio-nestici slegati dal contesto del film (D’Abundo, 1911, 441). Una convinzione analoga è espressa da Ponzo: egli osserva come dopo la visione il film continui ad esi-stere nella mente dello spettatore con «un nuovo ordinamento», costituito dalle «tracce sconnesse di molteplici rappresentazioni (...) che vanno continuamente trasmutantesi e variamente rag-gruppantesi» (Ponzo, 1919, 91). Le tracce del film producono nella memoria dello spettatore esperienze artificiali, si associano al ricordo di avvenimenti reali, in una fusione tra realtà e imma-ginario simile alle allucinazioni retroattive descritte nella lettera-tura ottocentesca sull’ipnosi.
L’immagine cinematografica, per riprendere una distinzione di Dubois (2004), appare espressione non tanto di un «potere» mo-bilitante quanto di una «potenza» incontrollabile. Se i contenuti semantici e narrativi dell’immagine, debitamente programmati e regolati, sono gli elementi che fanno di un film una «machine de pouvoir», la «puissance» dell’immagine cinematografica delle origini si esprime invece attraverso lo shock del frammento inten-sivo e sensibile, non comunicando significazioni complesse ma sensazioni immediate e performanti.
I discorsi sul pubblico cinematografico delle origini mettono in evidenza più di una contraddizione. Da un lato il cinema si pre-senta come una delle espressioni più avanzate della modernità tecnologica e comunicativa (indizio di artificialità e di