di Peppino Ortoleva
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uando uscì in Italia il libro più celebre di Marshall McLuhan, nel 1967, subì una «correzione» già nel titolo:Understanding Media diventò «Gli strumenti del comunicare».
Gran parte degli italiani, anche di buona cultura, semplicemente non sapevano che significato dare alla parola «medium» al di fuori delle sedute spiritiche. In ogni caso anche nel mondo anglo-americano in cui il canadese McLuhan prima che altrove ascese allo status di «profeta dei media» la tesi sintetizzata dalla frase «Il medium è il messaggio», che sot-tolineava la capacità dei mezzi di comunicazione in quanto tali di dare un senso alle relazioni so-ciali e di muovere la storia, appa-riva, e avrebbe continuato ad ap-parire per un po’, insieme esoterica ed estrema: oggetto di critiche e prese di distanze anche, forse so-prattutto, da parte della comunità
Questo intervento, scritto appositamente per «Problemi dell’informazione», in qualche punto riprende e ripensa miei interventi degli ultimi anni su temi connessi, apparsi in diverse sedi. Li citerò qui nel loro insieme, ringraziando gli amici curatori delle riviste o volumi collettivi su cui sono stati pubblicati in origine: La rete è il messaggio? Connessioni tra il web e le rivolte sociali, in «Alternative per il socialismo», 16, aprile-maggio 2011; Lo spessore dei media, in «YOD», 1, 2009.
accademica degli studiosi di comunicazione. Nei decenni succes-sivi, e soprattutto a partire dalla metà degli anni Ottanta, quella che allora era una (importante e feconda) provocazione intellet-tuale è diventata un luogo comune. Era uno slogan, quasi una chiamata alle armi; ora suona quasi come un mantra.
La tendenza a riconoscere ai media, in particolare agli sviluppi più recenti delle tecnologie della comunicazione, un ruolo di agente di storia se non di vero e proprio motore tout court delle vicende umane, ad attribuire loro uno status paragonabile a quello che un tempo veniva riconosciuto solo alle grandi istitu-zioni, politiche e religiose, si è ormai imposta nel senso comune giornalistico: formule come «sono i media che...» e annunci di rivoluzioni della comunicazione che inesorabilmente cambieranno i nostri modi di pensare, di vivere, e anche di amare o di viaggia-re sono ormai ripetute fino a diventaviaggia-re generiche e stucchevoli. Anche nel campo della ricerca il ruolo riconosciuto ai media è cresciuto negli ultimi trent’anni fino, da un lato, a dar luogo a specifiche aree di studio, dall’altro a toccare discipline un tempo refrattarie, dalla contemporaneistica alla sociologia.
D’altra parte, però, proprio in questo stesso periodo che cosa esattamente s’intenda con le parole medium e media risulta sem-pre più difficile da definire con sem-precisione: per motivi che hanno a che fare non solo con la crescente difficoltà di fissare distinzioni concrete (mentre fino a tempi recenti i confini di un medium potevano apparire auto-evidenti, oggi si è imposta un’intercam-biabilità sempre più ravvicinata) ma anche con la crescente va-ghezza del concetto. Tanto che alcune autorevoli correnti inter-pretative hanno già cominciato a stendere per i media il più te-mibile atto di morte della teoria contemporanea, quello che co-mincia con il prefisso . È appunto di «condizione post-mediale» che ha scritto di recente la critica e teorica Rosalind Krauss (Krauss, 2011), e l’espressione è stata ripresa per altro con molti distinguo da Francesco Casetti (Casetti, 2011), che co-munque riconosce ancora una specificità e un’identità al concetto di medium. Ma un’identità soprattutto convenzionale e per così dire negoziale; e, si potrebbe arguire, residuale.
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edium, media e il destino di un concetto195
Insomma, quella che oggi contraddistingue la «presenza» dei me-dia nella congiuntura attuale è una situazione paradossale: da un lato il concetto di media sembra arrivato all’apice, sia della sua pervasività (potremmo dire, scherzando ma non troppo con un’espressione «pop», della sua «popolarità») sia della sua poten-zialità interpretativa; dall’altro però risulta più che mai difficile attribuire a quel concetto un significato esatto e stabile, e si manifestano i primi segni di una sua tendenziale dissoluzione. Mentre quella che sembrava un tempo la maggiore forza del con-cetto, la sua capacità «descrittiva», è assai più fragile che in pas-sato e il suo universo di riferimento appare sempre meno afferra-bile, sono cresciute le aspettative verso le sue capacità esplicative, e in un ambito più scientifico verso la sua densità teorica (anche se come vedremo le accezioni attribuite al termine sono diverse, e sottilmente contrastanti tra loro). Questi sviluppi oltre a coinvol-gere diverse discipline (la storiografia, la sociologia, ma anche l’antropologia e la nebulosa dei «cultural studies») hanno dato vita al campo in espansione dei «media studies», che come vari altri settori di ricerca nati nell’ultimo trentennio si fonda a diffe-renza delle classiche scienze umane non su un modello teorico né su una metodologia, ma su un oggetto di studio. Anzi, con un effetto circolare, da un lato i media studies presuppongono la so-lidità del concetto di media in quanto categoria scientifica, dal-l’altro con la loro stessa esistenza offrono a tale categoria una le-gittimità superiore a quella che avevano in passato.
Proprio per i settori di ricerca che si sono venuti formando attor-no ai media, la situazione contraddittoria in cui si trova oggi questa categoria dovrebbe richiedere uno sforzo di ripensamento concettuale: da un lato un lavoro di distinzione tra vari significa-ti che vengono attribuisignifica-ti al concetto di media e che troppo spesso si sovrappongono semplicemente tra loro, producendo anche fraintendimenti e corti circuiti; dall’altro una riflessione sui mo-tivi e le implicazioni di tali contraddizioni. Ma le riflessioni sulla definizione del concetto sono piuttosto rare, quasi che si trattasse di una nozione pacifica e ovvia.
In questo intervento mi ripropongo appunto di ragionare sia sui motivi della crescente fortuna dell’idea di media come strumento
di spiegazione della dinamiche della storia, della cultura, della società, sia sulle ambiguità del concetto e sui motivi per cui la stessa categoria sta diventando via via più fragile; per arrivare a individuare un conflitto tra «modi di rappresentare» e di pensare il sociale (nei quali la categoria di medium e media è divenuta ormai imprescindibile) ed «esperienze» della medialità nelle quali questa categoria risulta sempre più inafferrabile. Proverò quindi a cogliere alcune conseguenze di queste contraddittorie tendenze, soffermandomi su un esempio recente, e che ritengo molto signi-ficativo, di evento nel quale i media, e un medium in particolare, sembrano avere giocato un ruolo di particolare rilievo. E arriverò infine a offrire alcune primissime indicazioni per una critica del concetto di media.
Cominciamo col chiederci perché nonostante la sempre maggiore difficoltà di definirlo e circoscriverlo con precisione il concetto di medium e di media non solo sopravviva ma cresca di peso nella spiegazione delle dinamiche sociali contemporanee. Non ci soffer-meremo tanto sulle rappresentazioni più ingenue, ma comunque diffuse e radicate, che leggono la dinamica storica del presente in termini di una successione ininterrotta di «rivoluzioni» nella tec-nologia e nel costume; ragioneremo piuttosto su quei modi di concepire il posto dei media e della comunicazione nel mondo contemporaneo che condizionano sia il senso comune sia la co-munità scientifica, che non sono facilmente liquidabili ma che richiedono un’attenzione critica sempre vigile: perché comunque a rischio di derive ideologiche, e per le confusioni e sovrapposi-zioni che possono portare con sé.
Abbiamo assistito, negli ultimi tre-quattro decenni, a uno slitta-mento progressivo dell’idea stessa di società, che da puro insieme di esseri umani regolato da istituzioni formalizzate e/o da «con-tratti sociali» si è venuta trasformando in insieme, oltre che di esseri umani, di macchine e strumentazioni: da interpretare, que-ste ultime, non solo come presenze simil-umane o «attanti» se-condo la lezione di Bruno Latour, ma anche e soprattutto come tessuto connettivo, che lega gli umani tra loro, che fa da collante all’insieme della società. Uno dei pionieri di questo cambiamento
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edia come collante sociale197
di prospettiva è stato un autore strategico per la storiografia con-temporanea come Karl Polanyi, il quale già negli anni Cinquanta aveva notato che la tendenza alla reticolarizzazione era insieme un frutto e un motore della società di mercato (Polanyi, 1987). «La tecnologia in parte creò e in parte rivelò l’esistenza di una struttura interpersonale che ci circonda, dotata di una sua consi-stenza autonoma; non più un mero aggregato di persone, e nem-meno il Leviatano di Hobbes, ma una realtà inesorabile come la morte, non nelle sue forme mutevoli, ma nella stabilità della sua esistenza. La concentrazione delle forniture idriche, dell’illumina-zione, del riscaldamento, dei trasporti, delle fognature... impose all’esistenza una sorta di solidarietà obbligata. La sostanza orga-nica della società si stava irrigidendo, con forse decine di milioni di vite che dipendevano da un gadget strategico». Acqua, ener-gia, trasporti: l’idea di una «società in rete» era già presente e Polanyi ne leggeva lo sviluppo come un processo che aveva occu-pato oltre un secolo di storia.
Certo, al nostro sguardo la limpidezza dell’intuizione sul ruolo delle reti nel definire il sociale e nel dotarlo per così dire di sche-letro è inscindibile dalla sorpresa per la totale mancanza, nella rappresentazione di Polanyi, della posta e del telegrafo, del tele-fono e delle reti di distribuzione dei giornali. Quello che è acca-duto negli ultimi decenni è proprio che il ruolo delle reti di co-municazione accanto e oltre quello delle reti di energia e di tra-sporto è uscito per così dire dallo sfondo in cui era relegato, anzi dato per scontato, per farsi figura anzi protagonista; che la comunicazione è stata riconosciuta (e/o idealizzata) come la chiave dei rapporti tra gli esseri umani e quindi la base dello scambio sociale.
In questa chiave i media, gli «strumenti del comunicare» secondo la versione italiana del classico di McLuhan, si sono imposti, at-traverso un processo sicuramente non facile e non lineare, come componente essenziale dell’idea stessa di società, come parte, per riprendere le parole di Polanyi, della sostanza organica del socia-le. In questa chiave, la dinamica dei media può essere letta come uno dei fondamenti interpretativi della dinamica della società, ed è da questa indistinguibile.
Diceva Alexis de Tocqueville, nel secondo libro della Democrazia
in America, che nei secoli aristocratici la funzione di motore della
storia era attribuita ai singoli, in particolare ma non necessaria-mente ai re e ai principi, in quelli democratici ai popoli e ai movimenti collettivi. Sono parole scritte tra il 1835 e il 1840. La storia successiva gli ha dato ampiamente ragione; ma nel corso del Novecento ai popoli si sono affiancati quelli che Polanyi (ma anche McLuhan) chiamava i gadget. Nelle epoche tecnocratiche, potremmo dire parafrasando e continuando la lezione del grande pensatore francese, la funzione di motore della storia oltre che alle «masse» viene riconosciuta agli apparati, in particolare co-municativi, che sono sempre più spesso rappresentati come dotati di una dinamica propria di sviluppo, e sembrano farsi promotori e coordinatori «in prima persona» degli stessi movimenti colletti-vi: possiamo trovarne un esempio recente in alcune letture, su cui dovremo tornare, dei recenti movimenti nordafricani. Il passaggio dalle epoche aristocratiche a quelle democratiche, per restare a Tocqueville, è stato promosso e poi accompagnato da un processo di abbattimento delle distanze, rituali e gerarchiche, tra le persone; e da una progressiva inclusione, nel ruolo appunto di persone, di categorie (prima le classi «inferiori», poi le donne, poi anche le minoranze etniche e altre minoranze emarginate) che ne erano in precedenza escluse. Questo processo di avvicina-mento ed equalizzazione ha avuto un rapporto importante e complesso con i media, in particolare ma non solo con i grandi strumenti di comunicazione di massa: che ne sono stati prima testimoni, poi motori relativamente invisibili, fino a farsi ricono-scere come protagonisti in proprio. È proprio grazie a questo passaggio di mentalità che la «media history», una corrente sto-riografica che appunto interpreta i media come fattore storico in sé, è entrata a far parte del «grande racconto» della storia con-temporanea, come documenta in questo numero di «Problemi dell’informazione» Gabriele Balbi, e lo ha fatto dapprima in modo relativamente marginale e minoritario, poi (a partire dagli anni Ottanta) inserendosi nel «mainstream».
Tra le conseguenze di questo modo di pensare, il fatto che la cro-nologia dei mezzi di comunicazione, fino a trent’anni fa di