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no, nelle nostre discipline, le opzioni gradualiste e puntuazioniste, e cosa ci dicono della traccia che abbiamo scelto, la storia delle «tecnologie» per comunicare?
Se torniamo alle sorgenti del problema, l’ipotesi gradualista, scri-vevano Eldredge e Gould nel loro articolo fondativo, insiste su alcuni presupposti precisi: che le nuove specie, in primo luogo, discendono direttamente da quelle precedenti; che la trasforma-zione è in più un processo lento e «graduale»; e che questo pro-cesso, ancora, avviene nello stesso luogo di origine della specie, e coinvolge «grandi numeri» di individui, se non addirittura l’inte-ra «popolazione ancestl’inte-rale» (Eldredge & Gould, 1972, 89). Es-sendo originate in un paradigma gradualista in tutto analogo a quello biologico (Mokyr, 1990a, 350), molte tesi sull’innovazione tecnologica non sembrano funzionare troppo diversamente, con-vinte come sono che il cambiamento sia un processo per lo più «continuo», negoziato «all’interno» del sistema sociale, e capace di rispondere alle esigenze di vasta parte della popolazione, se-condo quella curiosa tautologia che scambia l’oggetto da spiegare con il principio esplicativo (Bijker, 1995, 53), e piega retrospet-tivamente la domanda al senso della risposta3.
La gradualità del cambiamento, nelle interpretazioni correnti, fa così tutt’uno con l’allargamento della ricostruzione archeolo-gica ad una «pluralità» di soggetti, di agenti di mutazione, di cause e concause capaci di mediare l’impatto delle tecnologie: come un taglio in orizzontale, che allarga lo sguardo alla com-presenza dei fattori in gioco, e perde la misura diacronica del loro succedersi. I processi di «mediamorfosi» o «trasformazione dei media», scrive ad esempio Roger Fidler, sono dati dalla «com-plessa giustapposizione di bisogni percepiti, pressioni competitive e politiche, e innovazioni sociali e tecnologiche» (1997, 30) – ovvero «da un po’ di tutto», da spinte e controspinte capaci di diluire il senso dell’innovazione nella logica un po’ vaga della
3 «Questo errore di passare con troppa disinvoltura dall’uso attuale all’origine storica non è un problema solo per i biologi darwiniani, anche se i nostri errori sono stati tra i più vistosi. Questo procedimento di falsa inferenza si riscontra in tutti i campi che cercano di ricostruire la storia sulla base del nostro mondo presente» (Gould, 1991, 115).
costruzione sociale4. Ma se isoliamo la tecnologia come fatto spe-cifico, e insistiamo sulla storia «materiale» dei media, una tale soluzione di compromesso risulta ancora soddisfacente?
L’ipotesi gradualista, si è detto, implica che la trasformazione tecnologica sia progressiva, cumulativa e sottoposta ad un’ampia negoziazione sociale, che coinvolge in ampiezza, e sincronicamen-te, gran parte dei membri della popolazione. E questa è di fatto la spiegazione delle teorie di sistema, per cui più della tecnica in sé conta «il desiderio collettivamente costruito» di utilizzarla (Gras, 1993, 17), in una «fuorviante» e a sua volta «tautologica» idea di innovazione come complemento alle imperfezioni della struttura (Borrelli, 2000, 21), e più ancora delle teorie culturologiche, che la intendono come incarnazione provvidenziale di un desiderio già consapevole e di una domanda socialmente diffusa, radicata nei sommovimenti profondi della cultura. E così facendo, la tesi gradualista associa troppo spesso all’innovazione un andamento non traumatico, perfino consolante, perché la immagina elaborata da vaste porzioni della società, assorbita per cerchi concentrici dai diversi gruppi, lungo la superficie liscia di un tessuto continuo che non mostra «dislivelli»: quegli sbalzi tragici di subalternità, di adeguamento passivo e di incomprensione, di cui sono piene le ricostruzioni storiografiche, e perfino le cronache, capaci di svela-re invece la grande asincronia tra fatto tecnico e fatto sociale5.
4 Che l’innovazione tecnologica sia socialmente costruita è vero, naturalmente, come è vero di qualunque altra cosa: ad un livello quindi talmente generico da esserci poco utile. Il problema è come e da chi la tecnologia venga istituzionalizzata, e qui la risposta canonica – la tecnologia è prodotta dalla società – è del tutto insoddisfacente, per la semplice ragione che la società non esiste come soggetto reale, ma soltanto sul piano di una (blanda) generalizzazione teorica.
5 Ancora seguendo Williams (1974, 38), l’idea corrente è che la tecnologia venga prodotta da una confluenza virtuosa di fattori, da una «comunanza decisiva di intenzioni e di slanci creati-vi»: peccato che però, alla prova delle ricerche, di questo desiderio diffuso, capace di incubare l’innovazione tecnica, non ci sia alcuna traccia, mentre all’opposto i documenti storici mostrano che, al suo avvento, un mezzo di comunicazione è offuscato da un velo di incomprensione e di scetticismo, e da una tragica difficoltà del pubblico di capirne perfino il funzionamento [ad esem-pio: sul telegrafo, Standage (1998, 41); sul telefono, Marvin (1988, 23); Huuderman (2003, 178); sulla radio, Upton (1962, 106); e in generale, Balbi (2010, 65, 80-81)]. E se il pubblico non capisce la funzione di un medium, lasciatemelo dire, allora significa che per certo non ne aveva sentito il bisogno.
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A dispetto del «noto adagio» per cui «la necessità è madre del-l’invenzione», e le innovazioni prendono corpo «quando esiste un bisogno comune fortemente sentito», nota Jared Diamond nella sua chiarissima storia della civilizzazione (1997, 189), è semmai vero il contrario: l’invenzione è la «madre della necessità», perché nasce dalla logica opaca della sperimentazione, «senza che ci fosse una richiesta specifica dall’esterno» e senza alcuna funzione già definita, e solo in seguito alla messa a punto di una tecnologia diviene necessario «trovare qualche applicazione», farne «venire alla luce» gli usi possibili, e «persuadere la società ad adottarla» (1997, 190-194).
In questa prospettiva, la tesi puntuazionale ipotizza un’alternanza tra lunghi periodi di innovazione «incrementale», che modificano in modo lento e parziale il quadro tecnico in essere, e momenti bru-cianti, in cui l’energia delle innovazioni più radicali agisce sul tes-suto sociale come un fattore di mutazione brusco ed esogeno6. Ma per arrivare a questa conclusione, l’ipotesi di Gould vive di due condizioni necessarie, una premessa di fondo e una conseguenza di vasta portata: la premessa, e al contempo la dimostrazione più chiara, è la documentabilità dei lunghi periodi di stasi; e la conseguenza, ancora, è la sopravvivenza delle forme arcaiche dopo l’avvento di quelle successive, che è appunto una misura della natura improvvisa del cambiamento (Gould, 2000, 317). Ora, quanto alla prima questione, un’estenuante, interminabile stasi nel trasporto di informazione è ampiamente attestata dai documenti storici, e mostrata già dalla precedente tabella. «La notizia, merce di lusso», scrive Braudel dei lunghi secoli dell’era di mezzo (1949, 390), rallentati dall’impenetrabilità delle di-stanze e dai destini imprevedibili delle vie postali; tanto che, se
6 Di diversa opinione è George Basalla, autore di un’altra celebre applicazione della teoria evo-luzionista alla storia della tecnica, per cui, il cambiamento tecnologico va considerato invece con-tinuo, perché una sua lettura discontinua implicherebbe una visione eroica della ricerca scientifica, inevitabilmente consegnata alla rapsodicità non socializzabile del talento e dell’improvvisazione (1998, 26). Se però consideriamo i milieu dell’innovazione non come luoghi di esercizio del genio, ma come domini chiusi all’interno della struttura sociale, e retti da regole particolari e non con-divise in altri ambienti, allora l’obiezione di Basalla perde la sua ragion d’essere.
misuriamo il tempo di trasmissione delle informazioni, nel XVI secolo il diametro del Mediterraneo si estendeva ancora sulle «di-mensioni “romane”, dopo che era passato più di un millennio» (1949, 395). E non a caso Harold Innis, sviluppando la sua morfologia storica dei media, dovrà insistere tanto sulla natura leggera o pesante7 dei «supporti», e sulle loro rare, punteggiate trasformazioni: perché le vie di trasporto, nel corso dei secoli, re-stano invece ostinatamente uguali a se stesse, modellate dagli ag-giustamenti minori di una storia incapace di sfuggire al suo bat-tito, e ai limiti gravi della tecnologia.
E tuttavia, se l’esistenza dei periodi di stasi è ampiamente com-provata, non ci dice ancora tutto sul senso del movimento di innovazione: la cui natura improvvisa, sostiene ancora Gould (2000, 148-149), è invece dimostrata dalla permanenza delle vecchie forme, dopo la comparsa di quelle nuove. Ora, per quan-to ci riguarda, la sopravvivenza di vecchie tecnologie e di vecchi formati – la scrittura dopo l’avvento della stampa; il teatro dopo la nascita del cinema; ancora il cinema, nell’era della Tv – è un dato classico della storia dei media, così come lo è, tornan-do al nostro studio di caso, l’«inerzia» delle reti di comunicazio-ne, destinate spesso a restare in funzione anche dopo la diffusione di sistemi più avanzati, come nel caso del telegrafo meccanico, ancora attivo nella Francia dell’800, dopo l’invenzione del mo-dello elettrico (Wilson, 1976, 59-60; Griset, 2004, 104). Che le forme più arcaiche non vengano scalzate da quelle nuove è anzi un’autentica «legge» del sistema dei media, in cui le vecchie tec-nologie sopravvivono all’avvento di quelle successive, in una «ge-nealogia» non lineare di «affiliazioni» e di intrecci, di incroci
tec-7 Se guardiamo alla storia della comunicazione di Innis, una prima punteggiatura si apre con la scrittura su pietra, «dal 4000 a.C. circa» (1950, 57), la seconda con la scrittura a cilindri su creta, intorno al 2900 (1950, 78), la terza con «l’introduzione del papiro», nel periodo tra 2680 e 2540 a.C. (1950, 60), la quarta con la diffusione della pergamena, nel II secolo a.C. (1950, 162-163), la quinta con la migrazione della carta «verso Occidente», a cavallo dell’anno Mille (1950, 194-199), e l’ultima, con cui si chiude il libro, con la «depressione su vasta scala» do-vuta al supporto immateriale delle onde radio (1950, 255-257). Anche se Innis non segue un modello evoluzionista, i conti sono presto fatti: cinque millenni di storia, e appena sei punteggia-ture, che stravolgono di tanto in tanto l’equilibrio consolidato dei sistemi culturali.
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nici, scambi di contenuti e funzioni, ormai correntemente nota come «rimediazione» (Bolter & Grusin, 1999, 82). E questa osti-nata permanenza delle vecchie tecnologie, perfino in mercati domi-nati dalle selvagge leggi dell’innovazione, può essere spiegata pro-prio da un’ipotesi puntuazionista: come osserva Gould, è la brusca immissione nell’ambiente di un agente «esterno» di trasformazione a permettere la sopravvivenza delle forme precedenti – come il manoscritto, dopo l’invenzione del torchio da stampa – mentre un cambiamento graduale ed uniforme, esteso in ampiezza sulla gran parte della popolazione locale, «le avrebbe inevitabilmente elimi-nate tutte» (2000, 317).
Un aspetto ulteriore della vicenda, poi, è quello già annunciato da Gould: a differenza del «gradualismo filetico», la teoria pun-tuazionista non prevede infatti la «lenta e progressiva trasforma-zione di un’intera popolatrasforma-zione», ma l’immissione di un agente esterno, in un ecosistema in cui le specie arcaiche possono essere ancora ferme allo stadio della loro prima comparsa nella docu-mentazione fossile. L’innovazione non è innescata quindi dalla trasformazione endogena della popolazione locale, ma dall’onda d’urto di una migrazione: è così un cambiamento «esogeno» a produrre il meccanismo di speciazione, laddove le forme locali re-stano prigioniere del ritmo rallentato delle variazioni incrementa-li. Tradotto nel campo dell’innovazione tecnologica, questo prin-cipio suggerisce quindi che non esiste una successione «diretta» tra media vecchi e nuovi, capace di sviluppare linearmente le for-me arcaiche in quelle più moderne, ma una storia «a zig-zag», irregolare, che alterna passi avanti ed indietro (Briggs & Burke, 2000, 127), almeno finché un elemento di mutazione esterno non accelera il processo di trasformazione del sistema.
«Sarebbe ingiusto considerare queste macchine» – scrive ad esem-pio Sandro Bernardi delle mille diavolerie comprese tra la lanter-na magica e la messa in movimento della fotografia, che sono forse il tema privilegiato dell’archeologia dei media – «come fasi provvisorie, di passaggio, appartenenti alla preistoria del cinema»: «ogni sistema di visione faceva parte di un periodo culturale ben definito e autonomo, completo in se stesso», perché «i nostri an-tenati sono vissuti prima di noi», e non certo con lo «scopo di
preparare la nostra venuta», come solo alcune equivoche «pro-spettive finalistiche» possono intendere (2007, 22). E se allora, a dispetto di tante «prospettive finalistiche», non ci fosse una suc-cessione «diretta» tra i diversi media, ma una serie di momenti di mutazione sparsi casualmente nella storia, che strappano di tanto in tanto il sistema della comunicazione? Se ad esempio il telegrafo di Morse «non avesse nulla a che fare» con quello di Chappe, ma fosse un dispositivo nato in altri domini, e destinato poi, al momento della sua «migrazione» in territorio francese, ad abbattersi sull’infrastruttura corrente – che storia dei media avremmo, allora? Di certo, avremmo una storia non lineare – quella accidentale del «bricoleur» più che quella progettuale del-l’ingegnere, secondo la famosa metafora di Jacob (1978, 17) – sottratta all’ipoteca di ogni destinalità e di ogni disegno intelli-gente; una storia segnata da mutamenti traumatici, non sorretta da alcuna razionalità soggiacente, né da alcuna necessaria tran-sizione «filetica» tra il vecchio e il nuovo; e proprio per questo, forse, una storia tanto più «plausibile».
E qui, la conseguenza più complessa dell’approccio puntuazioni-sta: se il cambiamento graduale si sprigiona nell’ambiente in modo regolare e uniforme, quello punteggiato è radicale proprio perché proviene da un luogo geografico diverso, e immette nel sistema un elemento di trasformazione «esterno» ed incontrolla-bile, difficile da neutralizzare con gli anticorpi locali. È quello che Ernst Mayr (1942, XXX) aveva definito come «processo di speciazione allopatrica», che prende corpo quando vengono a contatto due «popolazioni precedentemente isolate» dalla geogra-fia, per effetto all’attraversamento delle barriere da parte di «sin-goli individui», destinati a diventare così agenti di mutazione (Mayr, 1963, 220). La teoria del cambiamento allopatrico, scrivo-no Gould ed Eldredge, implica quindi che, «se nuove specie cre-scono molto rapidamente in popolazioni locali periferiche, isolate e ridotte, allora la grande aspettativa» di costruire spiegazioni basate su «gradazioni continue» diviene una «chimera»: «una nuova spe-cie», infatti, «non evolve nell’area dei suoi antenati», e «non nasce dalla lenta trasformazione» dei predecessori, ma «irrompe brusca-mente attraverso uno spostamento o una migrazione» (1972, 84).
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L’innovazione nasce da una scintilla «locale», ed è destinata a spostarsi poi altrove: un’acquisizione, scrive ancora Stephen Jay Gould (2000, 246), che è una salutare disillusione per chi vor-rebbe leggere nella storia «l’apoteosi di una tendenza» e la con-fluenza miracolosa di movimenti virtuosi, e deve invece ammet-tere di provenire da una vicenda evolutiva limitata, «contingen-te ed imprevedibile»: e «contingen«contingen-te», e circoscritta, è ad esempio l’origine delle reti di comunicazione, che muovono da un preciso dominio geografico – come i quattro computer della West Coast, all’alba di Internet – per poi imporre al mondo la propria legge di connessione. Una specie «non evolve» nella zona dove viveva-no i suoi antenati, scrivoviveva-no Gould ed Eldredge (1972, 84) ri-mettendo in gioco il nesso tra migrazione e discontinuità morfo-logica intuito da Darwin (1859, 326-329): allo stesso modo, i media si diffondono in un territorio «diverso» rispetto a quello di origine, il che dà l’ultimo colpo all’ipotesi, tanto diffusa quanto flebile, che la «società» dia origine ai mezzi di comunicazione. Quanto poi alle «reti», se torniamo all’esempio precedente, la loro missione è proprio quella di estendersi a partire da un ri-stretto numero di nodi iniziali, geograficamente molto vicini, at-traverso il lavorio sotterraneo di «poche centinaia di computer», nel caso di Internet, in funzione «all’insaputa del mondo al di fuori» (Galloway, 2004, 5) e con lo scopo dichiarato di investire su un ambito molto ristretto (Crocker, 1969, 4), e solo successi-vamente partire all’assalto del mercato globale.
Lunghe stasi, radure secolari di rallentamento e di inerzia, scan-dite solo dalla logica delle innovazioni incrementali e infine inter-rotte dall’invasione di un agente di mutazione: eppure sappiamo che, per certi versi, la sociologia dei media ha ormai codificato la convinzione contraria, accettando l’idea che ogni riduzionismo sia un «falso problema», perché «la tecnologia è la società», nelle parole di Manuel Castells (1996, 5) – cresce al suo interno, e non può quindi modificarla, ma semmai abbracciarla in una re-lazione circolare di reciprocità. Sarà allora tanto più scandaloso ripetere che un assunto apparentemente quasi banale – la tecno-logia è «interna» alla società – si infrange contro due vistose in-dicazioni contrarie: a livello teorico, il modello della costruzione
sociale delle tecnologie, che, non a caso con chiara ispirazione darwiniana (Pinch & Bijker, 1987, 28; Bijker, 1995, XXIII)8, cir-coscrive il lavoro di negoziazione degli artefatti ad ambiti ristretti e domini conchiusi di senso, e, a livello empirico, le ricerche sui distretti dell’innovazione, che ne mostrano l’isolamento dall’am-biente d’intorno, e la propensione a connettersi ad un network esclusivo di relazioni privilegiate (Castells & Hall, 1994, 57; Saxenian, 1994, 28-57). Più precisamente, i luoghi della ricerca tecnologica condividono forse lo stesso «macrohabitat» del tessuto sociale, ma si sviluppano in «località diverse» e particolari, un po’ come in una delle correzioni proposte alla contrapposizione di Gould tra specie «simpatriche» e «allopatriche» (Rivas, 1964, 43): si stagliano su un comune sfondo generale ma abitano in una nicchia diversa, in una provincia chiusa di senso o in un’ontolo-gia regionale, o ancora in un «campo» a sé, nei termini di Bour-dieu, tenuto a rispondere prima di tutto alla logica interna del proprio dominio, e poi a cercare di imporre la propria legge agli altri strati dell’insieme sociale. Se la tesi degli equilibri punteggia-ti è davvero applicabile, concludono Loch e Huberman (1999, 162), un’innovazione deve incontrare forti resistenze «nella socie-tà nel suo insieme», nel momento in cui muove dal suo ambiente iniziale, e innesca la scintilla dell’evoluzione: più «la popolazione degli utenti è ampia», anzi, e più l’inerzia verso il cambiamento aumenta (1999, 175). E la curva di diffusione dei media, a suo modo, ne dà una prima conferma: una stasi iniziale, marcata dalla distanza tra la generazione degli innovatori e tutte le altre, fallata dall’incomprensione diffusa verso le nuove tecnologie, e quindi un momento di accelerazione improvvisa, che travolge le barriere e invade il mercato, accerchiando le ultime sacche di resistenza. Il fatto caratteristico nella diffusione delle innovazioni, scrive Everett Rogers, è che i suoi protagonisti sono di norma «eterofili»: un «agente del cambiamento è tecnicamente più com-petente dei propri clienti», ad esempio, al punto che i diversi attori
8 Non casuale è la perfetta sovrapposizione tra il modello SCOT e lo studio sull’innovazione con-dotto da Gould, sulla base dei principi dell’evoluzione, attraverso il caso della tastiera QWERTY, il «pollice del panda della tecnologia» (Gould, 1991, 57-73).
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sociali parlano addirittura «lingue diverse» (Rogers, 1962, 19) – e qui torna ad agire proprio la «discontinuità» tra i tempi del mondo sociale, il dislivello brusco tra i «milieu» dell’innovazione e il campo della vita quotidiana, messo a nudo dall’ipotesi di mutazione «allopatrica» della teoria puntuazionista.
E se l’ipotesi dell’evoluzione «allopatrica» vale per le società in-dustriali avanzate – che condividono almeno il «macrohabitat» di sfondo dei distretti dell’innovazione – sarà naturalmente tanto più valida per «tutte le altre società», per quella gran parte del mondo che dei media non respira in alcun modo le premesse sto-riche, ma ne conosce invece la penetrazione, la migrazione sul proprio territorio, e la violenta vicenda di diffusione. Se d’altron-de fosse vero che la «tecnologia è la società», come siamo abitua-ti a pensare, come si spiegherebbe la diffusione dei media in ambienti e territori del mondo che «non hanno nulla in comune» con le regioni che li hanno prodotti? Inventare un sistema «dal nulla», osserva ancora Diamond (1997, 169) dell’evoluzione del-la scrittura, «deve essere stato incomparabilmente più difficile che prenderne in prestito uno dai vicini e adattarlo alle proprie esi-genze»: così che, anche più in generale, la storia delle tecniche procede di norma per «diffusione» delle forme attraverso processi di migrazione, a fronte di una evidente «scarsità di invenzioni indipendenti», più rare proprio perché concettualmente più com-plesse da perseguire (1997, 172). Un’innovazione nasce di solito in un luogo geografico limitato e si diffonde successivamente ne-gli altri, aveva osservato già Darwin (1859, 359) dei momenti che innescano la variazione morfologica delle specie; e il mercato mondiale dei media – in cui la migrazione è la «norma», e l’in-venzione locale l’«eccezione» – non sembra sfuggire ad una delle leggi più chiare della storia materiale.
A dire il vero, l’applicazione dell’evoluzionismo alla storia della