• Non ci sono risultati.

LO STUDIO DEL POETA: COSTANTI E LINEE GUIDA

I Notturni, come si è già visto, vengono composti all’incirca nell’arco di un anno: abbiamo notizie di Superna a partire dal 23 maggio 1939 (ma già si tratta di una fase avanzata della composizione) e si sa che dalla fine di marzo Fallacara non modifica pressoché nulla (salvo il caso di Amaranta rugiada), perché il ms in pulito è consegnato a Macrì e poi a Vallecchi.

La loro composizione è molto sofferta, sia per ragioni di tempo (Fallacara si lamenta spesso dei normali impegni, scolastici e domestici, che lo tengono occupato185), sia perché in alcuni periodi si è trovato in

condizioni di profonda solitudine e tristezza186, ma soprattutto perché giungere alla parola ultima, «scavata

[…] nella sua vita / come un abisso», è un’operazione che richiede, appunto, tempo e fatica.

È proprio questa ricerca della parola ultima, cesellata, autentica, talvolta musicalmente analogica187, che

diventa per Fallacara il vero dramma della poesia: la forma non è puro accessorio, ma testimonianza di paesi dell’anima (o porti sepolti, che dir si voglia) visitati, delle loro presentificazioni188 attraverso squarci nella realtà montalianamente miracolosi, che l’autore coglie e vive; è affermazione della corporeità del poeta e della salvifica figura femminile che lo accompagna (nella quale si potrebbe facilmente adombrare la moglie, già destinataria delle precedenti Poesie d’amore); è, infine, mezzo umano per strappare all’oltre il suo segreto, per trattenere il tempo in fuga, per far memoria dell’origine da cui si proviene (quell’Eden perduto di cui parlerà più diffusamente nel romanzo inedito L’occhio simile al sole, scritto pochi anni dopo i Notturni). Tutte le caratteristiche appena elencate rappresentano per Fallacara i nodi fondamentali costantemente presenti all’interno dei componimenti dei N e contribuiscono ad arricchire di nuove sfaccettature i precedenti risultati, cui l’autore era giunto con le ultime raccolte (edite e inedite).

È intuibile, pertanto, che, per ogni componimento dei N, ci si troverà davanti ad un numero alto o altissimo di redazioni ms o ds (a parte rari casi, dei quali è evidente che si sono persi alcuni testimoni, come per

Desiderosa, Gemmea e Come aroma) e che la difficoltà sta nel trovare la loro giusta collocazione

cronologica in base alle correzioni interne, nonché nel cogliere quali possano essere stati, per l’autore, i momenti fondamentali – veri e propri traguardi provvisori – nell’iter compositivo del Notturno in questione. Capita, perciò, che fra la prima stesura di un Notturno e la sua redazione ultima ci sia un abisso: talvolta, infatti, non è nemmeno possibile a prima vista individuare il Notturno a partire dal suo primo testimone (emblematico è il caso di Sonno d’iridi). È solo all’interno del sistema delle varianti complessivo che si rende progressivamente chiara la trasformazione del componimento originario nella sua veste definitiva.

185 Si veda in particolare: RAMELLA, Oreste Macrì-Luigi Fallacara…, Lettera VIII, p. 738.

186 Si vedano soprattutto le lettere a Betocchi (del 24 agosto 1938 (carta 29) di FB in ACGV) e a Macrì(R

AMELLA, Oreste

Macrì-Luigi Fallacara…, Lettera XVII, pp. 741-742).

187 Basti pensare al «profumo analogico d’Imetto» del testimone o di Amaranta rugiada.

188 Non si utilizza qui il termine presentificazione nel senso Genettiano: piuttosto si vuole indicare il fatto che per Fallacara esistano dei «perduti paradisi», cioè un Eden perduto, situato nell’oltre e reso presente sulla terra in alcuni momenti particolari, nei quali il poeta con l’amata si immerge. In questi squarci in cui il paradiso perduto è nuovamente non solo attingibile, ma proprio vivibile sulla terra, il tempo si annulla e la distanza fra l’oltre e il presente non esiste più. L’oltre si rende, quindi presente (si presentifica, appunto), tangibile, vivibile, come se il Paradiso fosse già cristianamente su questa terra. Esso è percepibile in quei momenti di «illuminazione», di vera e propria grazia: quando la luce o il cielo offrono giochi o visioni particolari, quando si ode la musica degli uccelli primaverili, quando un oggetto (specie d’ambito naturale) ricorda o richiama l’attenzione del poeta all’Eden perduto. Il poeta stesso, assieme all’amata, si ritrova come Adamo ed Eva, immerso nell’estasi e nella nostalgia di una vita ulteriore, che sulla terra è percepibile solo attraverso attimi fugaci.

31

In questa sede vengono presentate, dunque, le linee generali, oserei dire le tendenze, con le quali Fallacara ha operato nella stesura dei N e si è scelto un esempio, quello di Regni indolenti, attraverso il quale si può mostrare, più dettagliatamente, la delicata operazione di rappresentazione dell’itinerario elaborativo dell’autore. Il componimento non incarna un caso limite, ma è stato volutamente preferito per i seguenti motivi: 1) è costituito da un numero medio-alto di redazioni (quindi né basso né altissimo) 2) è un componimento interessante, perché è l’unico caso che offre un autocommento del poeta 3) è rappresentativo dell’artigianato poetico di Fallacara: Regni indolenti cambia notevolmente nel corso della sua elaborazione.

3.1 Tempi e occasioni

S’è detto che Fallacara scrive i N nel giro di un anno scarso, quindi in media compone talvolta più di un sonetto al mese. Si può altresì avanzare l’ipotesi che il tempo che intercorre fra una redazione e l’altra di uno stesso sonetto sia brevissimo, per i seguenti motivi: 1) l’autore usa quasi sempre la medesima penna per apportare correzioni e spesso vi sono rifacimenti contigui – quasi spasmodici – di terzine e quartine (fra i molti casi si riportano ad es. i, n, o di Pettirossi assoluti; h, i, l, n, o; t, u, v, z di Cinerea; r, s, t di Nuca

d’aria; d, e, f, h di Ombroso affanno e m’, n’, o’ di Sonno d’iridi) che fanno ipotizzare ripensamenti rapidi, di

ore o, al massimo, di pochi giorni di distanza.

Laddove vi sono cambiamenti di inchiostro (come nei casi di s in Pettirossi assoluti, di A’ in Cinerea, di B in

Alabastro, di a’’ in Amaranta rugiada), benché siano rari, è possibile che i tempi di correzione si siano

dilatati e che sia trascorso più tempo (uno o più giorni) oppure che l’autore, per non confondersi quando il foglio sia molto pasticciato, sia ricorso a lapis colorati o ad altro inchiostro.

2) Il fatto poi che Fallacara ami riutilizzare non solo fogli vecchi, ormai inservibili (per noi utili al fine di datare o seriare una certa fase compositiva), ma anche il retro dei fogli che ha appena terminato e considera già superati, ci fa supporre che il ritmo interiore di composizione obbedisca ad un’urgenza definitoria, certamente non calcolabile, ma comunque presente e vera: quanto più l’autore sente il bisogno di trovare la parola appropriata, la forma corretta, tanto più usa fogli a portata di mano, anche appena completati. Talvolta usa perfino buste (come nel caso di z in Nuca d’aria), pezzi di fogli di carta da lettere (come per l di Notturna

voce), tutto ciò, insomma, che può contenere qualche verso e che si trova nelle vicinanze.

3) L’ultima motivazione parrà forse drammatica, ma non va sottovalutata: Fallacara è quasi ossessionato dal tempo che passa. Esso è tema onnipresente, sia nell’opera poetica, che in quella in prosa. Il tempo, per l’autore barese, è sempre edace e fugace: edace perché spesso Fallacara guarda con nostalgia la giovinezza passata (uno dei suoi romanzi viene rititolato L’eterna infanzia) e ormai lontana (quando scrive i N ha cinquant’anni), ma anche perché da quando l’uomo è entrato nella storia, abbandonando l’Eden, il Chronos divora i suoi giorni, facendogli percepire la sua fragilità e il suo limite (concetti cari a Fallacara). Unica salvezza nella «frana» del tempo sono le istantanee «illuminazioni», i «lampi del conoscimento»189,

attraverso cui quell’Eden perduto si rivela di nuovo grazie ad oggetti, paesaggi naturali, profumi o suoni che colpiscono i sensi del poeta. Queste apparizioni che suscitano emozioni e sensazioni trascritte nei componimenti sono, tuttavia, fugaci, veri e propri kairoi, occasioni che ricongiungono Fallacara ai «perduti

32

paradisi»190, per qualche istante e poi sembrano svanire. Ne restano il ricordo e la memoria fisica, che l’autore sa restituire attraverso il tessuto sonoro di figure retoriche, rime e lessico, ma rimane anche la percezione di un tempo simile al Dio di Giobbe191: fa grazia (o accoglie la Grazia della visione) e nello stesso

momento riporta alla realtà, fugge, è già passato. Sorge, quindi una «divaricazione fra tempo fisico e tempo metafisico, tempo dei sensi e tempo dell’anima»192, ove il «Tempo vero», come lo chiama l’autore, non è

tanto quello quotidiano, concreto, fattuale, bensì quello «che matura in Dio»193, che si fa spazio per

accogliere la rivelazione194 e tempio per incarnare una presenza paradisiaca.

Tale considerazione del tempo fa capire, dunque, quanto Fallacara soffra il trascorrere dei giorni e desideri cogliere, per tentativi progressivi, ma non eccessivamente dilatati, la forma compiuta che fissi su carta la visione dell’Eden perduto, della giovinezza ritornata per un attimo.

Stando poi agli elementi forniti dalle pubblicazioni a stampa e dai fogli di riuso, si riesce a capire che tra il maggio e l’agosto del 1939, il poeta scrive (nell’ordine, ove possibile) Superna, Velo, Cinerea, Desiderosa e

Pettirossi assoluti; dopo settembre fino a metà febbraio si dedica a Nuca d’aria, In fondo all’armonia, Regni indolenti, Ombroso affanno, Sonno d’iridi; dopo gennaio 1940 compone Favonio e tra giugno e luglio

rifinisce Amaranta rugiada e Come aroma. Entro metà luglio dovrebbero essere state composte sicuramente

Gemmea e forse anche Antica, Alabastro, Notturna voce, per le quali, però, non si hanno elementi probanti

(si rimanda all’Edizione di ciascun componimento per i dettagli di datazione).

Per quanto riguarda le occasioni dei singoli componimenti, esse scaturiscono, come si è accennato, da elementi naturali, atmosfere, profumi, suoni che riconducono il poeta ad un oltre perduto, che schiudono una dimensione altra – una sorta di tempo dentro il tempo stesso – e lasciano una percezione certa, ma fugace, del bene gustato e trascorso195.

Così in Desiderosa e in Superna sono le rose e le acacie, assieme alle api, che vi si posano con il loro ronzio (divenuto «rombo»), a schiudere al poeta e alla donna amata nel «dolce tempo che ferisce» l’«estasi», gli «affanni», la «trepida fragranza», ma anche «il dono dei dolori», cioè appunto quel «dono», quella consapevolezza sofferta di un tempo trascorso e di una felicità perduta. Per Pettirossi assoluti e Antica è la musica del canto degli uccelli (pettirossi e allodola) che rapisce il «soffrire taciturno» dell’amata e lo accorda agli affanni delle creature terrestri: solo a partire dalla coscienza di questa «angoscia», si può provare commozione (i «potenti pianti») e abbandonarsi ai quei «subiti deliri», che rendono presente un pezzetto di Paradiso sulla terra. Proprio a questo Paradiso si fa implicitamente riferimento in Cinerea, laddove «la carezza originaria» e «arcana» riporta a un gesto già compiuto in un oltre e qui replicato. Attraverso la

190 Per altro questo sintagma ricorrerà in un titolo delle inedite all’interno di Le Poesie 1929-1952: Restano quei perduti

paradisi, p. 111

191 Che Fallacara abbia letto e frequentato il libro di Giobbe compare almeno nell’epigrafe al componimento L’albero delle Illuminazioni (p. 11)

192 A.F

RATTINI, Luigi Fallacara, in Letteratura italiana. Il Novecento. I contemporanei, Marzorati, Milano, 1979, vol IV,

pp. 3597-3618, in particolare p. 3605. 193 Idem, pp. 3610-3611

194 «Ma il tempo, nella poesia loica fallacariana, richiama l’altra dimensione dello spazio, che si giustifica sensibilmente in un’altra sorta di tempo, ma qui fiorito, di lega vorrei dire più resistente: ne deriva una compressione di antinomie inesistenti e, sul piano strettamente poetico, il senso dell’ansia e dell’attesa tipiche fallacariane» (E.U.D’ANDREA, Il

“Carmen perpetuum” di Luigi Fallacara, «La Prora», VII (1970), 2, pp. 31-32, qui p. 31).

195 Come afferma anche Donato Valli: «Entrano così a far parte della poesia di Fallacara le occasioni concrete dell’esistenza, che servono da reagente all’istintivo platonismo e costituiscono il fondamento di ogni lirica insorgenza. In progresso di tempo e di maturazione ideologica la concretezza dei paesaggi naturali e delle “occasioni” esistenziali, contrapposta alla certezza di una verità che diventa sempre più assorbente e apodittica, genera un’attesa di nuovo genere, un’ansia di natura diversa dal dolore fisico e dalle frustrazioni storiche proprie di tanta poesia d’ispirazione meridionale» (VALLI, Luigi Fallacara, in Letteratura italiana…, p. 275).

33

«memoria» del sangue che scorre nelle vene del poeta, si coglie la sovrapponibilità tra una vita già trascorsa e quella presente: allora la notte calata con un quarto di luna diventa occasione, e vero e proprio teatro, delle «ore alte» che trascorrono, delle «voci sgomente», del «sangue oscuro». Il paesaggio lunare e la sera che scende sono punti di partenza per Velo, Gemmea e Favonio: fra rondini, farfalle e capinere, alberi e fiori (lavande, gladioli, robinie), prati e rocce, il poeta si ritrova in spazi sospesi («la regione del vivere è sospesa»), abitati da musiche naturali (del vento, degli uccelli), dove la donna amata, «accesa al suono della vita», mormora un «sorriso di strazio» e dove la propria umanità si apre ad una sensibilità ulteriore che permette di percepire la separazione fra cielo e terra («un altro senso a portar la ferita /lunga»).

Da richiami classici muovono, invece, i primi passi In fondo all’armonia, Alabastro e Come aroma (fortemente debitori all’ungarettiano Sentimento del Tempo, quanto ad atmosfera e, talvolta, al lessico): nel primo caso, il biancore degli intercolumni e i «pepli vaporati» della figura femminile fanno da sfondo al calar della notte in cui i canti degli uccelli e i colori del paesaggio schiudono incantesimi. L’armonia del momento apre l’orizzonte a un «sogno immenso» e suscita commozione. Nel secondo caso, alcune divinità femminili («dee») hanno abbandonato la terra e «il petto s’inebria del loro vuoto». Nuovamente sgorga il pianto alabastrino dagli occhi dell’amata del poeta, che pare fuggente come la notte verso il «regno ove ti perdi e inoltri». In Come aroma, la donna è virgilianamente paragonata alla Sibilla che fra bende ascende i gradini di una «Cuma invisibile» nella stagione in cui «cadono gli astri». Il silenzio della donna è inaccessibile e immerso nel mistero: si possono provare solo mestizia e pena, si percepiscono unicamente la distanza e il «vuoto di terra e di taciturni astri».

Le rocce montane e gli astri notturni fanno da sfondo a Nuca d’aria e a Regni indolenti: qui la presenza umana è immersa nella natura (ricca di gigli rossi, anatre, stagni, rose, erbe, alberi) al punto che la percezione fisica rimanda direttamente al ricordo del mondo edenico perduto («le memorie cominciano coi sensi»), desiderato con ansia e commozione («ansiose lacrime»), e già attinto nella pienezza del momento presente («ebrezza arsa dell’estasi»).

I «giardini / addormentati dove il mirto odora / e indolente passeggia la colomba» sono occasioni, assieme alle immancabili rose e al canto degli uccelli, del sonetto Notturna voce: qui nella stagione ormai autunnale, si percepisce la «distanza del cuore», il dolore dell’«indistinto murmure mortale» contro i «macigni della gioia», cioè la frattura tra le gementi «creature miti» terrene e i regni solidi, ma inafferrabili, della felicità eterna. Il paradiso diventa, quindi, da «conosciuto ed arso» a «impossieduto» in Amaranta rugiada: l’occasione della notte ricca d’aromi, dei salici e della luna suscita turbamenti incarnati nella voce di un uccello «che spira un’aria di tristezza in sogno».

Le tombe stanno, invece, all’origine dei componimenti Ombroso affanno e Sonno d’iridi: alla luce di un sole divenuto eterno, che «ha per ombre gli equilibri», fra silenzio di rose e aromi di acacie, non si odono più cantare gli uccelli, «spariti» e dipinti sugli ipogei. Qui le malie e i desideri riposano e la morte è «altrove estatica».

Pare quasi che i N descrivano un percorso che va dalla primavera (Favonio) all’autunno – recuperando una memoria dannunziana (si pensi all’Alcyone) – dall’«ebrezza» di «vita ardente» al «sonno d’iridi», dalla musica degli uccelli al canto muto delle loro immagini sulle tombe, dai turbamenti desiderosi di cielo e di raggiungimento dei «perduti paradisi» all’eternità di un sole riconosciuto ombreggiato dalle geometrie terrestri. L’itinerario ci conduce a pensare che le «tristezze» e le nostalgie sono appagabili solo nella morte e nel raggiungimento definitivo di quell’oltre tanto anelato. Tuttavia, Fallacara spende quasi l’intera raccolta

34

per presentare le innumerevoli occasioni di grazia – che spesso calano sul genere umano con la sera e la notte – attraverso cui l’armonia, la gioia, l’ebbrezza sono attingibili estaticamente già su questa terra. Bisogna, però, saper contemplare il creato con i suoi elementi naturali; bisogna saper cogliere la consonanza e la distanza con la donna amata, che è sempre immagine privilegiata della percezione dell’altro, Sibilla e Vestale del segreto dell’esistere.

Contrariamente a Montale, non è solo la donna o il “tu” ricorrente anche nei componimenti fallacariani, a poter attingere l’altrove: il poeta si immerge pienamente nella realtà fugacemente trasfigurata, con tutti i suoi sensi (numerosi sono i riferimenti tattili, olfattivi, oltre a quelli visivi e uditivi), fino a urtare contro i limiti della propria terrestrità corporea. Ecco allora che il desiderio, «l’ansia», vengono appagati solo in una sorta di trasognamento, in una vera e propria «estasi» in cui l’anima trascende per un attimo i limiti del corpo e gode per un istante dell’Eden perduto, ma ora presente. È nell’estasi che occasione e tempo si fondono: per dirla con Fallacara, «il soggetto che contempla è diventato tutt’uno con l’oggetto contemplato, l’assenza si è fusa con la presenza, il dolore con la gioia»196. I N rasembrano, dunque, sul piano laico e assolutamente poetico,

l’esperienza dei mistici (a Fallacara molto cari) e della loro ricerca – appagata o no – di unione con Dio197.

3.2 Titoli

Lo scavo interiore alla ricerca della parola adeguata si ritrova in Fallacara anche nei titoli dei componimenti; si sono riconosciuti tre criteri autoriali di scelta, così distinguibili: 1) casi in cui vengono ripresi in modo inalterato parole o sintagmi già presenti nel testo (Desiderosa, Pettirossi assoluti, Accesa, Vento in fiore,

Sirio, Sonno d’iridi, Tristezza in sogno, ad es.) 2) casi in cui viene ripresa la stessa parola (o la sua radice),

ma declinata al plurale, ridotta ad aggettivo, riproposta in verbo (come, ad es., in Velo ove compare «velato»; in Cumana, dalla menzionata città di Cuma; in Fuga mentre è scritto «fuggente»; in Viola dolente al posto di «viola dei dolenti») 3) casi in cui il titolo sembra non avere alcun rimando al testo, ma il cui significato è motivato dall’atmosfera e da un più ampio contesto connotativo (come ad es. per Superna o Voy de vuelo). Nei primi Notturni, fino a Pettirossi assoluti, l’autore sembra abbastanza deciso nella scelta dei titoli: non li cambia durante la composizione. Così farà anche con Regni indolenti e Sonno d’iridi che si collocano cronologicamente a metà dell’anno di scrittura della raccolta, anche se poi vengono posizionati alla fine.

196 Cartolina postale di Fallacara a Betocchi del 26 luglio 1952 (carta 76, contenuta in FB di ACGV).

197 Ibidem: «lì è forse, nel piano inferiore della poesia, quello che i mistici chiamano l’unione». Di Fallacara mistico parla anche ERNESTO BALDUCCI nell’articolo Fallacara mistico sulla «Prora», VII (1970), 2, pp. 36-37: «Più si ha il senso di

Dio e più la parola che lo esprime si fa opaca e greve, a chi la pronuncia […] Fallacara ci dà l’impressione che ci ha sempre dato la sua poesia; si tratta di un’ardua esperienza contemplativa, condotta da principio alla fine lungo l’orlo dell’Innominabile e accesa di volta in volta sulle occasioni più fragili. […] La poesia era il suo modo di essere mistico». A conferma di questa affermazione di don Balducci sta una lettera di Fallacara stesso all’amico Comi, in cui afferma: «io non so dirti; a volte mi pare che questo pianeggiare sia uno scivolare all’inferno; a volte mi pare di camminare in paradiso: ma è il paradiso dell’arte? Che sia il nostro destino di poter sentire e godere “quello vero” solo attraverso i doni della poesia? Come vedi, bestemmio. Tu perdonami, e prega, tu che puoi, per questo peccatore della poesia» (Lettera del 28 aprile 1937, edita in VALLI, Civiltà letteraria in Puglia…, p. 90). Più antiche testimonianze si ritrovano nel taccuino inedito dell’autore, contenuto in FF di ALCASIR, risalenti al 9 settembre 1927: «Il problema dell’arte implica una ispirazione e una traduzione in espressione: per conto mio vorrei che si potesse dire che l’espressione (umana) è affidata a una capacità artistica: mentre l’ispirazione può trascendere i limiti naturali e rientrare in un piano più elevato toccando la sfera della teologia e della mistica ecc. Con questo non nego l’arte come chi dice le virtù teologali gerarchicamente superiori alle virtù cardinali non nega queste ultime, anzi le esige perfezionate e sublimate dall’ordine della carità: nego l’arte come estetismo, buon gusto ecc. nego cioè tutto quello che è fine a se stesso. Tutto ciò che è umano esige un’apertura infinita verso l’alto per poter veramente vivere: e come la filosofia esige la teologia, la morale la carità, la città terrena quella celeste, così credo si possa dire che l’arte esiga la mistica; e non la pseudo-mistica, ma quella che ha per centro il Cristo e la sua Croce: cioè la chiesa e il suo Mistero» (pagina 37 recto e verso).

35

In questi casi, Fallacara appone il titolo quasi sempre in fase iniziale o comunque alta (all’altezza di d per

Desiderosa, di H per Velo, di D per Superna, di f per Pettirossi assoluti, di d per Regni indolenti e di E per Sonno d’iridi) e continua a segnalarlo nelle varie redazioni successive (nei casi di Desiderosa, Velo,

Documenti correlati