9. I modelli del testo lucianeo tra letteratura simposiale e lessic
19.4 ma; th;n ajnaiscuvnton jAqhna'n: «in nome della svergognata Atena».
Lessifane invoca Atena come dea «senza disonore», intendendo l'aggettivo nel suo senso etimologico con a- privativo e radice del verbo aijscuvnw «disonorare». Tuttavia l'aggettivo significa «senza disonore» e Lessifane finisce per dare alla dea l'epiteto di svergognata.
19.27 w{ste oujkevti oujd≠ ajnabaivnei aujthvn, ajll≠ a[bato" kai; ajnhvrotov" ejstin: «tanto che neppure più la monta, poiché essa è inaccessibile e inarabile». Lessifane ha urgenza di recarsi dal suo compagno Clinia, in quanto la moglie di lui è indisposta. Per spiegare questa condizione Lessifane si serve di un termine generalmente utilizzato per luoghi di difficile accesso (Hdt 7.176 Tw'n de; Qermopulevwn to; me;n pro;" eJspevrh" o[ro" a[batovn te kai; ajpovkrhmnon; Xenoph. An. 5, 6 wJ" d≠ au[tw" kai; oJ Parqevnio" a[bato"). Luciano aveva utilizzato il termine con valenza geografica nelle Dipsadi, in riferimento alla Libia come luogo desertico e perciò ostile all’uomo (Dips. 1 pantelw'" a[baton th;n cwvran tivqhsi). È in questa valenza che Lessifane lo usa la prima volta (§3): a[baton ejpoivhsa~ to; polu; th`~ oJdou` è la frase che rivolge al servo Atticione. Una perifrasi complessa dal significato poco chiaro, per dire che il servo Atticione, essendogli venuto incontro, ha compiuto la maggior parte della strada, rendendola in questo senso «inaccessibile» a Lessifane, poichè non è più necessario che ora egli la percorra.
Un ulteriore utilizzo di a[bato" era quello destinato ai luoghi sacri inviolabili (Plat. Lach. 183b tou;" de; ejn o{ploi" macomevnou" ejgw; touvtou" oJrw' th;n me;n Lakedaivmona hJgoumevnou" ei\nai a[baton iJerovn) che Luciano dimostra ancora di conoscere nei Sacrifici, quando il cielo viene reso inaccessibile agli uomini (Sacr. 9 a[bato" de; tw'/ qnhtw'/ gevnei kai; ajpovrrhto" oJ oujranov") a causa del loro essere tracotanti e ciarlieri (uJbristai; kai; lavloi).
Tuttavia, nel Lessifane, il significato che il termine assume al suo secondo utilizzo è uno hapax di senso: esso descrive una donna resa «inaccessibile» dalla mancanza del ciclo mestruale, sfumatura mai riscontrata in autori precedenti. Può però essere confrontata con il passo dello Zeusi, dove Luciano usa il termine per descrivere le indomate cavalle tessale (Zeux. 6 oi|ai mavlista aiJ Qettalaiv eijsin, ajdmh'te" e[ti kai; a[batoi), o ancora la cerva del passo de L’amante delle
menzogne (Philops. 7 ejlavfou de; qhleiva" e[ti parqevnou kai; ajbavtou). L’effetto comico viene incrementato dal secondo aggettivo che accompagna a[bato~, ovvero ajnhvroto~. Il termine è raro nella letteratura greca e significa «non coltivato», viene per l’appunto utilizzato nella poesia antica sempre in ambito agricolo (Hom. Od. 9.109 ajlla; tav g≠ a[sparta kai; ajnhvrota pavnta fuvontai; Aeschyl. P.V. 708 ajnhrovtou~ guva~). Sorprendentemente, il termine ajnhvroto~ è molto ricorrente in Luciano, con la stessa formula omerica: (Phal. 2) a[sparta hJmi'n kai; ajnhvrota fuvetai ta; pavnta uJpo; gewrgw'; (Paras. 24) ajlla; tav g≠ a[sparta kai; ajnhvrota pavnta; (Merc. cond. 3) ajtecnw'" ga;r a[spora kai; ajnhvrota toi'" toiouvtoi" ta; pavnta fuvesqai; (Rh. Pr. 8) a[spora kai; ajnhvrota pavnta fuevsqw; (Sat. 7) oJpovte a[spora kai; ajnhvrota pavnta ejfuveto; (Sat. 20) ajll≠ hJ me;n gh' a[sporo" kai; ajnhvroto" e[fuen.
Unica eccezione è proprio il Lessifane dove Luciano parodizza la formula omerica destinata ai campi applicandola ad una donna, ma opera una parodia anche di un modello da lui stesso scelto in numerose occasioni in precedenza: la direzione della satira si volge contro l’uso improprio del modello da parte di Lessifane.
§ 20
Licino descrive a Sopoli la malattia di Lessifane: parole desuete e neologismi strani creati con grande cura. Fortunatamente Sopoli ha con sé un rimedio emetico, che purgherà Lessifane di tutti termini desueti, iperattici e le creazioni aberranti.
20.10 favrmakon touti; kerasavmeno": «avendo preparato questa medicina». Sopoli somministra a Lessifane un rimedio, che viene definito favrmakon. E' una bevanda che il medico ha preparato da poco e che risulta essere adatta a Lessifane per il suo valore emetico, che indurrà costui a vomitare liberando tutti i vocaboli incomprensibili racchiusi nel suo ventre. Il termine favrmakon indica in senso generico un rimedio, i cui effetti però possono essere sia benefici che funesti (Hom. Od. 4.230 favrmaka, polla; me;n ejsqla; memigmevna, polla; de; lugrav). Infatti, il termine favrmakon assume il significato di «cura» ma anche di «veleno», come nel celeberrimo passo di Euripide dove Medea decide che il modo migliore per uccidere i suoi figli è quello di avvelenarli (Eur. Med. 384 kravtista th;n eujqei'an, h|i pefuvkamen sofoi; mavlista, farmavkoi" aujtou;" eJlei'n). Spesso era il vino ad essere considerato un favrmakon, come per Elena, che lo utilizza per lenire il dolore che rievocano i ricordi delle guerre troiane in Menelao e Telemaco (Hom. Od. 4.220 e[nq≠ au\t≠ a[ll≠ ejnovhs≠ ïElevnh Dio;" ejkgegaui'a: aujtivk≠ a[r≠ eij" oi\non bavle favrmakon, e[nqen e[pinon). Si ritroverà sempre in tutti i generi letterari dalla lirica (Alc. Fr. 335 Page w\ Buvkci, farmavkwn d≠ a[riston oi\no"), la tragedia (Eur. Ion. 1185 eij" oi\non balw;n o{ fasi dou'nai favrmakon drasthvrion devspoinan), la commedia (Men Fr. 1-4 K.-A. cou'" kekramevnou oi[nou: labw;n e[kpiqi tou'ton. pefarmavkeusai, glukuvtat≠, ajnaluqei;" movli"). Una lunga tradizione che Luciano condensa in un favrmakon dal valore medico (Lex. 20 wJ" uJgih;" hJmi'n kai; kaqaro;" gevnoio, th'" toiauvth" tw'n lovgwn ajtopiva" kenwqeiv"), che ha il compito di riportare a una situazione favorevole Lessifane (rJav/wn e[sh) ma che, proprio per lui, ne crea una sfavorevole (feu', tiv tou'toÉ polu;" oJ borborugmov"). È un vino miscelato (kerasavmeno~) come volevano le regole del simposio, senza esagerazioni (Anacr. Fr. 11a Page ta; pevnte d≠ oi[nou kuavqou" wJ" a]n …uJbristiw'"… ajna; dhu\te bassarhvsw).
20.15 pw`ma gevnoitov moi tou'to tw'n lovgwn to; povma: «questa bevanda diventi per me un coperchio». Seguo qui le lezioni scelte da MacLeod 1980, 66 e Harmon 1962, 318, i quali danno fede ai manoscritti veteriores che riportano la
lezione pw`ma in luogo di ptw`ma, attestato invece nei recentiores. Lessifane teme che la bevanda, to; povma, cioè il favrmakon prescritto da Sopoli, possa diventare per lui un coperchio, to; pw`ma, e mettere quindi un freno al suo linguaggio forbito e depurato. Tuttavia, non vi sarà nessuna ostruzione per le sue parole ma anzi le sentirà fuoriuscire tutte. Un'immagine simile era stata utilizzata da Luciano nell'Icaromenippo, quando Zeus, togliendo il coperchio, fa fuoriuscire tutte le preghiere degli uomini dalle imboccature che le contengono per ascoltarle (Icar. 25 oJ Zeu;" kai; ajfelw;n to; pw'ma parei'ce toi'" eujcomevnoi" eJautovn).
Nel Fedone di Platone, il termine pw`ma descrive il veleno che beve Socrate (Plat. Phaed. 117b Tiv levgei", e[fh, peri; tou'de tou' pwvmato" pro;" to; ajpospei'saiv tini). Nel raccontare la morte di Socrate, Platone descrive progressivamente il venir meno del fisico, ma è la parola l’ultima capacità che abbandona Socrate e che ne decreta la morte (Plat. Phaed. 118a ≠Alla; tau'ta, e[fh, e[stai, oJ Krivtwn: ajll≠ o{ra ei[ ti a[llo levgei". Tau'ta ejromevnou aujtou' oujde;n e[ti ajpekrivnato, ajll≠ ojlivgon).
Jacobitz 1966, 253 opta per ptw`ma nel senso di «caduta, disgrazia» e conserva povma, «bevanda». In tal senso allora, il favrmakon sarebbe per Lessifane una disgrazia, in virtù dell’effetto che sortisce, cioè quello di farlo rinsavire dalla sua “idrolessia”. Di opinione ancora differente è l’edizione a cura di Longo, per il quale sarebbe il coperchio, pw`ma (e non povma, come Harmon e MacLeod), a essere una sventura.
Queste considerazioni mi spingono a seguire le lezioni pw`ma/povma, che permettono a Luciano un rovesciamento tra significato del termine, timori di Lessifane e realtà dei fatti, meccanismo particolarmente amato dall’autore.
20.22 ejggastrivmuqovn tina e[oika pepwkevnai: «sembra aver inghiottito uno spirito che parla dal ventre». Attraverso il favrmakon somministratogli da Sopoli, Lessifane si trova a avere nello stomaco un ventriloquo, o uno spirito parlante, secondo una resa italiana meno fuorviante. Infatti, il termine si rifà al più celebre ejggatrivmanti~, che evoca immediatamente il campo della divinazione. Principalmente destinato alle figure oracolari, Euricle e la Pizia soprattutto (Plut.
De Def. Orac. 414e w{sper tou;" ejggastrimuvqou" Eujrukleva" pavlai nuni; de; Puvqwna" prosagoreuomevnou"; Suda s. v. ≠eggastrivmuqo" e 45 ejggastrivmanti": o} nu'n tine" Puvqwna, Sofoklh'" de; sternovmantin), esso designava colui che poteva esercitare l’arte mantica internamente al suo corpo, senza l’aiuto di viscere animali o voli di aquile (FrGrHist 328 F 192 ejggastrivmuqo" dev ejstin oJ ejn gastri; manteuovmeno").
Il legame tra sternovmanti~ ed ejggastrivmuqo" (Poll. Onom. 2.162 kai; sternovmantin Sofoklh'" to;n kalouvmenon ejggastrivmuqon), viene totalmente rovesciato da Luciano. Il Simposio era per eccellenza luogo di cibo, bevanda e parola: il nutrimento fisico con pietanze prelibate e il giusto ejnqousiasmov~ conferito dal vino, sono i prodromi per la nascita del lovgo~ inteso come discorso ragionato, di cui i filosofi sono portatori (Plut. Quaest. Conv. 612e Prw'ton de; pavntwn tevtaktai to; peri; tou' filosofei'n para; povton. mevmnhsai ga;r o{ti, zhthvsew" ≠Aqhvnhsi meta; dei'pnon genomevnh" eij crhstevon ejn oi[nw/ filosovfoi" lovgoi" kai; tiv mevtron e[sti crwmevnoi"). Nella figura dell’ejggastrivmuqo", si concretizza lo stesso parallelismo: il gasthvr è luogo di ingestione e luogo di parola, parola profetica. Nel Lessifane questo si stravolge perché non sono più vino e cibo a essere nutrimento di un lovgo~ razionale ma è il fa;rmakon kerasavmeno~ di Sopoli a purgare il gasthvr di Lessifane da una lovgo~ che altro non è se non una lh`ro~ kai; xevnh peri; th;n fwnh;n novso~. La bocca stessa, varco di connessione tra il luogo del lovgo~ e lo spazio della ricezione uditiva, viene defraudata del suo ruolo primario e non stupisce che sia un’altra valvola a assumerlo (Lex. 21 a[meinon dev, eij kai; kavtw diacwrhvseien a]n e[nia: hJ gou'n silhpordiva mevgan to;n yovfon ejrgavsetai sunekpesou'sa meta; tou' pneuvmato").
§ 21
Lessifane comincia a vomitare tutte le parole desuete, incitato da Sopoli che le elenca mentre escono e non si accontenta finché lo stomaco di Lessifane non è vuoto, approfittandone per fare anche dell'ironia sui modi in cui esse possono fuoriuscire. Le parole citate da Sopoli sono quelle che più erano ricorrenti e
denotavano l'uso attico: mw'n, a[tta, lwó'ste (che in verita Lessifane non usa) ed altre. Una volta purgato, Sopoli affida Lessifane a Licino perché lo rieduchi.
21.8 hJ gou'n silhpordiva mevgan to;n yovfon ejrgavsetai sunekpesou'sa:
«certo l'aria fuoriuscendo produrrà un gran rumore». Sopoli, ci regala un divertente doppio senso nel composto silhpordiva (§21): il verbo corrispondente, silhpordevw, significa «vantarsi, darsi delle arie» (Hesych. 641 silhpordei'n: silhpordh'sai. strhnia'n, aJbruvnesqai, qruvptesqai, clida'n). In questa accezione lo userà Posidonio (Pos. Fr. 36 Jacoby kai; ta;" ejranika;" poihsavmeno" ajkroavsei" dia; to;n basileva silhpordw'n dia; th'" cwvra" kai; povlew" pompeuvei, passo che cita identico Ath. Deipn. 5.49). Tuttavia, lo scoliasta di Luciano afferra il doppio senso in questo termine (Schol. Luc. 46.21 Rabe e[oike de; ou|to" ajpo; th'" levxew" ejpi; to kakevmfaton aujto; metalabei'n), che si riferisce al rigonfiamento dello stomaco (wJ" a]n dia; th;n eujporivan tw'n levxewn kai; to; mevga ejpi; tauvtai" fronei'n ejxwgkw'sqai aujtw'/ th;n gastevra kai; ejpi; to; ajpopneu'sai h[dh to;n o[gkon ejpeivgesqai), che liberando l'aria produce rumore (pollw'/ de; tw'/ o[gkw/ ajpoqlibomevnw/ eijko;" kai; to;n yovfon ouj mevtrion e[sesqai). Il termine richiama il lessico comico perché, nota Henderson 1975, 195 «the noise and odor of gas being expelled from the bowels is onsidered to be universally and unconditionnally humorous» (pordhv Ar.
Nub. 394; pevrdomai Ar. Eq. 115) e il medico Sopoli più che vedere Lessifane gonfiato di vanità lo vede gonfiarsi per avere la pancia piena e senza tanto pudore ricorda all’amico che la bocca non è l’unica via di uscita per ciò che è di troppo nello stomaco.
CONCLUSIONI
L'uso della parola come strumento di spettacolarizzazione del sapere, è una delle caratteristiche principali della Seconda Sofistica: il lovgo" diventa la dimensione privilegiata dello sfoggio di una cultura erudita che era andata formandosi e affermandosi dal III secolo a.C. in poi. La filologia Alessandrina, infatti, aveva posto solide fondamenta per costruire un sapere erudito, quanto più possibile finalizzato alla passione filologica, al libro come strumento di conoscenza e al sapere come garanzia di prestigio sociale: «un'epoca assiduamente e tenacemente volta a studiare, raccogliere, riassumere, conservare tesori di dottrina che costituivano la gloriosa eredità intellettuale di molti secoli, delineare e fissare un'identità culturale che doveva vivere74». Le biblioteche e gli studi di Aristofane di Bisanzio, Aristarco e Cratete di Mallo sono il segno di un crescente interesse che vede la lingua e la grammatica come centro degli insegnamenti e innesca un fiorire di lessici e trattati grammaticali che descrivono e analizzano la lingua e le scelte stilistiche degli autori antichi. Sono gli autori attici ad avere il primato: il prestigio socio-culturale che Atene aveva conquistato nei secoli V e IV era stato un marchio indelebile, la culla della formazione di un'identità greca che aveva unificato le povlei" attraverso guerre, riti, tradizioni e, naturalmente, anche attraverso la lingua. La centralità politica Ateniese apre le porte alle produzioni letterarie che veicolano il dialetto ionico-attico in tutto il mondo greco. Per questo sono gli oratori come Lisia e Demostene, i filosofi come Platone, i tragici Euripide, Eschilo, e Sofocle e infine la storiografia tucididea ad assumere un ruolo preponderante nella scelta dei modelli da emulare.
Nel I secolo d.C. soprattutto grazie all'opera di Dionigi di Alicarnasso si canonizzano definitivamente gli autori antichi ritenuti più validi per la formazione di chi volesse intraprendere la strada dell'oratoria. Lo stile di Lisia, Demostene e Isocrate viene studiato appassionatamente, indagando particolarmente le scelte grammaticali. Parallelamente ai cambiamenti politici e sociali che avevano visto l'affermarsi del potere romano e il decentramento della Grecia come culla del
74 Montanari 1994, p. 237.
sapere, si verificano radicali cambiamenti anche nella lingua greca. Infatti, il dominio di Alessandro Magno e i regni ellenistici avevano veicolato la lingua greca che si era incontrata con i dialetti locali ed aveva subito profonde mutazioni, la koinhv. Si era affermato un greco alto, per le amministrazioni e le iscrizioni pubbliche, ed un greco basso, per i documenti privati e condiviso e compreso dai più. È quest'ultimo ad avere la maggior diffusione e tuttavia ad essere percepito come scorretto dall'élite aristocratica.
Si scatena, in coloro che detenevano il potere ed il prestigio sociale, una reazione purista, soprattutto a livello linguistico, che trova il suo apice nella Seconda Sofistica: l'attività didattica si focalizza su esercizi declamatori pubblici, attraverso i quali gli oratori padroneggiano argomenti, confutano punti di vista, descrivono e dipingono immagini, minimizzando o amplificando ciò che desiderano che il pubblico veda. La parola è l'espediente con cui i sofisti mostrano la propria paideiva al pubblico, lo catturano e lo ammaliano, procurandosi volentieri elogi e critiche, che altro non sono se non materiale nuovo su cui costruire nuove orazioni e pezzi di bravura. La performance è nella parola quanto nell'actio, nei toni della voce e nella gestualità del corpo: la bravura dell'oratore si misurerà in base a quanto il pubblico sarà incatenato con udito e vista, binomio indissolubile su cui il sofista deve far leva. In merito al discorso suasorio di Socrate nel Fedro di Platone, R. Velardi scrive: «La tesi centrale sostenuta da Socrate è che il sapere non può essere acquisito se non attraverso il contatto diretto e lo scambio interpersonale tra maestro e discepolo, e che questo rapporto è un incontro tra anime affini, che comunicano con lo sguardo prima ancora che con la parola»75.
Nessun sofista sfugge all'influenza dell'Atticismo, movimento culturale volto alla riaffermazione del dialetto attico come vera identità del parlante greco e garanzia di una lingua raffinata per ottenere il favore del pubblico. «Most sophists [...] declaimed in Attic, the dialect modelled on that of fifth- and fourth century Athens76». Tutti gli autori di questo periodo si relazionano con l'atticismo, chi per
75 Velardi 2004, p. 216.
adesione, come Dione di Prusa ed Erode Attico, chi per critica, come il medico Galeno. Altri autori pur non aderendo in maniera sistematica e radicale, risentono della moda atticista: tra questi Luciano. Il suo è un atticismo moderato, che rifiuta gli eccessi e rappresenta «l'équilibre entre les tendances»77. Infatti, gli eccessi della lingua sono il pericolo che maggiormente compromette la relazione con il pubblico, volendo stupire a tutti i costi si corre il rischio di compromettere la comprensione ma anche l'immagine dell'oratore, perché, come osserva F. Mestre, la lingua «es siempre metáfora de una forma de ser y de comportarse, incluso desde el punto de vista ético»78.
Utili per descrivere il movimento dell'atticismo sono i lessicografi e le loro opere pervenuteci, sia direttamente che come epitomi. I lessici incentrati in particolare sull'atticismo di Elio Dioniso e Pausania Atticista, gli studi grammaticali di Apollonio Discolo ed Erodiano, e i successivi lessici di Giulio Polluce, Arpocrazione e Moeris. Tuttavia, l'autore più emblematico di un atticismo rigoroso è senz'altro Frinico, la sua Praeparatio Sofistica e molto di più l'Ecloga, prescrivono o vietano l'utilizzo di termini ed espressioni in base alla loro attestazione negli autori di spicco del V secolo.
L'estremo rigorismo, che serpeggiava nel panorama letterario, diventa emblematico della corrente definita, con un termine coniato proprio da Luciano "iperatticista", che non guardava più agli autori e alla lingua attica come a modelli da imitare per una prosa chiara e scorrevole, ma si dedicava allo studio della lingua ed in particolare del lessico esclusivamente per indagarne l'etimologia e le attestazioni, come dimostra ampiamente l'immensa opera di Ateneo, i
Deipnosofisti, dove ogni parola è spunto discussione. È questa spesso una degenerazione della moda atticista che offre a Luciano lo spunto per la sua satira: «sophists are being satirized for their calculated, but fundamentally ignorant and pretentious, use of Atticism79». Infatti, tra i bersagli polemici dell'autore non mancano, insieme ai filosofi e ai personaggi politici, anche i retori, in particolare quelli che mostrano una grande ignoranza dietro una retorica molto curata.
77 Bompaire 1994, p.70.
78 Mestre 2012, p. 68. 79 Whitmarsh 2004, p.45.
Il Lessifane, tra queste opere, è quella forse più interessante e problematica: essa mette in scena due personaggi rappresentativi dell'atteggiamento dell'autore rispetto alla moda atticista nei suoi rappresentati più estremi. Lessifane, secondo una prassi lucianea, viene presentato già dal suo nome che sottolinea il carattere cavilloso del mettere in mostra le parole. Costui compone un Simposio, volendo porsi in ambiziosa competizione con Platone. Il pubblico, destinatario dello sfoggio di bravura di Lessifane, è Licino, alter ego dell'autore che compare anche in altre opere. Egli rappresenta il punto di vista altro che permette il distacco necessario per operare la satira dei modelli. Quali sono questi modelli? La critica di Luciano risulta enigmatica proprio per questo: sebbene sia dichiarato il modello di Platone, il Simposio di Lessifane è un'emulazione che diviene una parodia. Infatti, la struttura dell'opera ha molti punti di contatto con il Simposio platonico: il ruolo socratico di Licino, degli invitati che irrompono proprio come Alcibiade e un discorso finale, di stampo didattico, che riassume il pensiero dell'autore. Tuttavia, altre immagini si discostano radicalmente dal modello platonico, come per esempio la tematica del Simposio, frivola in Lessifane e alta in Platone. E poi, per quanto riguarda la lingua, Lessifane utilizza il Simposio come spazio privilegiato per esporre le sue creazioni verbali e il suo sapere linguistico. Il meccanismo della satira opera avvicinandosi quanto più possibile al modello, per poi discostarsene e ridicolizzarlo, cosa che non si può dire avvenga per il
Simposio platonico. Jennifer Hall80 formula l'ipotesi che Luciano abbia tratto ispirazione per il personaggio di Lessifane e il suo Simposio, da Polluce e dal suo
Onomasticon. La struttura del testo, che procedendo per argomenti raccoglie tutti i termini appartenenti allo stesso campo semantico, corrisponde a quella dell'opera di Polluce, differente dai lessici contemporanei in quanto i lemmi non si trovavano elencati in ordine alfabetico, ma, appunto per argomenti. Tuttavia, se la struttura dell'Onomasticon può aver influenzato quella del Simposio di Lessifane, non vi sono espliciti riferimenti al lessicografo né alcun elemento certo che possa confermare che vi sia lui in realtà dietro il personaggio di Lessifane.
80 Hall 1981, p. 285.
Nel mirino della satira di Luciano è senz'altro il cattivo uso della retorica, ed emblematico di ciò è il lessico del Simposio del Lessifane, che, in ottemperanza all'atteggiamento iperatticista, presenta termini rari, hapax di senso e numerosi neologismi modellati sul lessico della tragedia (ajrtigrafhv") e della commedia (kruyimevtwpo" e suntumbwrucevw), ma anche rifacendosi alla tradizione epica (polunivkh"). Nella sezione dedicata alle attività del ginnasio, Lessifane crea