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Macchina teatrale

Nel documento «Ogni idea me sortéva capovolzüda» (pagine 78-83)

L’arte come impegno: l’antico gioco del teatro nella macchina teatrale di Dario Fo e Franca Rame

5. Macchina teatrale

Il teatro Fo Rame è una macchina teatrale inscindibile, nell’arte così come nella vita. Spes- so parte dall’inchiesta su antiche fonti per narrare il proprio tempo anche in una revisione, riscrittura e reinterpretazione di classici che rappresentano specifiche tematiche: il lavoro su Ruzzante, ad esempio, è emblematico del tema della guerra, della fame, del sopruso dei poteri istituzionali, anche sacri. Fo attraverso Ruzzante torna a parlare del proprio tempo e opera una rivisitazione dei classici, ovvero di quelle opere che, come scriveva Italo Cal- vino (1991), non hanno mai finito di dire quello che hanno da dire. Talora la revisione si radicalizza in vera e propria azione icastica, nelle forme satiriche, ironiche, parodistiche. È interessante esaminare le forme espressive ruzzantiane nelle quali maggiormente Dario Fo rispecchia il senso (politico) della propria azione drammaturgica e performativa.

20 Cfr. Fo (2016).

21 La nozione di ‘schismogenesi’ serve a definire l’interazione tra persone ed è dovuta a Bateson (1988).

Per ‘schismogenesi’ si intende la ricerca di un equilibrio tra azioni compiute da persone legate da una relazione: azioni che si differenziano anche molto, ma che al tempo stesso appaiono reciprocamente ap- propriate e motivanti.

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Mi limito a segnalare qui quella che vorrei definire come la potenza critica della lettera ‘S’. Ruzzante usa la lettera ‘S’ elaborando una scrittura satirica volta a destituire di autore- volezza le forme, i ruoli, i tipi del potere costituito, com’è evidente nell’espressione scar-

dinale al posto di cardinale. Quando Fo riprende questa potenza eversiva del testo ruzzan-

tiano, intesa come critica destituente, egli intende contribuire alla popolare diffusione di tale consapevolezza critica, all’effetto rigenerativo e trasformativo dell’atto ironico.22 Ci

troviamo, credo, di fronte a una intensa quanto efficace prova della potenza dell’azione teatrale nel prefigurare futuri scenari di cambiamento, provvisorietà delle posizioni ege- moni e possibilità di nuovi rivolgimenti politici e culturali. La critica destituente, dunque, scaturisce dalla potenza destruens della comicità, dalla eversione della risata, da un motto di spirito che non si genera affatto nello sghignazzo volgare della riduzione a corpo ana- tomico dell’avversario, come spesse volte Fo stesso faceva notare, sia nei prologhi agli spettacoli, sia nelle sue lezioni-spettacolo, ma rimanda alla funzione giullaresca rivolu- zionaria, radicata nel registro comico-ironico-sarcastico-parodistico. Ritengo che questa efficacia alluda non soltanto alla pertinenza simbolica degli elementi folklorici provenienti dall’analisi della cultura popolare,23 ma anche a una pratica artistica a carattere educativo,

motivata da una volontà di partecipazione sociale e di critica politico-culturale di stampo etico. Si tratta di una pratica morale e civile dell’impegno politico da sempre perseguita da Fo e Rame nella loro scrittura così come nelle forme e nei modi della loro rappresenta- zione. In tale quadro, possiamo dire che il filologismo di Dario Fo rinasce, vivo e critico, internamente alla cultura popolare e non fuori da essa, avverso sia all’avanguardia teatrale quando questa si allontana dalla esperienza quotidiana, sia alla ‘boria dei dotti’, la super- bia di quegli studiosi come ci ha sempre raccontato sin dalla sua lettura, ancora oggi fonte di dibattiti, di Rosa fresa e aulentissima di Cielo o Ciullo d’Alcamo, uno dei primi brani della sua più famosa raccolta di monologhi: Mistero Buffo.

Si tratta di un’operazione che, in forme meno radicali, Fo adotta anche nel revisionare, riflessivamente, se stesso, per cui Fo rilegge Fo come aveva riletto Ruzzante e i classici ai fini di un teatro che rifletta il suo tempo. Nel suo ultimo Mistero Buffo in Auditorium-Parco della Musica a Roma, il 1° agosto 2016, dinanzi a un pubblico composto da più di tremila persone di ogni generazione, rivisitando il celebre monologo del 1969, rielabora il linguag- gio, i passaggi dei suoi brani più classici ripresi anche da Fabulazzo Osceno e da Storia della

Tigre e altre storie, e così dalla Parpaia topola al Primo miracolo di Gesù bambino, riadatta

quel linguaggio che rivive una nuova stagione nel suo corpo nuovo di attore, con la sua voce più lieve e tenera, ma egualmente intensa e tenace da sorprendere come sempre il suo pub- blico che incanta fino a scuoterlo in un applauso interminabile. Al cospetto di chi lo ascolta ancora una volta, Fo incarna l’idea che il teatro, lo spettacolo, sia l’ultimo «mezzo di crescita e di controinformazione» (Fo 1970, p. 5) che ci resta nel momento contemporaneo. Egli ci ha nuovamente rivelato, quella sera d’estate di due anni fa, il carattere profondamente umano e politico della cultura popolare italiana ed europea, con la raffinatezza geniale dello storico, la vitalità conoscitiva dell’antropologo, l’ironia divina del grandissimo comico.

22 Cfr. Pizza (2012). 23 Cfr. Scuderi (2015).

60 Marisa Pizza

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