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Teatro e vita quotidiana

Nel documento «Ogni idea me sortéva capovolzüda» (pagine 76-78)

L’arte come impegno: l’antico gioco del teatro nella macchina teatrale di Dario Fo e Franca Rame

3. Teatro e vita quotidiana

Come studiosa del teatro di Fo, ho avuto modo di assistere per un lungo periodo al per- corso quotidiano di costruzione dell’opera teatrale. Ho così potuto verificare, attraverso l’uso della tecnica diaristica dell’oggettivazione, quanto Fo fosse impegnato in un’azio- ne quotidiana di avvicinamento tra vita e pensiero, tra pratica manuale e immaginazio- ne. Mi sono trovata di fronte alla comprensione di un metodo di creatività, certamente non diffuso e applicabile come tale, ma al tempo stesso mi è parso di potere individuare la radice dell’opera che fiorisce on stage nella dimensione giornaliera. La genesi dell’o- pera d’arte di Fo si collocava certamente in un atto immaginativo quotidiano, in un gesto creativo ordinario. Per cui anche solo avere la penna tra le dita lo aiutava a svolgere il pensiero: «Se mi dai una penna e un foglio anche se non scrivo… mi aiuta» (Fo in Pizza 2006, pp. 14-15). La sua ricerca linguistica tra forme, accenti, fonemi, produceva un lin- guaggio nuovo, se non una vera e propria lingua fondata su una sapiente miscela di gesto e parola. Segni di una forma nuova di espressività del tutto consapevolmente reinventa- ta: «È vero, nel medioevo non parlavano così» diceva commentando il proprio linguag- gio scenico e insieme le critiche rivoltegli dai filologi. Si riferiva al suo grammelot, una invenzione linguistica che lo ha reso celebre nel mondo e che appare emblematica della scelta teatrale di dire l’indicibile. La sua ‘ammissione’ costituisce tuttora un disinnesco esplicito dei giudizi di alcuni storici sulla sua ‘scorrettezza’ filologica, valutazioni che rischiano di disperdere la consapevolezza di quello che ci appare al contrario come una vera e propria ‘fame’ di sapere, espressa con un ritmo incalzante, indefesso, talora fre- netico, del quotidiano lavoro di ricerca, disegno, scrittura, pittura, che precede la stesura del testo e del canovaccio che poi sarà messo in atto nella scena attoriale incorporata.13

La continua ricerca di fonti e la messa in atto di una rapida e plurima contaminazione delle fonti stesse, calate nel ‘suo tempo’ di storia, di ritmo, di stile, di etica, è alla base dell’arte di Fo. Da essa trae potenza la lingua di scena, la letteratura drammaturgica che lo ha reso un ‘classico’.

I classici non scrivono pensando all’eternità. Io sono un classico, voglio essere un classico, e proprio come i classici, cerco di fare qualche cosa che non duri nel tempo: i greci scrivevano una tragedia perché venisse rappresentata una volta sola, massimo quattro, cinque volte, in periferia; veniva rappresentata per essere distrutta, subito, era bruciata il giorno stesso che veniva rappre- sentata. Così Shakespeare, quando scriveva, non scriveva con la mentalità “passerò la storia ai posteri” neanche per idea.14

13 Cfr. Cairns (2000).

14 Fo in un’intervista video presso la Libera Università di Alcatraz, 1982. L’intervista integrale, conserva-

ta nell’Archivio Rame Fo, non è ancora online al momento. La parte che qui viene citata è stata utilizzata nella puntata n. 11 del documentario Rai Dario Fo e Franca Rame. La nostra storia, disponibile sul sito della RAI [online]. URL: <https://www.raiplay.it/video/2017/08/DARIO-FO-E-FRANCA-RAME-LA- NOSTRA-STORIA-c8b5ccdc-f026-4bba-8ea1-4652757969ba.html> [data di accesso 10/04/2018].

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4. Punteggiature

Il lavoro di Dario Fo rivela il piacere fonetico delle parole per un’efficacia corporea co- municata nella sua prossemica teatrale. Sul piano linguistico è dunque utile notare come in questa pratica artistica uno stesso oggetto venisse descritto in differenti modi dialettali. La pluralità indessicale dei dialetti in Fo è una spia utile a comprendere in che modo ne resti incrinata l’astrattezza e al tempo stesso la concreta gabbia della lingua egemone, im- prontata a espellere dalla scena comunicativa il corpo e il gesto propri. A tal proposito si guardi alla ricerca di Fo delle parole sin dai primi monologhi. È noto come l’innovazione linguistica delle espressioni foiane si generi a partire da un reale incontro con i diffe- renti dialetti.15 Ho esaminato altrove tale procedura, messa in atto in più occasioni, con

esempi relativi alla realizzazione degli spettacoli La bibbia dei villani e Lu santo Jullàre

Françesco,16 riscontrando sempre a livello linguistico l’uso in progressione di diverse for-

me gergali per indicare lo stesso oggetto o la medesima situazione attraverso un ricorso all’onomatopea e al ritmo scenico di efficacia performativa. Si tratta di ‘rafforzativi’ tesi alla sperimentazione linguistica ed espressiva.

Io credo di avere assimilato la lezione del Ruzante. Lui ha costruito una lingua per il teatro. Si dice che il suo dialetto sia quello di Padova, ma io ho fatto delle ricerche, e non è vero. Nella sua lingua vi sono tutti i dialetti. Io ho fatto lo stesso lavoro per Storia della tigre. Vi sono tutti i dialetti italiani, dal siciliano al provenzale; vi è una radice linguistica per ogni situazione, e ogni situazione detta la parola giusta in un dialetto o in un altro […] È la grande invenzione del teatro di sempre. Euripide usava questo sistema (Fo 1992b, pp. 357-358).17

Ciò si riflette anche nell’edizione scritta dei testi, curati da Franca Rame, dove impor- tante è l’uso della punteggiatura da lei stessa modificata. Ma come è impostata la punteg- giatura del testo teatrale? E come si articolano le due diverse punteggiature, quella ‘orale’ e performativa di Fo e quella testuale di Rame? L’intervento del linguista Pietro Trifone in questo convegno si è soffermato giustamente sulla cosiddetta ‘virgola tematizzata’, ovvero sull’uso della virgola per evidenziare (‘tematizzare’) un elemento interno alla fra- se.18 Ma è interessante mostrare nelle osservazioni sulla punteggiatura come questa sia in

qualche modo ‘tradotta’ in testo scritto da Franca Rame, laddove in Fo corrisponde alle tematizzazioni degli enunciati, per così dire, in quanto l’attore nella recitazione sostituisce ai significati lessicali quelli intonazionali, facendo del suo grammelot una sorta di lingua ‘tonale’. Ora, l’edizione dei testi teatrali curata da Franca Rame è una vera e propria riscrittura, che riprende la scansione della lingua teatrale ereditata dalla tradizione della Famiglia Rame.19 Se si sfogliano i copioni di Franca Rame, si può verificare che que-

sti appaiono come veri e propri ‘spartiti musicali’: stampati anche a caratteri grandi per

15 Cfr. Folena (1991, pp. 120-122) e Pizza (1996, pp. 250-251). 16 Cfr. Pizza (2006).

17 Cfr. Pizza (1996, pp. 250-251).

18 Per un approccio linguistico al teatro italiano, e a quello di Dario Fo in particolare, cfr. anche Trifone

(2000) e Giovanardi, Trifone (2015, pp. 102-106).

58 Marisa Pizza

la lettura da leggìo in scena, con caratteri a corpo differente a seconda dell’espressione, dell’intensità da dare a quelle parole, arricchiti di segni e scritte autografe perché il co- pione veniva anche modificato direttamente in scena durante le prove aperte, costellati di accenti, rimandi a capo, intonazioni, con segni a freccia anche per sospensioni, pause, una ‘punteggiatura espressiva’, usando inchiostri a colori diversi. Già solo a colpo d’occhio emerge uno stile recitativo preciso. Fondamentale è dunque il ruolo fonetico e corporeo della parola che nei copioni di Dario Fo è invece rappresentato da uno stile che possiamo definire di vero storyboard teatrale, rispetto ai copioni ‘spartito musicale’ di Franca Rame, perché questo, invece, ricco di disegni, che sono la vera traccia narrativa, accompagnati solo qua e là da parole chiave. La prima presenza in scena di un copione-storyboard che Fo porta con sé sul leggìo a mo’ di suggeritore muto, è quello del monologo Johan Padan

a la descoverta de le Americhe (Fo 1992a).

A tal proposito è significativa la loro attenzione e controllo delle traduzioni delle loro opere all’estero. Voglio qui ricordare il recente episodio di quando il traduttore in lingua danese, Bent Holm, raggiunse Dario Fo nella sua residenza estiva a Sala di Cesenatico mentre era impegnato nel lavoro di mostra-spettacolo su Darwin.20 Bent Holm doveva

confrontarsi con Dario per la traduzione in danese di C’è un re pazzo in Danimarca (Fo 2015) e cercava un corrispettivo per la parola gualdrappa; Fo si oppose, non volendo che fosse tradotta, per conservare il medesimo effetto fonetico, serbando la ‘corporeità’ della parola per così dire, esaltata peraltro da un linguaggio costruito attraverso quella che lui stesso definiva, con una metafora culinaria, una «fricassea» di dialetti. Si può anche qui scorgere un metodo ‘di coppia’, implicito in questa sorta di ‘schismogenesi complemen- tare’21 dello stile letterario e teatrale che nasce da ricerche e inchieste parallele, ma che

integra registri recitativi diversi.

Nel documento «Ogni idea me sortéva capovolzüda» (pagine 76-78)