• Non ci sono risultati.

3. L'EMIGRAZIONE ITALIANA NELLE COLONIE: DUE AUTRICI ITALIANE EMIGRATE

3.2.4. Madre e figlia

Il rapporto tra Marianna e Sellas va oltre il mero scontro generazionale: è la rottura storica tra nazione e narrazione656, tra cui non può esserci continuità, perché non solo si sviluppano percezioni e prospettive diverse a seconda della posizione, del ruolo e dell'appartenenza del personaggio, ma cambia proprio il concetto di Nazione e quindi di Identità. I padri sono incapaci di vivere l'amore in modo profondo, le madri non superano il trauma dell'abbandono, con cui nutrono la loro rabbia, i figli, meticci, rompono gli schemi e le bipartizioni colonizzato/colonizzatore, bianco/nero, incarnando la terza via, il "terzo spazio". Marianna diventa figura dell'ibridità e del meticciato, e, con la sua partenza, figura dell'eroe diasporico postcoloniale al femminile657. Alter ego di Marianna è il suo amico Zubuc, un cespuglio, a cui lei dà un nome e una personalità, alle prese con la lotta per la sopravvivenza contro il vento impetuoso e il terreno secco: entrambi vivono la loro solitudine senza arrendersi. Come ha notato Ponzanesi, sia il cespuglio che Marianna presentano un importante elemento comune: «Come il cespuglio, <Marianna> è appassita in superficie, ma le sue radici si diffondono in maniera rizomatica; in termini deleuziani, ella moltiplica la sua identità approfittando di ciò che per la comunità è una vergogna»658.

La piccola protagonista inizia la sua migrazione già all'interno della città, vagando e rigettando l'ordine della madre di rimanere chiusa in casa, e all'interno della periferia si scontra con l'intolleranza di chi la considera diversa. Le sue peregrinazioni quotidiane sono simbolo della volontà di prepararsi un personale spazio d'azione, da cui intraprendere la propria resistenza. Infatti,

656 M. Venturini, «Toccare il futuro». Scritture postcoloniali femminili, cit., pp. 119-120. 657 Ibidem.

mentre Sellas rimane chiusa nel ruolo di vittima abbandonata, nella sua ecolalica esclamazione «Ma come ha potuto» (riferendosi all'abbandono di Carlo), che non può che provare odio verso il colonizzatore che la illuse di amarla, Marianna ha in sé la spinta per compiere il salto postcoloniale, per ricostruire la sua esistenza, attraverso la pazienza, che le consente di sopportare la violenza che la madre le infligge fisicamente e spiritualmente, la resistenza e la ribellione. Sellas non riesce a rompere quello che Anna Maria Piussi definisce la «genealogia patriarcale del femminile, alimentata e custodita dalle donne stesse attraverso gli infiniti atti del loro affidamento all'uomo»659, poiché Sellas, in effetti, si affida totalmente alle promesse e all'amore di Carlo, e in virtù di questo totale affidamento non trova gli strumenti per alterare le regole di quell'«ordine simbolico e materiale dei rapporti sociali». Questo è il motivo che sta alla base, a mio avviso, dell'odio e del rancore di Sellas nei confronti della figlia, alla quale è incapace di trasmettere «nuova conoscenza e nuove forme di coscienza che portino il segno della mediazione sessuata al femminile, attraverso una attribuzione di valore e di autorizzazione a parlare, a pensare, a educare».

Marianna rifiuta la relazione materna, in quanto essa si configura come una «esperienza di mediazione mancata, generatrice non di libertà ma di frustrazione e subalternità alla legge del padre: la madre è l'origine del tra-donne, ma è anche il fantasma ritornante del suo potenziale scacco»660. È qui che compare Elsa, una sorta di madre simbolica661 per Marianna, che non solo infrange il suo mondo di solitudine presentandosi come una buona amica, ma le dona la chiave linguistica per comprendere la sua situazione di meticcia, attraverso un racconto “r-esistente” alla logica coloniale:

Non c'è niente di male, - disse Elsa - a essere meticci, anzi voi siete più fortunati perché avete il padre bianco e la madre nera così state nel mezzo. C'è una storia che ora vi racconto. Dio impastò il primo uomo come io impasto il taff, lo mise a cuocere ma venne la pioggia e spense il fuoco, così l'uomo restò troppo bianco. Allora Dio ne fece un altro; ma si distrasse, perché Dio aveva sempre tante cose da fare, così la cottura troppo lunga bruciò l'uomo che diventò nero; allora Dio stette molto attento e ne fece uno del colore giusto, che era quello che stava fra il bianco e il nero.

Marianna sorrise felice, e si sentì orgogliosa di essere del giusto colore662.

Il linguaggio che Elsa ricrea consente a Marianna di parlare una nuova lingua, in cui ella finalmente può sentirsi adeguata e riconosciuta come soggetto di valore. In più, Elsa usa la lingua

659 A. M. Piussi, Significatività/visibilità del femminile e logos della pedagogia, in Diotima. Il pensiero della

differenza sessuale, La Tartaruga, Milano, 1987, p. 133. Dalla stessa pagina sono tratte le citazioni seguenti.

660 I. Dominijanni, Il desiderio di politica, in L. Cigarini, La politica del desiderio, cit., p. 15. 661 Il riferimento è al Simbolico della madre di Luisa Muraro.

del padre, l'italiano («Elsa li salutò in italiano e li chiamò “bei bambini”»663) che per Marianna sarà importante per lasciare il Paese, e per affermare la sua identità a prescindere dal contesto nazionale. La sua capacità di parlare sia la lingua materna che paterna risulta per la giovane un'ancora di salvezza, poiché le consente di muoversi nel terzo spazio in piena libertà, rendendo la propria condizione di métissage un vero e proprio privilegio: all'obbligo di univocità richiesta dalla società, la piccola protagonista contrappone l'esigenza di un'identità sincretica, frutto di un incontro multirazziale. La scelta di ricevere il cognome italiano da uno sconosciuto consente a Marianna di creare «un legame mitico tra se stessa e l'Italia e <di> inventa<re> una nuova identità»664, che mira ad ottenere quel riscatto che Sellas non è riuscita a conquistare. Ella, infatti, negando ai figli il nome di Carlo Cinzi, cerca fino in fondo di cancellare la memoria del suo passato di donna sfruttata dall'uomo bianco, nel simbolico gesto di sminuzzare il foglio preparato anni fa da Carlo in cui legittimava i figli dando loro il suo nome, e di sotterrarlo nella terra dove un tempo cresceva il cespuglio di Marianna, «come se stesse seppellendo per sempre un ricordo che ancora voleva restare»665.

Oltre a L'abbandono, la presentazione del rapporto madre-figlia è ricorrente nella produzione della Dell'Oro, e presenta aspetti spesso simili: si pensi già che il primo romanzo è dedicato «a Roberta e ai miei genitori», e la stessa Roberta della dedica è presente in altri romanzi in modo quasi ossessivo: si tratta, almeno a livello letterario, della sorella minore morta da piccola per un malanno. La figura di Roberta è presente in Asmara addio, in La gola del diavolo (con il nome di Isabella), e in Vedere ogni notte le stelle666, e le circostanze che la morte di questa bambina generano sono sempre le stesse: incrinatura del tranquillo ménage familiare e successivo divorzio dei genitori. La descrizione di Roberta (o Isabella) è sempre la stessa e gli epiteti che ruotano attorno alla sua figura sono il bianco, la nuvola, l'altalena. Benché in Asmara addio il rapporto tra Milena (alter ego dell'autrice) e sua madre non sia presentato in termini drammatici, al di là di qualche scontro generazionale, in Vedere ogni notte le stelle l'autrice recupera un dialogo più sincero e finalmente libero dai legacci della nostalgia con la madre morente. La protagonista, che anche qui ha come nome Milena, quasi a voler chiudere ciclicamente il cerchio della scrittura familiare, da Roma deve raggiungere la madre in Eritrea, colpita da un malore e in fin di vita. Il viaggio a ritroso dalla madre è presentato come ritorno a casa, nella propria terra-madre, dove ogni luogo è avvolto dall'aura nostalgica dell'infanzia della scrittrice.

663 Ivi, p. 88.

664 S. Ponzanesi, Paradoxes of Postcolonial Culture, cit., p. 152 (traduzione mia). 665 E. Dell'Oro, L'abbandono, cit., p. 266.

Sto vegliando l'assenza di mia madre, prima di iniziare un percorso alla ricerca di un orientamento667;

Sono sola davanti alla tomba dei miei nonni, di mio padre. La sua presenza mi manca. Mio padre era per me questa terra, la sua storia, le mie radici erano intrecciate alle sue. Nonostante lo strappo improvviso, si sono irrobustite, continuando a vivere accanto alla voragine del grande albero abbattuto668.

La morte della madre segna il momento in cui poter tracciare un bilancio della propria vita, recuperando le origini familiari, la sola cura che può lenire il passaggio definitivo in cui si smette di essere figli e si inizia ad «essere non più figli». La scoperta di una scatola con dentro pochi semplici ricordi di Robertina è testimonianza di una consapevolezza nuova per la protagonista: «La nostra terra resterà, uguale nel tempo, come noi fossimo ancora in quei giorni lontani di felicità, di scoperte e stupori, di luce e colori, di altalene e risate»669.

3.2.5. Lingua e stile

Lo stile di Erminia Dell'Oro risente dell'influsso della cultura africana dell'oralità, che costituisce la struttura linguistica di base in cui si inserisce la lingua scritta. L'oralità è confermata dall'uso della saga epica e dalle interviste e risulta strettamente legata alla tecnica auobiografica, come spiega Simonetta Ulivieri: «la recente riscoperta dell'oralità nelle scienze umane e sociali come nuova metodologia di ricerca […] ha portato all'utilizzo della narrazione biografica e alla sua trascrizione a scopi scientifici»670. Le interviste sono fondamentali per creare il materiale di base per i suoi romanzi, poiché attraverso queste «vi è il recupero di quella storia nascosta o dimenticata»671. Ovviamente, l'intervista influisce sullo stile del testo e della lingua, che assume un tono più colloquiale, con un andamento più vicino al parlato, e che mescola la lingua italiana con le lingue locali, in questo caso, il tigrino: gli inserti linguistici stranieri non sono segnalati in corsivo dalla Dell'Oro e raramente vi è una traduzione accanto. Soltanto Asmara addio e L'abbandono presentano un glossario finale, per tradurre i pochi nomi stranieri citati: infatti, occorre dire che l'ibridazione linguistica della Dell'Oro non è molto accentuata, poiché si tratta comunque di una scrittrice italiana, che non ha dovuto imparare l'italiano e non si è dovuta confrontare con altre lingue: lei

667 Ivi, p. 44. 668 Ivi, p. 54. 669 Ivi, p. 84.

670 S. Ulivieri, Genere, etnia e formazione: una ricerca biografica, in C. Barbarulli, L. Borghi (a cura di), Visioni

in/sostenibili. Genere e intercultura, CUEC, Cagliari, 2003, p. 227.

stessa racconta con rammarico di non aver avuto l'opportunità di imparare bene il tigrino, poiché a scuola si studiava soltanto l'italiano, e le uniche parole straniere che ascoltava erano pronunciate dai servitori della sua famiglia672. Come ha ben notato Laura Ricci, spesso le soluzioni stilistiche adottate ricordano quelle dei romanzi coloniali italiani, specialmente per la descrizioni di paesaggi e personaggi esotici: «donne velate che ondeggiavano sulle alte groppe dei cammelli facendo tintinnare pesanti orecchini», «gli occhi grandi lo riportavano ai racconti delle mille e una notte», e i vocaboli stranieri, relativi alla sfera della vita quotidiana e al cibo, sono quelli più conosciuti dai coloni italiani nel Corno d'Africa673.

Questi retaggi stilistici confermano la posizione di Erminia Dell'Oro all'interno della fase inaugurale della letteratura postcoloniale, i cui testi sono caratterizzati, innanzitutto, dall'intento di risvegliare la memoria coloniale del popolo italiano, e dalla dicotomia passato/presente, dove il passato è presentato come l'età dell'oro della giovinezza africana perduta, e il presente è incarnato da un'Italia sconosciuta e razzista, spaesata davanti all'arrivo degli stranieri.

La produzione più recente della Dell'Oro risulta impegnata sul fronte sociale contemporaneo con Il mare davanti, in cui si occupa dell'emigrazione dei giovani eritrei che abbandonano il Paese dilaniato da una lunga guerra civile, e che dopo un infernale viaggio per il Mediterraneo approdano in Sicilia. È Ziggy, il giovane protagonista, che spiega perché decidere di scappare in Italia e il senso di estraneità che accoglie i migranti eritrei:

La maggior parte di noi veniva dall'Eritrea, sapevamo che l'Italia aveva colonizzato il nostro paese, e che molti italiani ci erano rimasti per quasi un secolo, Asmara era stata costruita da loro. Ma nessuno ci guardava come se sapessero dove fosse il nostro paese, eravamo africani uguali a tutti gli altri, un paese o l'altro era lo stesso, tutti profughi che cercavano aiuto674.

Anche questo è un modo per sensibilizzare il popolo italiano circa l'attuale arrivo degli immigrati, ma al di là di ogni sentimentalismo l'intento è raccontare, attraverso la testimonianza di questo giovane, la realtà sconosciuta del deserto, degli scafisti, delle prigioni libiche. Un racconto nei cui risvolti gli italiani giacciono come diretti responsabili, ormai antichi, autoassoltisi senza alcuna consapevolezza storica.

Documenti correlati