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4. LA MEDEA DRAMMA TRAGICO DI NICCOLINI

4.1. La Medea

4.1.1. L’elenco dei personaggi

Per quanto riguarda la scelta dei personaggi, è interessante notare la presenza dei due confidenti di Medea e Giasone, i quali acquistano un nome: rispettivamente, Rodope e Adrasto. Già questa è un innovazione rispetto all’archetipo euripideo, che vedeva la

83 VANNUCCI 1866, Vol. II, p.239. 84 Idem, Vol. I, p.80.

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presenza di una nutrice e di un pedagogo anonimi, e da quella del modello senecano, dove si aveva in scena solo la nutrice sempre anonima.

Enorme differenza rispetto ad entrambi i testi classici è la mancanza del coro, che non può essere sostituita dalla presenza minima del popolo, che si esprime in due sole battute. Se Corneille nell’Examen che precede la sua Médeée aveva giustificato l’assenza del coro per rispettare i principi di vraisemblance e bieanséance, e aveva sostituito il coro con l’ampliamento di alcune scene e alcuni personaggi, Niccolini lo elimina, ma rende più rilevante il ruolo della nutrice, presente in ben 18 scene su 35 scene.

Viene eliminato il personaggio euripideo di Egeo, presente in Euripide ma non in Seneca, e a cui Corneille aveva dato una nuova giustificazione, rendendolo innamorato di Creusa e quindi rivale di Giasone.

Invariata rispetto ai modelli classici è la mancanza di Creusa, sempre solo nominata e non presente in scena. Acquistano invece importanza i figli, presenti dalla terza scena dal terzo atto e nei due atti successivi, che prendono parola ogni volta che sono in scena.

4.1.2. Luogo e scena:

Il dramma si svolge nell’atrio della Reggia di Corinto, sullo sfondo c’è un tempio e da un lato si trovano le stanze della Colchide. Scarse sono le didascalie che accompagnano il testo. Nella descrizione della scena nel manoscritto è stata posta una correzione dall’autore al posto di «Reggia di Medea»: la correzione vede la cancellazione del nome di Medea e la sostituzione con quello di Creonte.

Avendo approfondito lo studio sul Niccolini esaminando i fondi a lui dedicati, presso la Biblioteca Nazionale e la Biblioteca Laurenziana di Firenze, e avendo potuto consultare il testo manoscritto, nella seguente analisi verranno annotate le variazioni filologiche più significative apportate dall’autore nel passaggio dall’autografo alla versione a stampa.

4.2. Atto primo 4.2.1. Scena I

L’opera si apre in medias res con il primo dialogo concitato tra la protagonista Medea e la nutrice Rodope. È interessante osservare come Niccolini decida di cominciare l’opera: innanzitutto pone subito sulla scena la protagonista, a differenza dall’archetipo

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di Euripide, dove il suo ingresso è ritardato e viene affidato alla nutrice il compito di esporre l’antefatto e fare una caratterizzazione indiretta della maga; inoltre si allontana anche dal modello di Seneca, nel quale Medea è in primo piano sulla scena, ma è sola e pronuncia un monologo. Sicuramente Niccolini aveva avuto tra le mani l’opera di Corneille, nella quale si ha un ingresso ritardato della Colchica e si mette in scena il dialogo tra Giasone e l’Argonauta Polluce, che funge da personaggio di protasi e spiega l’antefatto. Nell’incipit, Niccolini porta in scena i personaggi diversi e in questo caso il ruolo protasico viene rivestito dalla nutrice. Evidentemente quest’ultima deve aver annunciato la decisione di Giasone di sposare Creusa e di abbandonare Medea. Medea esordisce incredula con due domande retoriche, chiedendo conferma alla confidente se quello che il marito traditore osa fare sia verità e nel farlo elenca i delitti da lei commessi per aiutarlo:

Rodope, che mai dici? osa Giasone Abbandonarmi, e crede

Dopo il tradito regno, Dopo il german trafitto,

Che a Medea non rimanga altro delitto?86 (vv. 1-5)

Le parole «trafitto» e «delitto», a chiusura di verso nella battuta e in rima, avvalorano ciò che Medea è in grado di fare: si ha il riferimento al crimine nel passato, ossia l’uccisione del fratello Apsirto, e l’anticipazione della natura vendicativa. Il termine «trafitto» indica una ferita provocata da spada e allude alla vendetta sui figli. L’utilizzo anaforico dell’avverbio di tempo «dopo» serve a marcare i gesti estremi di Medea per i quali Giasone non avrebbe dovuto abbandonarla.

Nella risposta della nutrice, che tenta di calmare la padrona furente, si nota la ripresa del modello senecano: se la nutrice di Seneca così si rivolge a Medea:

Sile, obsecro, questusque secreto abditos Manda dolori. Gravia quisquis vulnera Patiente et aequo mutus animo pertulit Referre potuit: ira quae tegitur nocet;

professa perdunt odia vincdictae locum87. (vv. 150-154)

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38 Rodope si esprime in maniera sintetica:

Menzognera la fama

Io bramerei: tu saggia ad ogni evento L’alma prepara, e nel silenzio ascondi L’angosce tue. (vv. 6-10)

In queste parole si ha una prima connotazione di Medea, ossia la sua saggezza: a partire da Euripide Medea è sempre identificabile con la sofia.

Queste parole hanno l’effetto opposto su Medea, che incalza ed inizia a infondere il suo terrore:

Dunque vorrai ch’io resti In questa pena amara

Come vittima muta innanzi all'ara? Tremi l’empio Giason, tremi, ché appieno Non conosce Medea: […]. (vv. 10-14)

Fin dai modelli classici ˗ soprattutto in Seneca e successivamente in Corneille ˗ il nome della protagonista assume una rilevanza particolare, in quanto acquista e rivela tutto ciò che identifica Medea: maga malvagia, che compie azioni orribili e infanticida. Il nome quindi ha una connotazione meta-letteraria.

In poche battute Medea ribadisce due volte ciò che lei è in grado di fare e l’incapacità di Giasone di riconoscerlo. Nella seconda battuta si ha anche l’anticipazione degli eventi:

[…] sul Fasi Amore Già guidava ai misfatti

Questa tremante destra; or nella reggia, Che in fiamme andrà, sulla rivale indegna

Vegga le colpe che il furor m’insegna. (vv. 14-18)

La risposta di Rodope ai vv. 19-20 «Frenati; ancor non venne/ L’ora della vendetta»88, è un recupero senecano: «Siste furialem impetum,/ alumna»89(vv. 157-158).

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«Taci, ti prego, soffri nel tuo cuore. Chi sopporta in silenzio e con pazienza i colpi ricevuti, può ricambiarli: pericolosa è l’ira che si cela; l’odio palese perde la facoltà di vendicarsi […]».

88 Poco rilevante è la cassazione nel manoscritto di «giunse», sostituito con «venne», mentre di maggior rilievo è la modifica del v. 21: «Piccola è l’ira allor che il tempo aspetta; Poco lo sdegno».

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39 Medea così risponde:

È poca l' ira allor che tempo aspetta. Saranno in mia difesa

Arte, valor, ragione,

Tutti gli Dei che spergiurò Giasone.90 (vv. 21-24)

In Seneca è presenta una contrapposizione tra grande e piccola ira: «Levis est dolor qui capere consilium potest/ et clepere sese: magna non latitant mala» (vv. 155-156)91; la prima è quella che deve essere subito vendicata, mentre la seconda può aspettare. Anche questo è ripreso nella battuta di Medea al v. 21, nella formulazione di «È poca l’ira». Il tricolon asindetico rivela alcune delle caratteristiche del personaggio: «arte» è da intendersi come arte magica, «valor» è il coraggio, e la «ragione» è da identificarsi con la sofia. Questi sono gli elementi di cui Medea si avvarrà per difendersi dall’oltraggio subito.

Rodope ritiene che la padrona accecata dal dolore non sia in grado di prendere lucide decisioni, ma Medea è sorda agli avvertimenti e sottolinea la colpevolezza di Giasone, e ribadendo la volontà di vendicarsi, questa volta sul re Creonte: «La mia gelosa rabbia Ei che mi costa/ Tanti rischi e delitti…/ Ei viva all’amor mio; pera Creonte», (vv. 30-33). La nutrice tenta nuovamente di fermare l’impulso vendicativo della padrona rammentandole la sua situazione di esule: «Vano è, Medea, senza il poter, lo sdegno/ Armi non hai, né regno:/ Sola, proscritta, fuggitiva e rea…/ Fra tanti mali che riman?» (vv. 33-36). La quartina è rilevante sia dal punto di vista stilistico che da quello tematico: il terzo verso presenta un accumulo di quattro aggettivi che qualificano Medea, sottolineandone l’emarginazione e la solitudine.

La domanda finale al v. 36 «Fra tanti mali che riman?», è un rimando senecano: «Abire Colchi, coniugis nulla est fides/ Nihilique superest opibus e tantis tibi./ Medea: Medea superest»,92(vv. 164-166).

Ancor più evidente è la somiglianza con il verso di Nerina, la nutrice di Medea, in Corneille: «Vostre pays vous hait, vostre espoux est sans foy,/ Dans un si grand revers que vous reste-t-il?»93 (vv. 315-316).

90 Il testo autografo presenta l’inversione dei termini «valor» e «ragione».

91 «Lieve è il dolore in grado di ragionare e di dissimularsi: i grandi mali sono senza veli».

92 «Nutrice: La Colchide è lontana, di tuo marito non ti puoi fidare, del tuo potere non resta più nulla. Medea: Resta Medea».

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Se nel testo di Corneille la risposta della maga è «Moy, Moy dis-je, et c’est assez»94(vv. 316-317), con un rafforzamento dovuto alla ripetizione del pronome personale, ma senza l’utilizzo del nome proprio, in Seneca e in Niccolini si ha la piena espressione del valore del nome. L’ultimo aggettivo dell’accumulazione in Niccolini è «rea», che fa rima con il nome della protagonista, e ciò intensifica il valore del personaggio e delle sue azioni. Proprio come il drammaturgo faceva notare nella lettera alla sig.ra Palli sopracitata, le rime acquistano efficacia e vitalità.

A questo punto la nutrice interviene proponendosi di parlare con Giasone per tentare una mediazione, con l’intento di ricordargli il passato nella Colchide, i pericoli scampati grazie all’intervento della moglie e il frutto del loro amore:

Lascia che di Giasone io prima esplori Gli occulti sensi, egli rammenti io stessa Quanto oprasti per lui, che io lo trasporti Col pensiero sul Fasi, e gli richiami Nell’attonita mente

Le passate vicende, i suoi perigli, E la prole comune … »(vv. 45-51)

Il campo semantico del ricordo è ribadito insistentemente («gli rammenti», «lo trasporti col pensiero», e «gli richiami nell’attonita mente»). Caratteristica costante, fin dall’antichità, del personaggio di Giasone è proprio l’essere immemor, al contrario della moglie, tant’è vero che questa tragedia viene definita «tragedia di memoria»95.

Udendo la parola «prole», Medea si risveglia dallo stato di collera che le aveva momentaneamente fatto dimenticare il pensiero dei figli e sembra quasi che nel suo ultimo intervento anticipi la vendetta: «È vero… ha figli» (v. 51). L’utilizzo del verbo avere in terza persona singolare e non in prima persona plurale mostra il distacco di Medea, come se i bambini fossero solo di Giasone. I lemmi «perigli» e «figli» rimano tra loro, creano un legame che rende evidente il pericolo in cui stanno per incorrere i due bambini.

La prima scena si conclude con la nutrice che esorta Medea ad andarsene ed annuncia l’arrivo di Giasone.

94 «Io, io, dico, ed è abbastanza». 95

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4.2.2. Scena II

La seconda scena presenta il dialogo tra Rodope e Giasone. Si tratta di un’innovazione niccoliniana rispetto al modello greco e a quello latino, ma può essere una ripresa del colloquio tra Giasone e Nerina nel rifacimento corneliano (Atto III scena II). In Corneille il dialogo è preparatorio al primo incontro tra Medea e Giasone: la nutrice Nerina è assoggettata alla maga perché ha paura di lei, mentre la nutrice di Niccolini si pone da intermediaria ed è solidale con la sua padrona nel tentativo di far ragionare il traditore. Qui Giasone ha il ruolo di accusatore intransigente: egli rimprovera Medea per i crimini commessi, discolpandosi ed addossando tutte le responsabilità alla maga; ciò avviene in un climax crescente che esplode nel finale del colloquio.

Rodope attacca Giasone con l’intento di scalfire il suo orgoglio: «E spento/ In Giasone io vedrò l’ardore antico?» (vv. 53-54), alludendo al coraggio e alla forza dimostrata nelle imprese passate. Altra caratteristica costante del greco è l’alta considerazione di sé, il senso di potere, la fama, il desiderio di gloria, tutti elementi collegabili all’eroismo. Con le parole «Nome vano sarà! […]» (v. 56.) la nutrice pensa di risvegliare la fierezza dell’eroe, dato che non c’è cosa peggiore per un eroe che perdere notorietà e prestigio. Rodope conclude la sua battuta cambiando tono e moderando le parole, affinché Medea venga perdonata: «Signor perdona:/ Così Medea nel dolor suo ragiona» (vv. 56-57). Anche la rima «perdona» e «ragiona» è interessante: la maga è sempre connotata dal campo semantico della saggezza e della conoscenza e in questo caso il dolore non la fa riflettere in modo razionale, ma è sottoposta agli effetti del dolore che accecano la sua mente. Infatti sarà proprio lei che non perdonerà, anzi si vendicherà.

La risposta di Giasone è un calco corneliano: «Je dois tout à Medée, et je ne puis sans honte/ Et d’elle et de ma foy tenir si peu de conte: […]»96(vv. 161-162); nel testo del Niccolini leggiamo: «quanto deggio a Medea/ Io ben conosco, e coll’amor contrasto» (vv. 58-59).

Nel testo francese questa frase si trova nel monologo in cui Giasone esprime il suo dilemma, in quanto si sente scisso tra Medea e Creonte o Creusa. Allo stesso modo nel testo italiano se prima Giasone si rende conto di ciò che deve alla Colchica, subito dopo con una domanda retorica nega l’importanza della maga e i vantaggi che ne potrebbe ricevere: «Ma che mi giova?» (v. 60).

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Successivamente ritorna il leit-motiv della morte di Pelia, lo zio di Giasone, usurpatore del regno dell’Argonauta:

[…] Acasto,

Figlio sdegnato e re, l’armi raduna, Ed a punir s’appresta

L’empia che armò del parricida acciaro

Alle credule figlie il braccio ignaro (vv. 60-64)

Rilevante è la rima «contrasto» «Acasto» (vv. 59-60): il figlio di Pelia è pronto a combattere contro gli assassini del padre. La morte di Pelia ha portato un contrasto non solo tra Acasto e la coppia Medea-Giasone, ma anche un conflitto tra marito e moglie. Si nota la presenza ripetitiva del campo semantico della guerra: «armi raduna», «punir s’appresta» ed «armò».

L’aggettivo «empia» con cui Giasone definisce Medea è presente due volte in questo dialogo, al v. 61 e al v. 81, dove è messo in rilievo in posizione incipitaria di verso. È da ingrati rivolgersi con questo appellativo a colei che ha compiuto, sì dei crimini, ma per il bene altrui.

Il traditore accusa la moglie di aver istigato le figlie dello zio ad uccidere il padre. In risposta, Rodope giustifica il crimine della Colchica, affermando che in questo modo lui avrebbe ottenuto la vendetta che tanto sperava:

Ma dell’inulto padre

Promesso all’ombra era di Pelia il sangue: Alfin Giasone ottenne

Su re malvagio dell’antiche offese Aspettata vendetta. (vv. 65-69)

Il sintagma «aspettata vendetta» indica che Medea ha istigato le figlie di Pelia ad uccidere il padre, non per se stessa o per mera malvagità, bensì per restituire il regno a Giasone. È palese quindi che le azioni di Medea sono determinate ad appianare le difficoltà del suo amato, rinunciando all’etica. Inoltre il sintagma è da considerarsi un ennesimo riferimento anticipatorio, in quanto Medea aspetterà il momento opportuno per compiere il suo progetto di vendetta.

Giasone svaluta Medea, e non volendo tradire la sua natura di “vero” eroe, aggiunge di essere in grado di punire da solo i suoi avversari:

43 Ei non la chiese.

Io so punir col brando

I miei nemici; e patria, e regno, e fama Allor perdè. Quelle innocenti figlie, Che la pietà facea crudeli, io veggo Colle mani di sangue ancor fumanti Unir le palpitanti

Membra del padre entro la tomba: irato Nell’attonita reggia accorre il volgo, E per l’ atroce inganno

Dimentica nel padre il re tiranno. (vv. 69-79)

Il tricolon «e patria, e regno, e fama» rappresenta tutti gli elementi che Giasone ha perso a causa dell’aiuto dato da Medea. Questa è la seconda volta che egli disconosce il vantaggio che la Colchica gli ha procurato.

Altre figure importanti sono i due ossimori «innocenti figlie» e «pietà facea crudeli», l’ipallage-sinestesia «colle mani di sangue ancor fumanti» e in conclusione la rima baciata «inganno» «tiranno», è rilevante per il tema politico. Anche in questa frase si può intravedere la sua linea politica, caratterizzata da una totale avversione per il popolo, colpevole di dimenticare velocemente il passato, e dalla condanna verso qualsiasi forma di potere tirannico:

[…] irato

Nell’attonita reggia accorre il volgo, E per l’atroce inganno

Dimentica nel padre il re tiranno. (vv. 77-79)

Nella ripresa della nutrice, si ha l’impressione che lo stesso autore si sia autocensurato dicendo che non è quella la sede per fare certi rimproveri: «Non è qui loco alle rampogne» (v. 80).

Giasone pronuncia per la seconda volta l’epiteto «empia» riferito a Medea, e subito dopo rinnega per la terza volta il valore della maga e del loro rapporto:

All’empia

Mi congiunse la fuga Se tacqui nel dolore,

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Fu cagion del silenzio il solo orrore. (vv. 81-84)

Quindi secondo il traditore non è stato l’amore a legarli, ma la fuga, la solitudine, la necessità, la situazione. La rima «dolore» «orrore» ribadisce che è il dolore che porterà all’estremo atto Medea.

Rodope pronuncia un lungo intervento, tornando al suo intento di rammentare all’immemor le imprese che Medea ha compiuto per lui. Vengono elencate due delle tre prove dell’impresa del vello d’oro: quella dei tori e quella del combattimento nel campo contro gli uomini armati, nati dalla semina dei denti del serpente. Inoltre la nutrice ripete il discorso diretto di Giasone quando esprimeva alla maga le sue promesse:

Colla mente sul Fasi

Giason ritorni, allor che in lui rivolte Dei minacciosi tori

L’ire vedeva, e sui mavorzj campi Sorger la polve, e fra la polve i lampi; Quando coi lumi intenti

Or al padre, or a lui, tremante, e rea De’suoi veleni dubitò Medea. Ma se obliar tu vuoi

Giasone i rischi tuoi, rammenta almeno Le tue promesse, quando 1’aureo vello Nell’atra notte fiammeggiar vedesti; Ti giuro, a lei dicesti,

Per l’ora del periglio, Per questo cielo, eterna

La mia fede sarà; se questo dono Io dimentico, e te, l’arte m’opprima, Onde tu mi soccorri; allor mi rendi Ai già vinti perigli, ed altre fiamme Trovi all’ingrato il tuo furore. Udia Giove quei detti, e scrisse

La pena che accompagna i patti infranti,

L’Erinni avvezza a vendicar gli amanti. (vv. 85-107)

Le prove sono accennate con due dittologie formate dall’aggettivo seguito dal soggetto: «minacciosi tori» e «mavorzj campi». Torna il tema del ricordo, evidenziato dalla

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ripetizione dei termini riferiti a questa sfera semantica: «colla mente […] ritorni» «obliar», «rammenta» ed infine «io dimentico». Interessante anche la sfera semantica della luce: «lampi», «lumi», «aureo», «fiammeggiar», e «fiamme», elementi che richiamano la fine di Creusa; in opposizione troviamo il lemma «polve» con due occorrenze e «atra notte». Notevoli sono le rime «rea» «Medea» pronunciate per la seconda volta da Rodope (la prima volta nel primo dialogo tra la nutrice e la padrona ai vv. 35-36). Rilevanti anche le rime ai vv. 96-97, «vedesti» «dicesti», due verbi al passato remoto che indicano la realtà e la concretezza dell’azione, anche se lontana nel tempo. Attraverso le parole della nutrice si ha la caratterizzazione di Giasone, abile oratore che ha saputo ingannare Medea.

Dalle carte private del Niccolini si sa che tradusse la lettera di Saffo a Faone contenuta nelle Heroides di Ovidio. Si può dunque supporre che il nostro scrittore conoscesse anche la dodicesima epistola, indirizzata a Giasone da Medea. Si nota la ripresa dei versi ovidiani in cui Medea esita nella sua arte:

Ipsa ego, quae dederam medica mina, pallida sedi, cum vidi subitosarma tenere viros,

donec terrigenae – facinus mirabile!- frates

intersestrictas conseruere manus97. (Heroides XII, vv. 99-102)

Nel discorso indiretto riportato da Rodope che contiene le promesse di Giasone c’è nuovamente un anticipazione di ciò che accadrà a causa del tradimento dei patti coniugali:

Onde tu mi soccorri; allor mi rendi Ai già vinti perigli, ed altre fiamme Trovi all’ingrato il tuo furore. Udia Giove quei detti, e scrisse

La pena che accompagna i patti infranti,

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