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La Medea di Giovanni Battista Niccolini: costanti e varianti rispetto alla tradizione

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DIPARTIMENTO

DI

FILOLOGIA,

LETTERATURA

E

LINGUISTICA

CORSO

DI

LAUREA

IN

ITALIANISTICA

TESI DI LAUREA

LA MEDEA DI GIOVANNI BATTISTA NICCOLINI:

COSTANTI E VARIANTI RISPETTO ALLA TRADIZIONE

CANDIDATO RELATORE

ALESSANDRA MAFFEI Chiar.ma Prof.essa ELENA ROSSI LINGUANTI CONTRORELATORE

Chiar.mo Prof. ALESSANDRO GRILLI

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“Prima di intraprendere la strada della vendetta, scavate due tombe.” Confucio.

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Sommario

1. INTRODUZIONE ... 1

2. GIOVANNI BATTISTA NICCOLINI VITA E OPERE ... 4

2.1. Il ritratto di Giovanni Battista Niccolini ... 4

2.2. La formazione di Niccolini e i primi scritti ... 7

2.3. La produzione delle tragedie classiche ... 11

2.4. Le tragedie moderne ... 17

2.5. Le ultime creazioni e la morte ... 26

2.6. Altri scritti ... 27

3. LA FORTUNA DEL MITO DI MEDEA ... 29

3.1. Medea: da Euripide a Niccolini ... 29

3.2. Altri rifacimenti ottocenteschi ... 32

3.3. Medea nel Novecento ... 33

4. LA MEDEA DRAMMA TRAGICO DI NICCOLINI... 34

4.1. La Medea ... 35 4.2. Atto primo ... 36 4.3. Atto secondo ... 62 4.4. Atto terzo ... 93 4.5. Atto quarto ... 123 4.6. Atto quinto ... 152 5. CONCLUSIONI ... 171 APPENDICE: ... 174 BIBLIOGRAFIA ... 215 RINGRAZIAMENTI ... 217

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1. INTRODUZIONE

L’obiettivo di questa tesi è tentare di riportare alla luce la figura del drammaturgo Giovanni Battista Niccolini, autore ottocentesco originario di San Giuliano Terme, che è stato trascurato al punto da essere quasi totalmente dimenticato. Il lavoro si suddivide in due fasi: nella prima vengono esaminate la vita e le opere dell’autore, mostrando il percorso formativo e l’interesse per il mondo classico, elementi fondamentali per comprendere la vasta produzione di Niccolini; nella seconda si prende in analisi una delle sue tragedie, la Medea. La scelta della tragedia non è stata casuale, ma dettata dal voler proseguire l’interesse e soddisfare la curiosità che la storia di questo mito mi ha suscitato dopo aver frequentato il corso di Letterature comparate, nel quale ho avuto modo di conoscere questa storia e la sua evoluzione nel tempo e nello spazio.

Il corso di Letterature comparate verteva sulle numerose rivisitazioni del mito con lo scopo di mostrare come ciascuna cultura ed autore riattualizzasse ed interpretasse all’interno del proprio sistema culturale, l’imponente figura di Medea, madre infanticida. Partendo dai testi classici di Euripide e Seneca, passando all’opera dal gusto barocco del francese Corneille, per poi analizzare quella di Grillparzer incentrata sull’opposizione etnica, fino a giungere all’epoca contemporanea con le versioni cinematografiche di Pasolini e Von Trier.

Affascinata da questo mito, ho pensato di proseguire ed appagare la sete di conoscenza su questo personaggio anche con il lavoro di tesi. La decisione di scegliere Niccolini è stata immediata, anche per il fatto che si tratta di un autore non solo toscano, ma soprattutto di un comune limitrofo a Pisa: San Giuliano Terme. Scoprire che un autore avesse scritto una sua versione della Medea e fosse della provincia in cui vivo, mi ha intrigata e mi ha spinta ad analizzare la sua tragedia.

Prima di occuparmi del testo, mi sono documentata sul personaggio di Niccolini: la ricerca è iniziata da una prima fase, nella quale ho raccolto maggior informazioni possibili sulla sua vita, grazie ad alcuni libri consultati nella biblioteca del dipartimento e da alcuni siti dai quali ho appreso le prime e generali informazioni. Non soddisfatta dalle scarse notizie disponibili, e data la vicinanza di San Giuliano Terme, sono andata a visitare il luogo dove è nato Niccolini. La curiosità però non si è appagata e iniziando ad analizzare l’opera, mi sono chiesta se esistevano dei manoscritti. Ho scoperto che a Firenze presso la Biblioteca Nazionale era conservato un «Fondo Niccolini», che ho avuto la possibilità di consultare. Il fondo niccoliniano contiene principalmente:

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l’epistolario, il Canzoniere e il manoscritto del Foscarini e dell’Arnaldo; per quanto riguarda la Medea, ho trovato solo l’argomento ed alcuni fogli sparsi autografi (che contenevano principalmente elenchi con i titoli delle opere) dove veniva citata la

Medea. Sorpresa e un po’ demoralizzata per non aver trovato il manoscritto dell’opera,

ho indagato ancora, fino a trovare un altro «Fondo Niccolini», conservato presso la Biblioteca Laurenziana, sempre a Firenze, dove è conservato l’autografo della tragedia. L’esperienza di poter consultare un manoscritto è stata davvero emozionante e molto particolare: non solo a causa dei passaggi burocratici prima di poter accedere ai documenti, ma soprattutto perché mentre sfogliavo le pagine di quel librone antico, dalle pagine spesse, ingiallite e scarabocchiate, ho sentito di essere entrata a contatto con il “laboratorio” dello scrittore. Poter osservare quelle pagine vergate, piene di cancellazioni, di cesellamenti ed aggiustamenti, è stato straordinario. Quest’esperienza mi ha dato la possibilità di sentirmi più vicina all’autore che studiavo, ho avuto la sensazione di poterlo conoscere meglio, anche semplicemente osservando la sua calligrafia.

L’analisi testuale non prevedeva lo studio filologico dell’opera, nonostante la consultazione del manoscritto; sono state annotate infatti solo le varianti considerevoli tra l’archetipo e la versione a stampa, per dare maggior motivazione e maggior rilievo alla ricerca autografa1.

Il lavoro di questa tesi mirava ad analizzare la tragedia Medea di Niccolini in relazione alle versioni precedenti. È stato interessante non solo lo studio dell’opera rispetto alla tradizione a cui Niccolini ha attinto, ma anche venire a conoscenza dell’interazione dell’opera ottocentesca con quella contemporanea di Maricla Boggio2

. Infatti se in generale Niccolini è sempre stato trascurato e poco considerato, nell’opera teatrale

Risonanze dal mito di Medea3, la scrittrice riprende alcuni versi della Medea

niccoliniana, inglobandoli e citandoli nella sua versione4.

1

In appendice ho voluto riportare le fotografie che ho fatto ai manoscritti.

2 Drammaturga torinese contemporanea, che si è occupata dei testi classici nel periodo a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento, rivisitabile in chiave femminista. Cfr. ELENA ROSSI LINGUANTI, «Addio ricordi ingombranti»: l’interazione con i modelli nella Medea di Maricla Boggio, in Dioniso, Pisa, ETS, 2017.

3 L’opera è stata rappresentata a Roma e Torino nel 1981. La versione della Boggio ha come protagonista una Medea moderna, che, sul letto dello psicologo, non presente sulla scena, pronuncia un monologo: in parte in versi e in parte in prosa. L’opera della Boggio si allontana dalla tradizione classica, in quanto la protagonista attraverso il suo monologo arriva alla decisione di non uccidere la rivale e di non compiere l’infanticidio. Ciò è possibile attraverso il processo analitico che la protagonista fa su di sé, passando dal personaggio tradizionale fino a giungere alla donna moderna. Il processo di cambiamento del tempo e dell’analisi psicologica è reso maggiormente evidente dal cambio di vestiti e oggetti di scena. La versione

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In conclusione, si può senz’altro affermare che Niccolini sia un autore molto interessante e polivalente, tutto da scoprire e da far riemergere dai tomi ingialliti. La speranza è che il mio lavoro possa contribuire a restituire a Niccolini, che a causa della critica molto severa nei suoi confronti è stato trascurato e dimenticato, la possibilità di essere conosciuto ed apprezzato.

della Boggio riprende brani dalle tragedie di: Euripide, Seneca, Corneille, Cherubini, Niccolini ed Anouilh. L’opera risulta essere un patchwork tra il monologo moderno e gli intertesti precedenti inseriti e collegati tra loro nell’opera. La citazione è esplicitata o tramite il nome dell’autore, o da brevi passi in lingua originale o dai riferimenti extratestuali, identificabili con l’abbigliamento dell’epoca storica del testo citato.

4 La Boggio riprende da Niccolini i vv. 541-558 e i vv. 656- 670. La prima ripresa è dal dialogo tra Medea e Giasone in presenza dei figli (Atto III scena III). Qui Medea tenta di convincere Giasone a non abbandonarla, sfruttando l’affetto che lui prova per i figli. La Boggio fa commentare alla protagonista la Medea niccoliniana, mettendo in evidenza la differenza dei genitori nel rapporto con i figli. La Medea moderna continua ad essere spinta verso l’odio nonostante tenti di liberarsi dei vestiti antichi, e riprende a recitare il monologo iniziale di Medea dell’atto IV di Niccolini. Da Niccolini vengono ripresi 15 versi su 22, dove Medea pianifica la vendetta sulla rivale Creusa in presenza di Giasone che inerme assiste alla morte dell’amata, poi il personaggio della Boggio riesce a liberarsi dei panni antichi continuando il suo percorso di autoanalisi. La Boggio riprende quindi due elementi dell’opera niccoliniana: il diverso rapporto tra figli e genitori, mostrando la componente strumentale della relazione, e la pianificazione della vendetta, riportando Medea all’odio verso la rivale.

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2. GIOVANNI BATTISTA NICCOLINI VITA E OPERE

2.1. Il ritratto di Giovanni Battista Niccolini

Nella sua biografia ottocentesca Atto Vannucci5 ritrae con dovizia i vari aspetti del carattere dello scrittore, connettendoli alle sue opere letterarie e fornendo un ritratto a tutto tondo dell’autore:

Tutti quelli che conobbero l'uomo ricordavano la mirabile concordia con cui in esso andarono congiunti il raro ingegno e la forza e la bontà e la gentilezza dell'animo candido, schietto, compassionevole e soccorrevole all'altrui miserie. In mezzo ai rumori della fama, egli aspirò vivamente e soprattutto alla gloria di galantuomo. L'aver fatto una buona azione anch'egli stimava la sua miglior opera, credendo fermamente che tutto il resto sia vanità. Il combattimento di Arnaldo tra la ragione e la fede dava sublime tormento anche al suo intelletto, ma riusciva sempre a una forte credenza nel bene: egli scrisse che il suo cuore non poteva sentire coi predicatori del nulla, quantunque la sua alta ragione gli facesse respingere sdegnosamente le frodi di quelli che a Dio dettero tutte le loro basse e malvage passioni, e messero i dommi in contradizione colla morale, e fecero crudele e barbara una religione mansueta e civile. L'imagine del suo volto rimane per opera di valorosi artisti nelle tele, nel marmo, nel bronzo: quella del suo animo e della sua mente sta negli scritti in cui rivelò tutto sè stesso. L'uomo che in pubblico era timido così che spesso lo avresti creduto un fanciullo, nelle speculazioni della mente sempre apparisce ardito ricercatore del vero, non pauroso di nulla, combattitore intrepido di ogni errore, di ogni malvagia potenza; facilmente sdegnoso e irritabile, e al tempo stesso severo con sè, non dissimulatore dei suoi difetti, e pronto a compatire benignamente agli altrui, e sostenitore delle dottrine che insegnano la tolleranza, tranne le questioni sui fondamentali principii, in cui stimava colpa il transigere. Pose l'affetto dei buoni avanti ai rumori della fama, all'ammirazione, a ogni cosa. E i buoni tutti lo amarono. Fu caro ai sapienti più insigni, a tutti i nobili e generosi cultori delle lettere, ed ebbe guerra di contumelie solo dagli invidiosi, dai faziosi, da tutti i

5

Tutte le notizie riguardanti la vita e le opere di G.B. Niccolini si devono all’accurato lavoro dello storico Atto Vannucci, il quale si è occupato di redigere la biografia, corredata dalla raccolta di lettere, delle pubbliche testimonianze e delle relazioni, sia quelle amichevoli che quelle con i critici, che Niccolini ha intrattenuto durante tutta la sua vita.

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malvagi, trafficatori di lettere, di adulazioni, di vanità, di viltà. Educato all'antica scuola dei classici, pei quali ebbe grande, libero e inestinguibile amore, nella sua virilità si trovò in mezzo alla fiera contesa sorta tra i liberi novatori e i ciechi adoratori del vecchio. I primi volevano la libertà del pensiero, l'emancipazione dell'arte, una letteratura nazionale, e originale; e la ragione in massima stava per essi: ma fatte poche eccezioni, i più, come uno di loro affermò, guastavano le teorie con fatti non buoni. Gli altri rimanevano ostinati nel loro culto agli antichi, e senza badare al vero delle nuove domande e ai bisogni portati dal tempo, rispondevano con oltraggiose parole, con vituperi. Il Niccolini stimava che fosse una questione di nomi, e credè possibile di conciliare le parti. Era per tempra di cuore e d'ingegno disposto ad accogliere ogni libera idea fino al punto in cui, ai suoi occhi, non uscisse dai confini del vero e del bello: lo avea mostrato fino dai suoi primi ragionamenti sull'arte, e nella difesa di Michelangiolo contro i pregiudizi accademici, contro i precetti intesi a circoscrivere l'immensa natura in angusto cerchio: lo mostrò nella disputa sulla lingua, portandovi libertà fino allora inaudita. Quindi nelle nuove agitazioni della critica presenti la trasformazione e i nuovi destini dell'arte bisognosa di forme più larghe: vide ragionevole e inevitabile la rivoluzione che, come in ogni altra cosa, si tentava nella tragedia e nel dramma. A lui parve che vi fosse una via di mezzo tra la servilità e la licenza, e per questa via entrò scrivendo il Foscarini, il Procida, il Filippo Strozzi, l'Arnaldo, dando ad ogni materia le forme che essa è disposta a ricevere, e non curando le arbitrarie leggi dell'uso, ma tenendosi a quelle del nostro intelletto. Contro quelli che, fuori degli antichi, disprezzavano tutto, sostenne che il non curare le moderne letterature straniere è superba stoltezza, perocchè la luce e gli esempii del bello si debbono cercare dovunque risplendano: e i grandi poeti alemanni studiò e ammirò, e fra essi cercò i liberi maestri di maschia e spregiudicata filosofia; e dagli Inglesi imitò più tragedie: dichiarò generoso il dar cittadinanza all'ingegno d'ogni paese, e lo stringere le varie famiglie del genere umano col sacro vincolo del pensiero: disse necessario non tenere la nostra letteratura disgiunta dalle altre, e servile ed immobile, ma al tempo stesso a lui parve che il fatto di una letteratura europea si rendesse impossibile per la diversità delle fisonomie, delle individuali mature, delle storie e delle tradizioni dei popoli. E se anche dopo essere entrato colle opere nella via delle novità, ed aver dato coll'Arnaldo l'esempio della più larga e libera forma drammatica,

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colla critica combattè alcune delle massime nuove , e contro di esse scrisse impetuose parole, e aguzzò l'epigramma, e riprodusse dall'inglese la

Beatrice Cènci a prova delle nuove licenze, e delle mostruosità della scuola satanica, ciò non fu, come altri disse, contradizione, ma sdegno

contro le esagerazioni della libertà, e gli abusi e i traviamenti chiamati progressi. Professava di aborrire ogni gusto esclusivo, di non parteggiare per niuna fazione, di non essere nè classico nè romantico, di obbedire alla sua inclinazione, di non servire a niun pregiudizio, di non voler dare nè ricevere leggi da alcuno in fatto di gusto; mala superstizione, riprovevole anche con Dio, non doversi usare per modo alcuno cogli uomini: quindi brutta la cieca adorazione ai moderni dopo averla con ragione rifiutata agli antichi; bruttissimo proporre la servile imitazione di modelli non rispondenti al gusto italiano, e così fare schiavo anche il nostro intelletto. -Ad ogni modo la sua critica fu sempre sagace, generosa, libera amica del vero, e della filosofia che poco esclude e molto comprende, sdegnosa delle futili questioni, schietta e aperta nemica agli enimmi, e alle nebbie adunate da chi vorrebbe offuscar la ragione. Alieno per indole dalle contese, quando vi entrò non vi rimase mai a lungo. Chiedeva che gli altri facessero liberamente i fatti loro, e lasciassero a lui fare i suoi, intento nello studio del vero, e nel dare forme facili, splendide, evidentissime, ai pensieri della sua mente. A ciò attese con lungo e continuo lavoro, e, senza troppo curare il successo degli scritti, e mirando solo a un alto fine morale, nella vita dell'intelletto piena d'amore e di luce trovò conforto ai mali del corpo e dell'animo all'anarchia dell'idee, alla vista del sentimento che pareva andarsene in computi e in cifre, allo spettacolo di tutte le umane tristizie. Con questo infaticabile studio creò le opere che fecero il suo nome riverito da tutta Italia, la quale concorde ammirò gli alti pensieri espressi con grande potenza nelle brevi, calde ed energiche prose, e nei versi di nuovo, vario e splendido stile, solenni manifestazioni di virile amore e di sdegno generoso. La critica notò i difetti delle sue opere: ma della più parte di quelle da lui pubblicate, con sicurezza può dirsi che, sotto il rispetto letterario, morale e civile, rimarranno uno dei più nobili monumenti dell'età nostra. La parola fu per lui arme usata potentemente a combattere per la diffusione delle idee che ora si convertono in fatti: e se con grande ragione si celebrano religiosamente quelli che nelle battaglie dei campi o sui patiboli dettero il sangue alla patria, è dovere ricordare con affetto

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quelli che colle feconde battaglie del pensiero resero possibili e fortunate le battaglie delle armi6.

2.2. La formazione di Niccolini e i primi scritti

L’arco della vita del Niccolini (San Giuliano Terme, 29 ottobre 1782 - Firenze, 20 settembre 1861) abbraccia grandi cambiamenti per l’Italia: sono gli anni in cui la penisola subisce le forti ripercussioni della Rivoluzione francese, poi vede l’arrivo di Napoleone con il suo governo dispotico, ed infine il passaggio dalla moltitudine degli Stati indipendenti al compimento dell’unità del Regno nel 1861.

È un’epoca di grandi tendenze riformatrici: il Gran Ducato di Toscana era guidato da Pietro Leopoldo, un sovrano illuminato, sotto la cui amministrazione la Toscana diventa lo Stato promotore nel mondo di nuovi principi, tra cui l’abolizione della pena di morte nel 1786.

Il padre Ippolito, conoscitore di quattro lingue straniere7, era stato chiamato a ricoprire la carica di Commissario Regio, che consisteva nell’accogliere gli illustri visitatori del luogo, che giungevano da tutta l’Europa grazie alla notorietà che all’epoca riscuoteva la località dei Bagni di San Giuliano8. Ed è proprio qui che da Ippolito Niccolini e Settimia da Filicaja, discendente del poeta Vincenzo da Filicaja, nacque Giovanni Battista Niccolini.

La sera del 30 ottobre del 1782, presso la parrocchia di San Giuliano Terme, si svolse il Battesimo di Giovanni Battista Niccolini. Ciò è testimoniato da alcuni documenti autografi ritrovati da Luciano Bacci nell’archivio della stessa Parrocchia e inviati a Giovanni Sbrana che si è occupato di renderli noti9. Di seguito è riportato il manoscritto di nostro interesse10:

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VANNUCCI 1866, Vol. I., pp.85-90. 7 GUASTALLA 1917, p.1.

8 VANNUCCI 1866, Vol. I, p.5. 9 SBRANA 1984, pp.15-21. 10

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La scelta di inserire l’autografo è per eliminare ogni dubbio riguardo alla datazione della nascita del Niccolini, poiché molti la indicano in maniera errata tra il 1784 e il 1785, come riferisce la biografia di Atto Vannucci11; lo stesso Niccolini pone erroneamente il giorno della sua nascita nel giorno del Battesimo, come si può osservare dal suo componimento intitolato Il 31 ottobre, giorno in cui son nato.12

Nonostante le origini aristocratiche di entrambi i genitori e l’impiego pubblico del padre, le condizioni economiche della famiglia Niccolini non erano rosee ed andarono a peggiorare con la morte del capofamiglia (data sconosciuta).

La madre fece ricevere al figlio la migliore istruzione sotto la guida di Angelo D’Elci, marchese letterato e bibliofilo, e successivamente sotto quella di Giovanni Battista Zannoni, presbitero letterato e archeologo italiano, al quale Niccolini dedicò la traduzione dei Sette a Tebe.

11 VANNUCCI 1866, Vol. I, p.5. 12

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Sollecitato anche dalla discendenza materna, da Vincenzo di Filicaja, Niccolini dimostrò fin da bambino le sue abilità poetiche.

Proseguendo negli studi, si avvicinò al latino in maniera appassionata, ma solo dopo aver ricevuto un commento tagliente da parte di un prete: «Già! È nobile e sarà ciuco come gli altri». Tale evento lo ferì nell’orgoglio, suscitando in lui un sentimento di rivalsa, che lo fece applicare con molta dedizione alla materia, riuscendo così ad ottenere ottimi risultati, fino a dilettarsi nella stesura di una Satira, intitolata Dulcia

dogmatico foedabat pocula naso.13

Grazie alla raccolta epistolare pubblicata da Atto Vannucci, abbiamo alcune informazioni riguardanti gli studi di Niccolini: come dice nella lettera del 29 agosto del 1844, indirizzata al poeta Agostino Cagnoli, egli incominciò a cimentarsi con il greco all’età di quattordici anni: «Sento anch’io ch’Eschilo è più degli altri due tragici greci conforme alla tempra dell’animo mio, e ne fui pago fino da giovanetto, avendo cominciato ad imparare il greco all’età di quattordici anni …»14

; nella lettera inviata a Giovanni Morelli, storico d’arte e politico italiano, del 12 febbraio 1845 racconta come aveva intrapreso gli studi dell’inglese, e si deduce anche la sua conoscenza del francese:

[…] gli dirò che studiai l’inglese da giovinetto in Pisa, e mi fu insegnato non da verun professore di quella Università, ma da una buona vecchia, la quale si mostrava discreta, non prendendo da me che 10 lire toscane al mese per salario alle sue fatiche. Lo Sterne prima lo lessi in francese, e poi in inglese, quando Foscolo lo tradusse in questa città nell’anno 1812 o 13 […]15

Nel 1798 Niccolini si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza all’Università di Pisa, dove conobbe il poeta toscano Giovanni Fantoni. Gli anni universitari furono rocamboleschi: aderì alle idee innovatrici che giungevano dalla Francia rivoluzionaria e che convertirono per un breve periodo la Toscana a Repubblica (1797). L’insurrezione aretina (1799-1800)16 portò ad un moto di reazione in tutta la Toscana, e Niccolini ne fu una vittima, in quanto venne arrestato e condotto in Fortezza17. Temendo le

13 VANNUCCI 1866,Vol. I, p.7.

14 VANNUCCI, 1866, vol. II, pp.343-344. 15

Idem, pp.362-363.

16 Arezzo era una della zone più soggette alla reazione popolina: la nobiltà locale organizzò un esercito per combattere quello francese e opporsi così alle idee rivoluzionarie. L’insurrezione era analoga a quella delle Calabrie dei Sanfedisti guidate dal Cardinale Ruffo.

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ripercussioni, si mise una parrucca per nascondere il taglio del codino18, simbolo di fedeltà repubblicana19.

Nel 1799 Niccolini conobbe il Foscolo, con il quale istaurò un’amicizia duratura: Foscolo infatti nel 1803 gli dedicò le sue Poesie e la traduzione della Chioma di

Berenice di Callimaco20. Molti critici sostengono che in Lorenzo Alderani a cui Jacopo Ortis indirizza le sue lettere si debba identificare Niccolini stesso21.

Dopo la laurea, nel 1802 Niccolini si trasferì a Firenze e grazie all’aiuto dello zio materno, Alamanno da Filicaja, ottenne un impiego all’Ufficio delle Riformagioni. Per un breve periodo frequentò un circolo letterario, gli Amatori della storia della patria, leggendo sonetti e poesie varie nei salotti delle case dei soci. Gli fu affidato il compito di scrivere l’elogio di Vittorio Alfieri, ma non si hanno testimonianze della realizzazione di tale opera.

Gli incarichi pubblici non distolsero Niccolini dal coltivare la sua passione letteraria, e infatti si dedicò alla traduzione dei Versi d’oro attribuiti a Pitagora. Vannucci informa che l’autore ne parla in una lettera mancante sia della data che del nome del destinatario:

Dal comune amico signor Ab. Lanzi ho ricevuto la sua pregiatissima lettera ec. Ho compito da gran tempo la traduzione dei Versi d'oro, ma avendo disegnato di preporvi delle notizie sulla vita di Pitagora, ho dovuto per necessità soggiacere alla noia di molte ricerche per iscegliere fra tanta discordia d'opinioni quelle che mi sono sembrate meno lontane dal vero. Ciò ha ritardato e ritarderà un altro poco la trasmissione del mio meschino lavoro, minore sicuramente di tutta opinione che ella possa avere nella mente.22

18«Anche il Niccolini ebbe a soffrire dagli Aretini, perché parlando con risentite parole di quei vituperii fu con altri arrestato e condotto prigione in Fortezza. E come dopo essersi tagliata la coda, in quei giorni se n'era messa una finta, costretto a ciò da riguardi domestici e dal timore di mali peggiori, mentre veniva condotto in Fortezza, i reazionarii accostatisi a lui e tastando e trovando posticcia la coda, lo schernirono, come usavan con gli altri, cantando: E se la coda ti resta in mano,/ Questi gli è un vero repubblicano:/ Urrà, urrà, urrà, /Calci nel c... alla libertà». VANNUCCI, Vol. I, p.9.

19 Il codino era un simbolo politico che rappresentava l’Antico Regime. La Rivoluzione Francese aveva portato una ventata di nuove idee e aveva modificato il pensiero popolare. Anche la moda seguiva la nuova corrente politica; se il codino rappresentava l’antico regime, bisognava renderla un’acconciatura sorpassata, ed il gesto di tagliarlo indicava un recidere con il vecchio mondo politico e l’instaurazione di quello nuovo.

20 Idem, p.15.

21 FOSCOLO, Ultime lettere di Jacopo Ortis, 2007, p.37. 22

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La prima opera composta da Niccolini è un poemetto intitolato Pietà (1804), ispirata alla pestilenza che colpì la città di Livorno. L’opera aveva come modello stilistico quello di Vincenzo Monti23, e venne apprezzata e lodata dal Foscolo.

Niccolini redasse poi due saggi: un’orazione elaborata nel 1806, nella quale prende in esame gli antichi e mostra degli esempi di sculture e pitture ispirate da opere poetiche, intitolata Sulla somiglianza la quale è tra la pittura e la poesia e delle utilità che i

pittori possono trarre dallo studio dei poeti; un secondo discorso, del 1809, Quanto le arti conferir possono all’eccitamento della virtù e alla sapienza del viver civile, che

tenta di spiegare, attraverso vari esempi, che le arti non hanno come unico scopo quello di intrattenere e divertire.24

Nel 1807 Niccolini ricoprì la cattedra di storia e mitologia a Firenze, divenne segretario e bibliotecario presso l’Accademia delle Belle Arti e successivamente fu nominato Maestro dei Paggi25. Come segretario entrò in funzione il 5 novembre, in sostituzione del gallerista Tommaso Puccini che abbandonò tale mansione. Molti documenti presenti nell’archivio dell’Accademia testimoniano la grande devozione di Niccolini a questa attività: uno tra i più rilevanti è quello che attesta la sua partecipazione nel 1810 alla Commissione incaricata di scegliere e conservare manufatti e opere d’arte26

. Per quanto riguarda l’impiego di bibliotecario, sappiamo che Niccolini si prodigò per aiutare gli artisti, richiedendo libri nuovi e aggiornati.27

L’inclinazione personale per il mondo classico lo spinse verso la composizione delle sue prime tragedie di argomento greco.

2.3. La produzione delle tragedie classiche

Nel 1810 Niccolini fece il suo debutto come tragediografo e concepì la sua prima tragedia di cinque atti, la Polissena, che riscosse un gran successo: fu premiata dall’Accademia della Crusca aggiudicandosi il premio di 500 napoleoni e fu ben accolta dal pubblico alla sua rappresentazione del 15 gennaio del 1813 a Firenze. L’opera di Niccolini riprende l’Ecuba euripidea, ma se ne distacca e rielabora il mito dando rilievo soprattutto ai contrasti dei sentimenti: l’amore di Polissena per Pirro, uccisore del padre

23

GUASTALLA 1917, pp.4-5. 24 Idem, pp. 5-6.

25 Il Maestro dei Paggi era un incarico d’insegnamento. 26 VANNUCCI, 1866, Vol. I, p.11 in nota.

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e del fratello, Ecuba donna e madre disperata e sopraffatta dagli eventi, costretta a chiedere clemenza agli usurpatori del suo regno per tentare di salvare le figlie.

Niccolini si sente più affine ad Eschilo come lui stesso riferisce in una lettera al Cagnoli (sopra citata cfr. p.9): non stupisce trovare tra le sue opere una traduzione dei Sette a

Tebe, che riscuote grandi consensi ed elogi da uomini illustri del tempo come Ippolito

Pindemonte e Vincenzo Monti. Quest’ultimo gli scrisse il 24 maggio del 1817 come la sua traduzione fosse una versione sublime e che non sarebbe sfigurata se messa a confronto con quella fatta da Felice Bellotti:

Credo non mi sia mai accaduto di ricevere alla mia vita dono si caro come la vostra versione dei Sette a Tebe. Io l’ho letta con incredibile mio piacere, e senza pretensione di giudizio vi affermo sinceramente che libera senza licenza, e fedele senza servitù, è versione bellissima e nobilissima, e che il nostro Bellotti il quale presentemente è tutto nella traduzione di Eschilo, suderà molto per non restare secondo, ed esservi al fianco.28

La lettera continua con la promessa di pubblicare e rendere la versione oggetto di studio nel Giornale che sta per nascere: «Se avverrà che finalmente abbia vita il progetto d'un nuovo Giornale, che una numerosa confederazione di letterati sperava di poter qui porre ad effetto (ed era già pronto un invito per avervi nostro Ausiliario), la vostra versione sarà materia ai primi suoi fogli» 29.

In una lettera a Pindemonte, del 7 marzo 1820, Niccolini riferisce la difficoltà di tradurre Eschilo: «Io mi sono rimaso dall’impresa di tradurre questo difficile poeta per amore di altri studi …» e ancora in una lettera a Cammillo Ugoni, del 31 maggio 1817, spiega come ha proceduto nel lavoro:

Se confrontaste con testo la mia versione dei Sette a Tebe d’Eschilo, troverete che, fedele all’avvertimento che precede il mio lavoro, ho tenuto una via di mezzo fra la servitù e la licenza. Non vi ha scrittore che presenti difficoltà più di questo, e per tradurlo bene, bisogna, come dicea Voltaire dei tragici e degli attori, avere il diavolo addosso. (VANNUCCI 1866, Vol. II, p.427.)

28 VANNUCCI 1866, Vol. I, pp.16-17. 29

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Nell’Avvertimento, posto ad incipit del testo nella raccolta delle opere niccoliniane (Le Monnier del 1844), l’autore spiega chiaramente come ha affrontato la traduzione:

Offrendo al pubblico la mia versione dei Sette a Tebe di Eschilo, credo che sia prezzo dell’opera lo accennare i pregi e i difetti di questo Scrittore, e il metodo da me tenuto nel tradurlo. Mostrerebbe d’ignorare che fu Eschilo il padre della greca tragedia, chi ricercasse in esso l’arte mirabile con la quale Sofocle sviluppa l’azione nel suo Edipo, e quel patetico nello stile onde Euripide a piangere ne costringe, o ci dipinga i furori dell’amore in Fedra, o in Ecuba la tenerezza materna. I piani delle tragedie di Eschilo accusano tutta l’infanzia dell’arte; ed egli soverchio desiderio del sublime trascura sovente nelle sue espressioni il bello e il delicato. Ma, in compenso di questi difetti, il suo dialogo è quasi sempre rapido ed incalzante, come la fiamma; regna ne’suoi Cori un’enfasi ed un estro meraviglioso; ti diletta colla varietà delle immagini, ti sorprende coll’ardire delle metafore; e i temerarj voli della fantasia sono qualche volta puniti colla caduta, sovente lo vedi, colla sicurezza e colla felicità dell’aquila, sovra gli altri poeti sollevarsi. Sembra che il suo genio non di rado corregga i difetti del suo gusto, e che, come Sofocle gli rimproverava, gli detti quello che fare ei debba, senza ch’ei se ne avvegga. Tanto è l’impeto, e tanta, per così dire l’audacia ditirambica de’versi di Eschilo che non pare inverisimile che Bacco, più che Apollo, a lui li dettasse, come lasciarono scritto gli antichi. Dal poco che ho detto intorno all’indole di questo Tragico, è facile lo accorgersi che chiunque imprende a tradurlo poeticamente, dee porre ogni sua cura per trasportare nella sua versione quel fuoco, il quale t’invade alla lettura dell’originale. Ed io non avrei potuto nemmeno tentarlo (ché tentativo io chiamo questa mia traduzione) se assoggettato mi fossi alle leggi che imporre vorrebbe ai traduttori la superstizione de’Grammatici, i quali non si accorgono che per mantenersi scrupolosamente fedeli alla parola, si tradisce sovente lo spirito degli scrittori. Ma se ciò persuaso, ho usato di quella libertà che è necessaria a rendere con armonia e calore in un’altra lingua i concetti di un antico poeta, io della licenza quanto della servitù lontano, ho evitato con ugual cura di alternare le immagini ed i pensieri. (NICCOLINI, Opere, Vol. I, pp.185-186).

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Il “tentativo” di traduzione dei Sette a Tebe, come lo definisce Niccolini, oltre a ricevere consensi, creò una competizione con il Bellotti, autore di varie traduzioni greche, su quale fosse la versione migliore. In una lettera a Cesare Lucchesini, Niccolini espone le sue osservazioni sulla versione del Bellotti30. La contesa si concluse dopo lettere di chiarimenti da parte di entrambi31, e così ristabilì il rapporto di amicizia, ma con la pretesa da parte del Bellotti di far rinunciare Niccolini alla pubblicazione dell’intera traduzione di Eschilo. Niccolini mantenne la promessa32.

In seguito Niccolini si cimentò anche nella traduzione dell’Agamennone, pubblicata nella raccolta delle opere del 184433.

In questi anni una breve parentesi dal ciclo mitologico fu il Nabucco, tragedia politica scritta nel 1818, nata dall’impulso di rivendicare i soprusi della tirannia. Fu pubblicata per la prima volta nel 1819 a Londra da John Murray, successivamente fu stampata in Italia ed ottenne grande successo. L’idea nacque dalla delusione e dall’amarezza dettati degli eventi storici: Niccolini, come Foscolo nell’Aiace e Pindemonte nell’Arminio, alludeva a Napoleone.

Del 1819 è l’orazione Elogio di Leon Battista Alberti, nella quale Niccolini palesa le sue idee etico-politiche, condannando qualsiasi forma di oppressione e tirannia e osannando la libertà.

Niccolini tradusse la quindicesima lettera delle Heroides, quella di Saffo a Faone, dedicandola a Carlotta Certillini. Secondo quanto riporta Guastalla, la signora Certellini conobbe Niccolini durante il periodo universitario, e con lui istaurò un rapporto di intima amicizia dopo essere rimasta vedova 34.

In una lettera all’amico Mario Pieri del 27 giugno del 1821, si può leggere il commento dell’autore sopra le proprie traduzioni:

Aggiungo al numero due copie d'una imitazione che ho fatta in terza rima dell'Epistola di Saffo a Faone, che fra le Eroidi d'Ovidio a me sembra portar su tutte la palma. Ho paura di scandalizzare il nostro Pindemonte, religioso, per quel che mi dicono, fino allo scrupolo. Tu sai che in quella poesia d'Ovidio si parla di quel piacere che è peccato: vorrei che la razza mortale non ne facesse altri che ai preti sembrano men gravi. Io forse ho 30 VANNUCCI 1866, Vol. I, pp.469-473. 31 Idem, pp.473-478. 32 GUASTALLA 1917, pp. 9-11. 33 Opere Vol. I, 1844. 34 Idem, p.21.

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mitigate, ma non tolte le licenze ovidiane: gli antichi volevano fatti e non petrarcherie. Ho però lasciato che Saffo parli della voluttà che avea sentito fra le braccia di Faone: oh queste ricordanze senza la paura del Diavolo sarebbero care anche ai devoti!35

L’interesse per gli autori greci portò Niccolini alla stesura di altre tragedie classiche, cioè Ino e Temisto, Medea ed Edipo.

Il 17 marzo del 1823 al teatro la Pergola andò in scena l’Edipo36, interpretato dall’attore Paolo Belli Blanes, conosciuto come maggior interprete delle opere di Alfieri, e dall’attrice Carolina Internari, considerata tra le maggiori attrici tragiche dell’epoca. L’Edipo è un rifacimento dell’opera di Sofocle, come l’autore stesso afferma in una lettera all’attrice Maddalena Pelzet (19 febbraio del 1829) 37

in cui si difende dall’accusa di copiare i modelli:

Senza presumere molto del mio ingegno, mi sembra una solenne ingiustizia l’accusarmi che, innanzi al Foscarini, le mie tragedie non erano che un’imitazione dei Greci. Infatti da chi ho imitato Ino e Temisto? ed il

Nabucco? poteva io trovare un modello fra i tragici antichi? L’Edipo stesso

è in molte parti diverso da quello di Sofocle, e mi sono scostato da esso più di quello che abbia fatto Racine da Euripide nell’Ifigenia e nella Fedra.

L’Ino e Temisto fu rappresentata a Firenze nel Teatro Nuovo il 16 febbraio del 1824 e ripetuta per tre sere di seguito38. Nonostante il giudizio del pubblico, l’autore non era pienamente soddisfatto dell’opera e prima di consegnarla alla stampa vi apportò alcune correzioni. L’idea di trattare la storia di Ino e Temisto è derivata dalla lettura del IV libro delle Metamorfosi di Ovidio,39 nel quale si racconta la storia di Atamante e Ino, marito e moglie di seconde nozze, dato che Atamante era sposato precedentemente con Nefele dalla quale aveva avuto due figli Frisso e Elle. I due coniugi vengono fatti impazzire dalla divinità. Ino, in preda alla follia, si suicida lanciandosi nel mare da una rupe, portando con sé il figlio più piccolo, Melicerta e Niccolini trasforma la vicenda in una storia d’amore, gelosia e vendetta: Atamante re di Tebe, sposato con Ino, ripudia la moglie e sposa Temisto, vedova del re dei Tessali dal quale ha avuto una figlia, Dirce.

35

VANNUCCI 1866, Vol. I, pp.467-468. 36 VANNUCCI 1866,Vol. I, p.123. 37 VANNUCCI 1866, Vol. II, pp.107-108. 38Idem, Vol. I, p.123.

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Temisto, gelosa di Ino e non soddisfatta del solo editto di esilio, vuole la morte della rivale e chiede allo schiavo Medonte di commettere l’omicidio. Lo schiavo si rifiuta di compiere il crimine, e anzi diviene amico di Ino. Atamante e Ino avevano un figlio di nome Learco, che, fuggito dal padre e dalla matrigna che lo perseguitava, incontra Dirce e se ne innamora. Ino, desiderosa di proteggere il figlio dalla malvagità di Temisto, si infiltra tra le Baccanti sul Citerone e diviene la prescelta dalla regina. Ciò che muove Ino è l’amore per il figlio, mentre quello che anima Temisto è la vendetta. L’azione comincia quando Ino finge di essere morta, avvalorando la finzione con la consegna delle sue ceneri a Temisto. Suscita così il rimorso nel marito e la pietà nei suoi confronti e il risentimento verso la matrigna da parte del figlio; tutto ciò porta Temisto a compiere il delitto. La tragedia si conclude con l’uccisione di Dirce ad opera di sua madre e con la morte di Temisto stessa. Nell’argomento posto ad incipit della tragedia viene riportata una breve analisi dei caratteri dei personaggi 40.

La Medea, essendo argomento di questo lavoro, verrà trattata in modo esaustivo successivamente.

Con la Medea si conclude il periodo delle opere classiche del Niccolini; lo stesso autore in una lettera a Cesare Lucchesini del 1823, afferma di aver concluso la sua parabola mitologica poiché il mondo contemporaneo non è più predisposto ad accogliere questo tipo di storie, intento com’è ad occuparsi di cose mondane:

Io sono ad ogni modo riconoscente di tanta gentilezza e del suo compiacersi pel il felice successo del mio Edipo. Il pubblico fu veramente molto indulgente, perché la tragedia, oltre i difetti sommi che in sé contiene, non fu troppo ben recitata, e la vastità del teatro e la calca delle persone fece perdere una quantità di cose. Nel silenzio dell’amor proprio mi sono accorto che gli argomenti mitologici non sono per la nostra età antipoetica; ma ciò poco mi dorrebbe se non avessi scoperto cosa peggiore di questa, cioè che tutte le menti essendo volte alla politica, gli effetti sono

40 «Quanto ai caratteri, nel dipingere Ino, l'Autore non si è allontanato da Orazio che la chiama flebile: in Temisto ha voluto esprimere tutti quei vizi ch'erano necessari per istabilire un contrasto colle virtù della tenera Dirce, e particolarmente di Learco. Questi, virtuoso quanto infelice, passa per le situazioni più terribili, nelle quali possa trovarsi un amante ed un figlio. In Atamante, personaggio secondario, ha rappresentato un vecchio re, che la ferocia di Temisto, i propri rimorsi, e le virtù del figlio puniscono a gara, e conducono, come narrano i mitologi, sino al furore, quando, pel magnanimo rifiuto di Learco, il delitto che gli sembrava più necessario, vano gli torna». NICCOLINI 1844, Vol. I, pp.62.

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poco sentiti, e il core della maggior parte degli uomini è divenuto omai un istrumento guasto e quindi muto41.

Così si conclude il ciclo delle opere mitologiche, ma Niccolini non abbandona la scrittura, e, dando una svolta alla sua propulsione letteraria, si dedica a comporre tragedie di argomento moderno.

2.4. Le tragedie moderne

Con la Matilde, Niccolini pone nuove basi alla sua drammaturgia. La lettera ad Angela Palli, del 10 agosto del 1825, si rivela un documento importante per conoscere l’origine della Matilde: l’autore racconta di aver intrapreso la lettura della tragedia di John Home, scrittore scozzese intitolata Douglas suggeritagli da un’amica scozzese, e di aver voluto riadattare la tematica al pubblico italiano:

Ho dedotta questa tragedia dal Douglas d’Home; ma ho trasportato la scena in Italia, ho fatto tante variazione nel piano, nello stile, nelle situazioni, che ha perduto affatto la fisionomia inglese, [...] M’invogliò a questo lavoro l’amicizia d’una bella scozzese concittadina dell’Home, e che avendo perduto il figlio, si svenne recitando questo dramma in una Società inglese l’anno 1815. Lo lessi con avidità, e, a dirvi il vero, non mi parve una gran cosa; pure i consigli di questa donna, alla cui bellezze era grande ornamento il dolore, poterono tanto su me che mi misi a un lavoro che mi riuscì fra le mani una cosa del tutto diversa da quello che mi ero proposto.42

Nella stessa lettera Niccolini informa che l’attrice che interpreterà la protagonista sarà Carolina Internari, la quale tuttavia per il poeta non era appropriata per quel ruolo, a causa del suo carattere43. L’opera è preceduta dalla dedica all’amica scozzese che aveva suggerito la lettura dell’opera di Home, nominata solo Lady “C”44.

La tragedia narra la storia di Matilde, una donna che viene privata non solo del proprio amore ma anche del figlio, per intrighi politici. Matilde sposa segretamente Guelfo, figlio del rivale del padre. Guelfo muore in un combattimento, lasciando la moglie incinta. Matilde nasconde la gravidanza al padre e dopo il parto allontana il figlio che

41 VANNUCCI 1866, Vol. I, pp.485-486. 42 VANNUCCI 1866, Vol. II, pp.31-32. 43 Idem, Vol. II, pp.31-32.

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verrà cresciuto da un pastore di nome Gualtiero. Il padre di Matilde, prima di morire, affida la figlia ad Arrigo, il quale vorrebbe sposarla, ma lei rifiuta. Arrigo ha un nipote di nome Ormondo, un uomo malvagio che tenta di rapire Matilda per usurpare il potere dello zio. Ormondo organizza un agguato ad Arrigo, il quale sarebbe morto se un giovane non lo avesse salvato. Il giovane è il figlio di Matilde, Normano. Matilde riconosce il figlio grazie ad un cimelio di famiglia che aveva lasciato al bambino prima di abbandonarlo. Ormondo sospetta che Matilde sia innamorata di Normano, ma l’amore di lei è quello di una madre verso il proprio figlio. Ormondo tesse un intrigo come Iago nell’Otello di Shakespeare: fa credere ad Arrigo, uomo dall’indole gelosa e furioso per il rifiuto di Matilde, che quest’ultima sia innamorata di Normano. Nasce così un duello tra Guelfo, nuova identità di Normano, e Arrigo. Ormondo in disparte lascia combattere i due avversari. Guelfo viene ferito, ma prima di morire uccide Ormondo. Matilde tiene tra le braccia il figlio morto e Arrigo, saputa la verità sulle origini del ragazzo, tenta inutilmente di discolparsi, mentre Matilde colta dalla disperazione, si uccide con la spada del figlio.

Alla morte dello zio materno, Alamanno da Filicaja, Niccolini ereditò il patrimonio che comprendeva anche una villa tra Prato e Pistoia. La nuova condizione economica gli permise di dedicarsi in misura maggiore alle occupazioni letterarie. Nello stesso periodo frequentò il circolo letterario di Giampietro Vieusseux, dove conobbe Leopardi.

Nel 1826 si mise a comporre la tragedia intitolata Antonio Foscarini, basandosi sulla lettura della Storia veneziana del Daru Pierre, uomo politico e letterato francese, come si può leggere nella lettera al Pindemonte del 27 settembre del 1823:

M’è avvenuto di leggere nella Storia Veneziana del Daru il tragico caso d’Antonio Foscarini che, per non manifestare il segreto del suo amore per Teresa Contarini, sostenne di morire. Io mi sono invogliato di scrivere una tragedia su questo sacrificio che l’amante generoso fece della propria vita all’onore della sua donna; ma l’istorico francese non fa che accennare il fatto, che potrebbe in sé racchiudere alcuni particolari capaci d’accrescere quello che si chiama interesse drammatico. 45

Il Foscarini ottenne un grande successo e procurò a Niccolini una fama che non aveva raggiunto con le opere precedenti. La tragedia narra la storia d’amore tra Antonio, patrizio veneziano figlio del Doge, e Teresa Navagero. I due erano destinati a sposarsi,

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ma mentre Antonio è in Svizzera, suo padre è costretto ad annullare il fidanzamento e concedere Teresa in sposa al Contarini, terribile avversario del figlio e membro dell’Inquisizione. Tornato a Venezia e saputo dal padre delle nozze, Antonio vuole parlare con l’amata. Raggiunge in gondola la casa di Teresa e canta i versi che le aveva dedicato prima della partenza. Teresa temendo che il marito geloso si vendichi su Antonio, gli dà un appuntamento segreto nel giardino del palazzo dell’ambasciatore di Spagna. All’epoca vigeva una legge che vietava l’ingresso furtivo nel palazzo di un ambasciatore straniero e che prevedeva la pena di morte sia per chi si introduceva segretamente sia per chi parlava con il trasgressore. Mentre nel giardino si svolge l’incontro tra i due innamorati, giunge il marito. Per salvare l’amata, Antonio offre la sua vita, ma viene arrestato dall’Inquisizione. Teresa sente un colpo di pistola mentre è con il marito e sviene pensando ad Antonio. Contarini approfitta dello svenimento della moglie e giunge al Tribunale. La scena si sposta nella stanza degli Inquisitori, dove Antonio viene processato. Foscarini viene a conoscenza del fatto che il suo rivale è un membro dell’Inquisizione. Durante l’interrogatorio Antonio non risponde alle domande riguardanti la sua presenza nel palazzo dell’ambasciatore, per salvare l’onore della donna che ama. Mantiene il segreto anche con il Doge suo padre, che aveva il potere decisionale definitivo quando gli Inquisitori avevano pareri discordi. Preferendo la morte all’onore della propria amata, Foscarini viene condannato a morte. Teresa tenta di salvare l’amato, ma arriva tardi perché il marito, abusando del suo potere, ha affrettato l’esecuzione. Teresa si uccide sopraffatta dal dolore.

La chiave di lettura di quest’opera è posta nell’epigrafe che recita «Summam crede nefas animam praeferre pudori, et propter vitam vivendi perdere causas»46

Il Foscarini andò in scena per la prima volta l’8 febbraio del 1827, nel teatro del Cocomero, che alla morte del Niccolini cambio denominazione in suo onore. Il trionfo di quest’opera ebbe grande risonanza in varie città italiane, come si legge in una lettera inviata all’amico Salvatore Viale del 5 luglio del 1828: «[…] il mio Foscarini, qualunque egli sia nella mente del Salfi, non ha levato un grido municipale: egli è stato a Torino, a Brescia, a Ferrara, a Ravenna, accolto con entusiasmo uguale a quello che destò in Toscana. Conta per lo meno dugento recite con successo uguale, […]»47

. La pubblicazione avvenuta nel 1827 dall’editore Piatti suscitò interesse in tutto il mondo: pubblico e critica erano concordi nel considerare quest’opera un capolavoro, ma insieme

46 NICCOLINI 1844, Vol. II, p. 3. 47

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agli elogi vennero le critiche e le accuse di plagio. Niccolini venne accusato di aver imitato due tragedie: una del 1798, Bianca e Mocassin, di Vincent Arnault, politico, poeta e drammaturgo francese, e l’altra del 1816 di Giuseppe Lugnani, Steno e

Contarena, come si evince dalle lettere indirizzate all’attrice Maddalena Pelzet48. Non è questa la sede per confermare o smentire queste accuse, ma lo studio di Guastalla analizza e mette a confronto le tre opere, scagionando Niccolini49. Nella medesima lettera alla Pelzet si viene a conoscenza che a Lucca fu proibita la messa in scena, a Venezia l’opera fu bruciata, e infine a Roma fu messa all’Indice dall’Inquisizione, come si legge in una lettera indirizzata al professore Giovanni Carmignani del 27 maggio 182750.

Nel 1830 comparve in scena Il Giovanni da Procida, composta da Niccolini in risposta alla tragedia Les Vêpres Sicillennes di Delavigne, scrittore francese. Niccolini, vero patriota, scrive la tragedia per ribattere alle accuse a Giovanni Procida contenute nell’opera di Delavigne. Il punto di partenza è la ribellione della Sicilia, governata dai francesi e stanca dei soprusi. La ribellione scoppia a Palermo all’ora dei Vespri e da ciò prende il nome di Vespri Siciliani. Giovanni da Procida fu uno dei principali organizzatori e sostenitori della guerra. L’opera rappresenta il pensiero politico dell’autore, ponendo la libertà come valore principe della vita e condannando ogni forma di tirannia. L’epigrafe riporta una terzina dantesca, che riassume il tema: «Se mala signoria, che sempre accuora/ Li popoli suggetti, non avesse/Mosso Palermo a gridar: Mora, mora» (Par. VIII, vv. 73-75) 51. Nell’argomento Niccolini riporta alcune della sue fonti: oltre allo storico Giovanni Villani, il Boccaccio ed il Petrarca.

La tragedia fu accolta con favore dal pubblico, ma destò scontenti tra i Francesi e gli Austriaci che chiesero la proibizione della recita. Nonostante ciò, l’anno seguente l’autore riuscì a portarla in stampa, con rimaneggiamenti e modifiche.

Nel 1834 si cimentò nella composizione di una tragedia politico-storica, il Lodovico

Sforza, in cui voleva mettere in rilievo le condizioni dell’Italia alla fine del XV secolo.

È la storia di Lodovico Sforza, detto il Moro, duca di Milano, usurpatore del potere del nipote Gian Galeazzo. Quest’ultimo è sposato con Isabella d’Aragona, la quale richiede l’aiuto del re di Napoli affinché il controllo del regno sia del marito. Sentendosi minacciato, il Moro si allea con Carlo VIII, re di Francia, che vuole far valere sul Regno

48 Idem, pp.57-60.

49 GUASTALLA 1917, pp.35-37. 50 VANNUCCI 1866, Vol. II, pp.54-56. 51

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di Napoli i suoi diritti di discendenza. Mentre Carlo VIII viene accolto ad Asti con grandi onori, Gian Galeazzo muore in circostanze misteriose; per avvelenamento. Della sua morte sospetta si ritenne responsabile il Moro.

Per rendere l’opera più accattivante, Niccolini mescola gli eventi storici con una storia d’amore fittizia tra Bisignano, esule cavaliere napoletano, e Isabella d’Aragona52

. L’epigrafe è tratta dall’Orlando Furioso: «Troppo fallò chi le spelonche aperse/ Che già molt’ anni erano state chiuse,/ Onde il fetore e l’ ingordigìa emerse/ Che ad ammorbare Italia si diffuse./ Il bel vivere allora si sommerse,/ E la quiete in tal modo si escluse/ Ch’in guerre, in povertà sempre e in affanni,/ È dopo stata, ed è per star molt’anni» (XXXIV canto, 2)53.

Anche quest’opera fu censurata, e ne furono impedite la rappresentazione e la stampa. La pubblicazione avvenne a Capolago in Svizzera, e da lì diffusa in modo clandestino. La messa in scena si ebbe molto tempo dopo: la prima fu il 7 ottobre del 1847 e ad interpretarla ci furono Luigi Domeniconi, attore e capocomico, Tommaso Salvini discendente di una famiglia d’attori, Paolo Fabbri, attore e successivamente ispettore e professore al’Accademia dei Fidenti di Firenze, Graziosa Glech, attrice applaudita soprattutto per le commedie goldoniane, e Adelaide Ristori, attrice versatile, figura imponente sulla scena e dalla voce calda e nitida.

Stanco delle critiche, Niccolini decise di mettere da parte gli argomenti politici e di occuparsi della stesura della Rosmonda d’Inghilterra, messa in scena a Firenze nell’agosto del 1838. La tragedia è tratta dalla vita di Rosamonda, figura celebre nel folclore anglosassone:

La storia di Rosamonda, o Rosemonda, è famigeratissima fra gl'Inglesi; […] Ma forse la storia di Rosamonda altro fondamento non ha che un'antica ballata; […] Le incerte avventure di essa diedero argomento ai vari poeti Inglesi, fra i quali giovi rammentare Guglielmo Patisson e il celebre Addisson, che avvisandosi di comporvi un dramma per musica alla foggia italiana, mescolò a gravi concetti invereconde buffonerie; bizzarramente introdusse alla metà del suo lavoro la regina Anna, per toglier così occasione alle sue lodi, e con uno scioglimento nè drammatico nè verisimile guastò quasi a capriccio uno dei casi più belli e più capaci di affetto che si trovino sventure della famosa amica d'Arrigo vennero pure

52 GUASTALLA 1917, p.49. 53

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nell'idioma inglese scritte, per quanto è a mia notizia, due tragedie, in una delle quali di Rosamonda poco più si ritrova che il nome, e l'altra, meno alterando le tradizioni, manca di ogni pregio dal lato della invenzione e dello stile.54

Rosmonda è la bellissima figlia di Gualtiero Clifford, barone anglonormanno, il quale possedeva un castello nella contea di Oxford. Le voci sulla bellezza di Rosmonda giungono alle orecchie del re d’ Inghilterra, Arrigo, uomo dedito ai piaceri carnali, che si adopera con ogni mezzo per sedurre la fanciulla. Rosmonda era innamorata del re d’Inghilterra, il quale però si sposa con Eleonora, regina francese divorziata da Luigi VII. Il matrimonio, nato dall’ambizione di Arrigo e lo sdegno di Eleonora, risulta essere un’unione funesta. La regina d’Aquitania, di indole gelosa, riversa la sua rabbia sulla bellissima rivale.

Nell’opera di Niccolini la vendetta è compiuta in modo innovativo rispetto alle versioni precedenti, ed è espletata per mezzo del veleno. L’idea è ripresa della fonte principale, come l’autore stesso scrive: «Certa cosa è che nessuno degli antichi scrittori lasciò memoria ch'ella perisse di veleno: questa credenza la quale in proceder di tempo prevalse, non si appoggia che sull'autorità dell'antica ballata, e nell'essere stata, fra gli altri vaghi intagli, scolpita anche una coppa sul sepolcro di Rosamonda»55. La scena finale è caratterizzata da grande pathos: la protagonista muore da eroina romantica tra le braccia del’amato.

L’autore rimase insoddisfatto del suo lavoro e decise di apportare alcune correzioni, come scrive nella lettera all’amica attrice Maddalena Pelzet56. Nella stessa missiva si accenna al lavoro successivo, Beatrice Cenci: «[…] sto ruminando la Beatrice Cenci, ma è impossibile che ne sia permessa la recita». Il modello che suggerì al Niccolini la stesura per la sua Beatrice è l’opera di Percy Bysshe Shelly intitolata The Cenci, del 1819. Nella raccolta delle sue opere del 1844, Niccolini riferisce gli antefatti della storia: Beatrice è la figlia del famigerato Francesco Cenci, uomo crudele, incline ad orribili crimini e violenze; esasperata dalle violenze e dagli abusi sessuali del padre, decide insieme alla matrigna Lucrezia Petroni e ai fratelli, di uccidere Francesco Cenci e liberarsi così dai soprusi. Nel 1598 viene ritrovato il cadavere di Francesco Cenci e Beatrice insieme agli altri congiurati viene arrestata. Dopo terribili torture, Beatrice

54 NICCOLINI 1844, Vol. II, pp.261-265. 55 NICCOLINI 1844, Vol. II, p.263. 56

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confessa il parricidio. Tutti i complici vengono condannati. L’esecuzione pubblica avviene l’11 settembre del 1599. La storia di Beatrice Cenci famosa in tutta l’Italia, suscitò compassione per il coraggio dell’infelice fanciulla57.

L’Arnaldo da Brescia vede la luce nel 1840, dopo una lunga preparazione dell’autore,

che si dedicò a studi approfonditi, come si evince dalla lettera del gennaio del 1843 a Pietro Zambelli, in cui ringrazia il fratello del destinatario per aver contribuito alla raccolta della informazioni: «Recatemi alla sua memoria, e ditegli che ho con lui un debito per quel libro tedesco sopra Arnaldo da Brescia: egli non ha voluto ch’io lo pagassi, ma chi sa se il suo dono mi fece frutto».58 Nell’edizione a stampa del 1852 è riportata la vita del personaggio, vissuto tra il 1100 ed il 1155: Arnaldo era un canonico agostiniano; dopo aver studiato a Parigi, sotto la guida del teologo e filosofo Abelardo, tornò a Brescia, dove intraprese una propaganda anticlericale. La Chiesa era dominata dalla corruzione e dimentica dei veri principi. Arnaldo combatté tutta la vita contro la corruzione della Chiesa e il potere temporale del papa. Tentò insieme ai suoi seguaci di far instaurare un potere politico laico a Federico Barbarossa, ma il tentativo fallì miseramente. Arnaldo non smise di perorare comizi anti-papali. Nel 1155 Arnaldo fu condannato all’impiccagione e il suo corpo fu arso e le ceneri sparse nel Tevere. Il capo d’accusa non fu la serrata predicazione contro l’abuso della ricchezza da parte della Chiesa, ma il rifiuto del potere temporale del Papa e della Chiesa.

È una tragedia nata non per la rappresentazione, dato il gran numero di personaggi e la lunghezza dell’opera. È evidente l’intento morale-politico dell’autore, ossia rivelare ad un popolo accecato dalle illusioni le conseguenze disastrose della coalizione tra il pontificato e il potere regio: i personaggi principali rappresentano i tre concetti di teocrazia (Papa Adriano), imperialismo (Federico Barbarossa) e democrazia (Arnaldo). Arnaldo è il portavoce della verità, che combatte per la conquista della libertà. Nella lettera al poeta Andrea Maffei, del 18 gennaio 1844, Niccolini dà dei suggerimenti su come affrontare la lettura della tragedia:

Quando avete letto il mio libro v’accorgerete che, qualora non si voglia proibire la storia, manca in esso la ragione a condannarmi. Lasciando da parte il merito della tragedia, del quale non tocca a me il giudicare, io ho la certezza di aver tenuto la bilancia fra i due partiti, anzi fra i tre, perché

57 NICCOLINI 1844, Vol. II, pp.359-364. 58

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potete dar ragione, se vi piace, o ad Arnaldo, o a Papa Adriano, o a Federico Barbarossa. Prego i miei lettori di non fermarsi al primo Atto, ma di seguitarmi per tutto il corso del Dramma, e leggere e ponderare sopratutto i documenti e le note: allora si renderanno certi che io ho fatto parlare i personaggi non solamente coll’idee, ma pur colle frasi dei loro tempi, e cesseranno quelle lodi che io non voglio, e le calunnie le quali io so di non meritare.59

I temi trattati rendevano la tragedia un testo non pubblicabile in Italia, ma Niccolini riuscì a stamparla a Parigi, grazie all’intervento dell’editore Le Monnier nel 184360, e successivamente a introdurla in Italia illegalmente. Nella lettera a Zambelli del gennaio del 1843, Niccolini scrive:

Quel lavoro di cui mi parlate è già in luogo ove può senza impedimento alcuno stamparsi: vorrei aver fatto cosa degna della grandezza dell’argomento, ma ho ragione di temere che al buon volere non corrisponda la forza, e che voi costà della buona opinione la quale n’avete non rimanghiate ingannato. In ogni modo presto verrà alla luce, e farò si che cautamente giunga a voi e a vostro fratello […]61

.

Altra testimonianza delle difficoltà della pubblicazione dell’Arnaldo è la lettera a Giovanni Morelli del settembre dello stesso anno, in cui Niccolini si mostra preoccupato della censura italiana:

Il mio Arnaldo stampato in Francia è finalmente giunto a Firenze, e qui ora si vende: io la prego d’indicarmi il modo col quale io devo indirizzarglielo perché non cada nell’Inferno di codesta Censura, quo nulla est redemptio. Io glie ne manderò, secondo che promisi, quattro copie, una delle quali io gli sarò gratissimo se può far si che giunga in Berlino allo Schilling, com’ella me ne diede speranza.62

Il testo destò grande clamore e comportò elogi (tra questi possiamo ricordare l’articolo di Cesare Balbo63, e ancor più critiche e polemiche, soprattutto dal mondo

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VANNUCCI 1866, Vol. II, pp.324-325 60 VANNUCCI 1866, Vol. II, p.291. 61 VANNUCCI 1866, Vol. II, pp. 293-294. 62 Idem, pp.309-310.

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ecclesiastico64. Se in Italia l’opinione pubblica era divisa, in Europa l’opera veniva accolta positivamente e in Germania, Inghilterra e Francia vennero eseguite varie traduzioni65.

Nel 1846 l’Italia affrontava molti cambiamenti politici: la Chiesa di Roma guidata dal nuovo pontefice Pio IX, sulla scia di Leopoldo II di Toscana e di Carlo Alberto di Savoia, decise di concedere la Costituzione; ciò fece sì che Pio IX ottenesse molto consenso, tant’è vero che fu definito il «papa liberale»66.

Gli avvenimenti politici aumentarono la delusione di Niccolini. Demoralizzato dagli eventi, ma convinto dell’importanza di criticare la tirannia, Niccolini si cimenta nella stesura del Filippo Strozzi. La tragedia mira a mettere in evidenza i mali provocati dalla sete di potere nella Firenze nel XVI secolo. Il protagonista è un uomo debole ed incline ai vizi, al servizio dei tiranni, dai quali poi viene ripudiato e ripagato con la morte. Nella lettera spedita al poeta Cagnoli, del 30 luglio del 1846, il drammaturgo così si esprime:

Parlerò delle mie poetiche corbellerie, perché ella mene dimanda, e gli dirò che la tragedia la quale sto scrivendo è su Filippo Strozzi, col quale terminò la Repubblica fiorentina: egli si uccise o fu fatto uccidere dal Marchese del Vasto o di Cosimo I granduca nella nostra Fortezza da Basso. Avendo da gran tempo abbozzato questo lavoro, e vergognandomi di non aver scritto nulla sulla storia del mio paese, mi sono posto a questa fatica […]67

.

Questo lavoro, che impiegò anni prima di vedere la luce, fu pubblicato nel 1847. L’epigrafe tratta dai versi danteschi, «O buon Apollo, all’ultimo lavoro/ Fammi del tuo valor siffatto vaso,/ Come dimandi a dar l’amato alloro» (Par I, vv. 13-15), suggeriva la decisione di prendere una pausa dall’attività poetica dopo quest’ultima fatica68

. Infatti Niccolini si ritirò e non produsse fino al 1855, quando vennero stampate le Lezioni di

Mitologia, vari discorsi scritti per gli studenti dell’Accademia delle Belle Arti e della

Crusca.

64

VANNUCCI 1866, Vol. I, pp.69-72 in nota. 65 GUASTALLA 1917, p.62.

66 CAPRA 2016, p.448. 67 Idem, Vol. II, pp.381-382. 68

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2.5. Le ultime creazioni e la morte

Il Canzoniere Nazionale è una raccolta di numerosi componimenti che presentano il filo conduttore di tutta la poetica niccoliniana, ossia l’amore per la patria. Dall’Avvertenza al lettore, scritta dal letterato Corrado Gargiolli, si legge:

[…] il Niccolini, chiuso vie più in sè stesso, nel forte dolore e nell'ira magnanima continuava a cantare liricamente gli affanni d'Italia, i dispregi e gli strazi nefandi; e sempre fedele alle sventure di essa, non lasciò mai di scrivere, ora sperando e or disperando; ma alla perfine trionfando in lui la fede in migliori destini per la patria, e nel comune progredimento. Così egli raccolse nel Canzoniere tutti i secreti gemiti e le imprecazioni sommesse, che potessero udirsi nel bel paese, i vari italici affetti, l'universale dolore e furore. Cessate le pugne gloriose e pie, e tolte alle destre italiane le armi già liberatrici, o rese inutili, proseguì il gran Toscano a combattere coi versi, e fece pure un'immortale vendetta. Qui si pare che il Canzoniere di lui ha un'importanza speciale e singolarissima come lavoro autobiografico, come narrazione d'intimi sensi sublimi, come specchio della mente e dell'animo del poeta.69

Nonostante i valori etici, morali, politici e storici propugnati, Niccolini continuò a non riscuotere successo.

L’ultima tragedia composta dal Niccolini è Mario e i Cimbri. Anche quest’ultimo lavoro si propone di condannare la tirannide dei popoli stranieri sull’Italia. Fu pubblicata nel 1858, ma la figura del Mario aleggiava già da tempo nella mente del poeta, come documenta il Canzoniere Nazionale, che contiene due sonetti sullo stesso personaggio datati 1850. Nel primo sonetto, I nuovi Cimbri nell’Italia70, si commisera

l’Italia per essere caduta sotto il dominio dei tedeschi che la oltraggiano; nella seconda lirica, I Cimbri vinti da Mario71, si invoca un nuovo liberatore per difendere la patria

sopraffatta dai nemici.72

69 NICCOLINI, CANZONIERE, pp.14-15. 70 NICCOLINI, p.115.

71

Idem, p.116.

72 Nel Mario Guastalla individua due intenti del poeta: il primo era quello di esaltare gli animi degli italiani contro l’oppressore straniero, l’altro quello di trovare una mediazione tra monarchici e repubblicani e tra popolani e nobili utilizzando il paragone con i patrizi e i plebei. La lettura del Mario ispirò il Carducci a comporre una canzone, Canzone per il Mario del Niccolini.

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Questi sono, per l’Italia, anni di grandi stravolgimenti, dopo le annessioni nel 1859-60. Per il poeta sono gli anni in cui iniziano a cessare le ostilità nei suoi confronti e ad essere legittimate le sue fatiche letterarie con riconoscimenti pubblici: nel gennaio del 1859 l’Accademia dei Rinascenti di Sesto intitolò il nuovo teatro a suo nome, oltre a decorare il sipario con la sua immagine e un’iscrizione in suo onore; molti altri teatri presero la denominazione del poeta73. Una soddisfazione d’onore maggiore la ottiene nel 1860, quando il re Vittorio Emanuele entra vittorioso a Firenze e Niccolini gli consegna una copia dell’Arnaldo e del Canzoniere Nazionale, identificandolo come il difensore dell’indipendenza italiana74

.

Finalmente nel 1861 Niccolini riesce a vedere il suo sogno politico realizzato: viene infatti proclamato il Regno d’Italia, ma il poeta si ammala e muore il 20 settembre dello stesso anno. Il comunicato stampa del Comune di Firenze emanava la decisione di porre le spoglie nella Chiesta di Santa Croce insieme agli altri grandi d’Italia:

Considerando che Gio. Battista Niccolini è giustamente acclamato primo poeta civile d’Italia; Considerando che con la potenza dell’ingegno precorse ed affrettò il gran concetto della indipendenza e unità nazionale; Considerando che negli scritti emulò di Machiavelli e di Alfieri meritò di aver con essi il comune l’onore della tomba, come ne divise la gloria; Il Magistrato di Firenze con unanime suffragio ha espresso il desiderio, che avvenendo la morte dell’illustre poeta gravemente infermo, le di lui spoglie mortali siano collocate nel tempio di Santa Croce, santuario delle glorie italiane, […]75

.

Niccolini viene ricordato come il poeta della libertà, che amava in maniera viscerale la patria e cantava contro i soprusi della tirannide.

2.6. Altri scritti

Niccolini aveva interessi eterogenei, considerando l’arte polivalente: ha scritto trattati sull’architettura, come l’Elogio di Andrea Orcagna, e su Leon Battista Alberti (sopra citato pag.14), o sulla pittura, come l’orazione Del sublime e di Michelangelo, o sull’arte drammatica come Della Imitazione nell'arte drammatica.

73 VANNUCCI 1866, Vol. I, pp.80-81 in nota. 74.GUASTALLA 1917, pp.79-80.

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