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Medioevo Architettura

Poesia

Robin Robertson, ESITAZIONE, a cura di Massimo Bacigalupo, pp. 169, € 13, Guanda, Milano 2008

Questa terza raccolta di versi di Robin Ro-bertson, una delle voci più interessanti della nuova poesia inglese, appare di primo acchito meno strutturata rispetto alla precedente, Ca-mera Obscura, curata sempre da Bacigalupo per Guanda (2002), che era imperniata sulla vi-cenda biografica di un fotografo vittoriano. Tut-tavia, l'apparente caoticità è funzionale al nuo-vo tema di fondo, ovvero la metamorfosi. Esita-zione è un volume di mutamenti, che si dipana-no sotto l'egida di Ovidio. Del poeta latidipana-no Ro-binson traduce l'episodio di Atteone, fornendo-ne poi, fornendo-nella Parte 2 del libro, un'interpreta-zione in chiave psicoanalitica, quella di un bambino devastato dalla madre gelida, alter ego della dea che l'avrebbe trasformato in cervo per averla vista nuda. Metamorfosi è la rilettura moderna del mito, presente in diver-si altri testi, ma metamorfodiver-si sono anche le traduzioni, da Montale e Neruda oltre che da Ovidio. Significativa è la contrapposizione fra l'antiumanesimo dell'anguilla montaliana e la festosità vitalista di quella di Neruda (Ode al-la zuppa di grongo), a sottolineare come il mutamento travolga nel tempo qualsiasi co-sa, anche i tentativi di chiudere il mondo in interpretazioni ultimative, comprese quelle ni-chiliste. Ma Esitazione è un libro non solo "lette-rario", poiché contiene molti ritratti umani e qua-dri naturalistici sempre nel segno del mutamen-to, come le riflessioni malinconiche dell'autore sul proprio passato (Primavera a New York), ef-ficaci liriche brevi di tema sentimentale (Sicura e Alle figlie che dormono), rievocazioni di amici poeti precocemente scomparsi (Selkie), ritratti di scrittori (Strindberg a Londra e Strindberg a Parigi) o lunghe descrizioni paesaggistiche, so-prattutto marine, della natia Scozia e altre zone aspre delle isole britanniche. Robertson non di-mentica mai le sue origini scozzesi, tanto che, oltre ai luoghi, riaffiora più volte nel volume la cultura celtica, fortemente segnata anch'essa dall'idea della metamorfosi e dalla permeabilità fra mondo dei vivi e dei morti ("Un ospite vale uno spirito in questo momento, / al cardine del-l'anno, quando la differenza / tra le ombre e chi getta ombra è appena aria", Samhain). Nell'ac-costarsi alla natura, Robertson si avvale tuttavia non solo del bagaglio culturale celtico e della tradizione poetica inglese, ma anche del voca-bolario della scienza contemporanea, il che for-nisce un'apprezzabile esattezza al suo discor-so creando una suggestiva discor-sovrapposizione fra piani culturali molto diversi. Chiude il libro la poesia Stringere Proteo (figura già apparsa in precedenza nella breve riscrittura di un episo-dio omerico), che riassume il senso generale della silloge. Tenere fermo Proteo è impossibi-le, tanto meno attraverso la fissità illusoria delle parole: "Tu che sai solo dire la verità, / mostra-mi come trovare un vento fresco / e un porto si-curo. // Mi sveglio nella tempesta di mare, di so-le, di onde abbacinanti; / il vento di mare strap-pa le strap-pagine del mio libro." Impeccabile la tra-duzione di Massimo Bacigalupo per un libro che aspetta solo di essere ietto.

EDOARDO ZUCCATO

Franco Pappalardo La Rosa, IL FUOCO E LA

FALE-NA. SEI POETI DEL NOVECENTO, pp. 146, € 16,

Edizioni dell'Orso, Alessandria 2009

Franco Pappalardo La Rosa riduce e riunisce in questo utile e agile libro una serie di predile-zioni per la scrittura poetica che già in questi anni sono state realizzate in edizioni separate e in dimensioni più ampie. L'autore, del quale vor-rei segnalare anche il fortunato romanzo II caso Mozart uscito recentemente dall'editore Greme-se, ha scelto di occuparsi in questo caso di al-cune personalità poetiche di primo piano del Novecento storico. Tre di loro, dei sei comples-sivi, sono siciliani (Cattati, Piccolo, Ripellino); gli altri tre sono Caproni, De Palchi, Erba. Il meno noto è Alfredo de Palchi, veneto nato attorno al-la metà degli anni venti e ora attivo custode di contemporaneità letterarie a New York: si deve

anche all'attivazione di alcuni intellettuali e criti-ci piemontesi la ripresa di interesse per un au-tore indubbiamente non privo di forza, ma un po' penalizzato dalla condizione biografica di decentramento che lo contrassegna; e qui ci sarebbe da riconsiderare la situazione dei no-stri connazionali nel mondo attivi in poesia; og-gettivamente sfavoriti dalla realtà della lonta-nanza e contemporaneamente preziosi produt-tori di un linguaggio nazionale che si carica an-che di responsabilità esistenziali e psicologian-che particolari. Insomma, è davvero un merito di Pappalardo l'avere aperto uno specchio di luce su un poeta come De Palchi, in certo modo un freelance per quanto non privo di responsabile autorganizzazione al mestiere. Dunque, il meto-do critico dello studioso torinese (di origine sici-liana, come può ben rivelare la scelta generosa

disegni di Franco Mattiochio di autori dell'isola) si definisce anche alla luce dell'operazione di riduzione esercitata sugli esemplari precedenti di questi stessi studi: una vivace, eclettica, ma sempre rigorosamente professionale tensione fra storia della formazio-ne personale dell'autore (il quadro filologico-biobibliografico, come sempre impeccabile), ri-feribilità all'ambiente di crescita culturale e di circolazione dei modelli, preminenza dei punti di forza simbolici attraverso l'indagine sulle co-stanti stilistiche e sugli orizzonti metaforici. In-somma, un esperto mélange di critica stilistica e di indagine tematica e storica, di accertamen-to delle fenomenologie strutturali e di riferimen-to alle culture dell'orizzonte epocale. E infine, anche in questo caso non senza meriti, un agi-le strumento di ricapitolazione e di consultazio-ne tanto essenziale quanto responsabilmente intransigente.

G I O R G I O LUZZI

Riccardo Held, LA PAURA, pp. 98, €14, Libri Scheiwiller, Milano 2008

La paura è, dopo Per questa rilassata acida voglia (1985) e II guizzo irriverente dell'azzurro (1995), la terza raccolta poetica di Riccardo Held. La cadenza più che decennale delle pub-blicazioni sottende una ricerca cauta, accorta e dagli esiti davvero alti: se la critica (Alfano, Fra-sca) ha potuto includere i versi d'esordio di Held nel cosiddetto fenomeno del "rinascimen-to delle forme", per il recupero delie strutture li-riche tradizionali, ora sembra prevalere una più mossa sperimentazione, intesa tuttavia in senso opposto rispetto alle trascorse linee neoavan-guardiste. Il libro è sapientemente costruito: a una rigorosa quadripartizione seguono due si-billine appendici (Di prima I e II); in chiusura della più impegnativa Parte prima, che com-prende il poemetto La paura da cui il titolo del-l'intera raccolta, è collocata la Pausa in prosa, vera e propria zona di combustione gnomica fra io e mondo, che preannuncia la ripresa doloro-samente parodica di Una convivialità per spiriti davvero elevati e soprattutto di Non hai finito, si-tuate nella seconda parte. Nella parte terza e quarta prevalgono l'equilinguismo italo-tedesco e le presenze "paterne" di Rilke, Kafka e Benn. Le due appendici sembrano, infine, raccordarsi all'estremismo classicistico delle due prime rac-colte, con testi brevi di isolate terzine o quartine cristalline, fino agli splendidi sonetti Per mio pa-dre e Ma corri, seguila fino alla porta, già pre-sente in II guizzo irriverente dell'azzurro. Affron-tando i singoli testi, si può dire innanzitutto ciò che Held non è: non un epigono neoheidegge-riano, non un orfico postmoderno. La paura, bi-partita fra voce materna e paterna, fra pulsione di morte e fantasmi dell'eros, qui non è il risulta-to dell'essere-per-la morte, ma del confronrisulta-to

agonistico con la materialità dell'esistenza. Le rivitalizzazioni dei poeti tedeschi e italiani, da Benn a Leopardi, non sono risolte in falsetto di-sincantato, ma in assunzione di eredità o nega-zione, torsione e rovesciamento, come nel caso esemplare deW Infinito: "Ostile ti sarà sempre quel piano / e questa linea che da nessun luo-go, / di nessun orizzonte l'occhio include" (Non hai finito). La voce in La paura sente il bisogno di fare appello non solo a un io e a un tu ma an-che a una comunità ("Cari amici, cari colleghi"; "So cari amici che vi chiederete") a cui ci si ri-volge in modo provocatorio e farneticante. Sia che prenda le mosse dai "congegni" che prelu-dono alla morte biologica che dai guizzi inter-mittenti dell'eros, la pulsione della paura serve in primo luogo a straniare un corpo sociale os-sessivamente intento a "prendere per vero ii fal-so", all"'inconsistenza" o allo "scambio di denaro o di favori". Ecco perché dall'io Held può slittare al noi, oltre ogni retorica sulla "fi-ne dell'esperienza": il noi senza illusioni che accomuna, con un sarcastico gioco di paro-le, il destino e l'orgoglio di homo sapiens a quello dell'aspirapolvere: "anche noi, anche noi, nel nostro piccolo / aspiriamo alla polve-rei". Un altro poeta italiano, negli anni cin-quanta del Novecento, aveva scritto un poe-: metto dal titolo La paura, dedicato agli "ami-? ci di Officina" Pasolini, Roversi, Leonetti, Vol-poni. Anche lì i fantasmi famigliari erano "di-vorati dall'ombra". Anche lì la paura era "la li-bertà della contraddizione / che porta al dolore le parole".

EMANUELE ZINATO

Vincenzo Frungillo, OGNI CINQUE BRACCIATE, prefaz. di Elio Pagliarani, postfaz. di Milo De An-gelis, pp. 136, € 20, Le Lettere, Firenze 2009

Il napoletano Vincenzo Frungillo, con intelli-genza e sapienza, supera separazioni tra lirica e poesia-racconto, sperimentazione e tradizione, muovendosi in un humus che le riguarda tutte e trovando una voce personale, nella tensione fra i due estremi rappresentati da prefatore e post-fatore: Elio Pagliarani e Milo De Angelis. Il primo parla, per questo libro, di poema epico-narrati-vo, essendo esso dedicato alle nuotatrici della Ddr che nel 1980 vinsero le Olimpiadi di Mosca, con conseguenze gravissime, tra malattie e for-me di androginia, per gli anabolizzanti assunti (le pastiglie "azzurre"). Saremmo Dopo la lirica, come s'intitola l'antologia einaudiana che pro-prio nel 1960, anno del poemetto La ragazza Carta di Pagliarani, individua la svolta. E il poe-ma di Frungillo si articola rigorosamente, diviso in cinque canti, ciascuno diviso in sequenze e le sequenze in ottave scandite da rime alterne, con pausa ogni cinque ottave, come il respiro che si tira nel nuoto dopo l'analogo numero di braccia-te. Ma questo finché la macchina testuale deve formalmente renderci l'armonia e la misura stes-sa del gesto atletico. Ma, dal momento della "caduta", il deformarsi di corpi e vita ("Le loro gesta, le loro azioni, / ora si propagano in radia-zioni"), si cambia registro, pur in una sostanzia-le continuità, nel senso che siamo lontani dai plurilinguismo del "modello" Pagliarani, e la "sperimentazione" avviene all'interno di forme date. E seppure Frungillo rievoca avvenimenti ("tempo", "storia", "memoria" sono lemmi fonda-mentali), la sua non è una poesia-racconto. La voce, pur "narrando", assume la "densa rarefa-zione" di una poesia che ci porta verso territori altri ("La perfezione originaria all'ora prima, / tut-to nasce e ritut-torna nella frase inaudita, / alla vigi-lia di ogni gara torna la rima / che dispone a staf-fetta la loro vita": dove insieme al nuoto tema è la poesia stessa) e acquista magari qualcosa dell'impasto poetico dell'altro "modello", Milo De Angelis, cantore, nel recupero del mito di Spar-ta, delle giovani atlete. Ma, a differenza di Frun-gillo, De Angelis è attratto dalla bellezza in sé del gesto atletico decontestualizzato e assolutiz-zato (e di Frungillo cita proprio questi versi: "Quando arriva la spinta dell'ossigeno al polmo-ne / e diventa potenza pura, assoluto furore"). Mentre qui c'è un prima e un dopo, il mito nazi-sta-filosovietico delia costruzione dell'uomo nuo-vo e del mondo nuonuo-vo, e l'orrore senza tempo che si spalanca.

I D E I LIBRI D E L M E S E

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Nina Berberova, IL CAPO DELLE TEMPESTE, ed. orig. 2002, trad. dal francese dì Francesca Bruno, pp. 266, €16, Guanda, Milano 2009

Il Capo delle Tempeste (primo nome del Capo di Buona Speranza) è un ro-manzo inedito di Nina Berberova, scritto dopo la guerra, poco prima che l'autrice emigrasse per la seconda volta, verso gli Stati Uniti. La sua musica lieve, un po' asprigna, poetica e kitsch al tempo stes-so, ha un'aria di déjà vu, ma un anda-mento nuovo. È il romanzo di tre ragazze dell'emigrazione russa, tre ipostasi della stessa Berberova, figlie del valoroso e un po' ridicolo colonnello Tjagin e di madri diverse. Come le tre sorelle òechoviane sono vivaci, animate da sentimenti since-ri, sostenute da convinzioni filosofiche: per una di loro, l'armonia universale di cui sogna Alèèa Karamazov, per un'altra il rancore dell'intellettuale materialista ebreo Kovner, che con Dostoevskij ebbe una singolare corrispondenza. Nel loro piccolo appartamento, sotto il cielo di por-cellana parigino, tessono i propri destini contrastanti. DaSa, la maggiore, incalzata dall'età, sposa il figlio di un direttore di banca e si trasferisce nella sua ricca pro-prietà in Algeria; Elisabeth, la più giovane e più inquieta, nata da un'avventura con un'attrice francese di Odessa, vive alcune passioni parigine, recita, declama versi ispirati da Blok in un caffè di Saint-Ger-main: "Tutti noi, invitati a un tragico ban-chetto, / Al momento della resa dei conti, / Nell'ora terribile, / Abbiamo visto cadere un'altra patria, / - animale selvaggio, gio-vane, barbaro, crudele e incosciente". Il diario di Sonia, invece, si fa ogni giorno più amaro: l'epoca che incanta la piccola Elisabeth rende sempre più cupa la sorel-la idealista, che attende invano dalsorel-la sua Russia una "parola" che le indichi la stra-da. I fili non si riannodano e l'educazione sentimentale delle tre sorelle diventa un'e-ducazione alla dissonanza, allo sradica-mento, all'emigrazione; trasformare tem-peste in buona speranza non è facile e la luna finisce per rimanere imprigionata nel-la sua gabbia, come nell'attimo in cui pas-sa, vista dal Trocadero, tra le sbarre me-talliche della torre Eiffel.

NADIA CAPRIOGLIO

Annette Pehnt, MoBBING, ed. orig. 2007, trad. dal tedesco di Riccardo Graverò, pp. 154, € 15, Neri Pozza, Vicenza 2009

Argomento tristemente attuale in questi tempi di crisi, anche se il romanzo è uscito in precedenza, così come il bel film di Francesca Comencini a cui lo accomuna il titolo, Mi piace lavorare. Mobbing, del 2004. L'autrice, docente universitaria, trae spunto dalla propria biografia. Un impiega-to comunale del setimpiega-tore cultura, viene li-cenziato senza preavviso. In realtà c'erano state delle avvisaglie: da quando era arri-vata la nuova dirigente Jo era stato gra-dualmente emarginato. La moglie ascolta-va sgomenta i suoi racconti, non si sapeascolta-va capacitare dell'accaduto, era combattuta fra solidarietà assoluta e dubbi di paranoia. Lei si occupa a tempo

pieno delle due bimbe piccole, lui si ripromet-te di fare tutto ciò per cui non ha mai avuto tempo, ma cade in un'opaca routine da pantofolaio. Al giorno d'oggi è il lavoro - e il denaro - che ci dà un ruolo; lei paventa una drastica diminuzione del tenore di vita, so-prattutto per le figlie.

La riassunzione ordinata dal tribunale del lavoro non porta serenità, il mobbing conti-nua: Jo viene relegato in un container nel cortile sul retro con mansioni assurde e inutili: deve tradurre in francese, lingua che non conosce. Pehnt descrive bene il senso di smarrimento che si impadronisce della coppia: lei dubita che lui sia stato parzial-mente responsabile della sua disgrazia, lui le rimprovera di sbadigliare quando le par-la, entrambi soffrono di insonnia, gli amici sono stufi delle loro lamentele, soprattutto dopo la riassunzione, le bambine sono tur-bate dagli sbalzi di umore dei genitori. È un romanzo lieve e intelligente, che descrive con realismo partecipato la caduta delle certezze e della fiducia di una coppia odierna in una situazione di crisi. La tradu-zione è scorrevole, ma come può sfuggire "gli sbottono" riferito a una bimba?

MARINA GHEDINI

Waris Dirie, LETTERA A MIA MADRE, ed. orig. 2007, trad. dall'inglese di Stefania Cherchi, pp. 187, € 16,69, Garzanti, Milano 2009

Il titolo di questo libro intenso e catarti-co, il quarto dell'ambasciatrice speciale dell'Onu per l'abolizione delle mutilazioni genitali femminili (MGF), non dice tutta la verità. La ex supermodella somala, infatti, vi racconta piuttosto l'esperienza dell'in-contro con la madre malata dopo dieci an-ni di lontananza, che Dirie dalla Somalia porta a curare a Vienna, dove lei, ora cit-tadina austriaca, abita. La lettera vera e propria si inframmezza alla narrazione del-le incomprensioni tra la madre, saldamen-te legata alla "tradizione" somala delle MGF, e la figlia ribelle, che di quella mutila-zione voluta dalla madre e subita all'età di

cinque anni porta anco-ra i dolorosi segni fisici e psicologici. L'impos-sibilità di difendere il suo punto di vista con la persona che insieme le ha dato dolore e amore ha spinto Dirie a mettere di nuovo a nu-do la sua anima in que-sto libro. Il linguaggio asciutto e preciso, ripe-titivo com'è a volte l'in-glese, che Dirie ha im-parato a Londra dov'è fuggita a tredici an-ni, non annoia e se possibile accentua la banalità, come direbbe Arendt, del male che viene giustificato dalle donne stesse: le donne non mutilate, infatti, sono emargi-nate, "impure". Come contesta a un certo punto Dirie alla madre: "Non è la disgrazia o l'infelicità delle vostre figlie impure a preoccuparvi, per voi è solo una questione di soldi. So come vanno queste cose. Se date a qualcuno una delle vostre figlie, ne ottenete in cambio soldi o cammelli. E una donna non mutilata non può essere ven-duta. Non ha alcun valore, vale meno di un capo di bestiame". Si consiglia anche di ri-leggere i grandi successi autobiografici precedenti: Fiore del deserto, 1998, oltre 11 milioni di copie vendute nel mondo; Al-ba nel deserto, 2002; Figlie del dolore, 2006; tutti pubblicati in Italia da Garzanti.

GIORDANO VINTALORO

Andràs Nyerges, NON DAVANTI AI BAMBINI, ed. orig. 2002, trad. dall'ungherese di An-drea Re'nyi, pp. 187, €16, Elliot, Roma 2009

I bambini comprendono tutto, almeno quanto gli adulti, sebbene attraverso chiavi di lettura e coordinate spesso di difficile interpretazione. I bambini hanno occhi scevri da pregiudizi, ovvero da giudizi di valore netti e difficilmente controvertibili, ma sono carichi di ste-reotipi, di immagini ben delineate che permettono loro di orientarsi in un mon-do che conoscono scarsamente. Per questo, come una cantilena ricorrente, l'infanzia del piccolo Andràs è scandita dalle parole tutte unite in un unico suo-no: "Nichtvordemkindi", Non davanti al bambino! Nella Budapest del 1944, controllata dalla Croci frecciate, stretti alleati della Germania nazista, sono tan-te le cose non devono essere dettan-te o fatte davanti ai bambini. Andràs Nyer-ges, nato nel 1940, scrittore, giornalista e redattore in una casa editrice, molto conosciuto e apprezzato in Ungheria, ri-percorre, narrando con gli occhi del bambino che è stato, i giorni confusi e a tratti terribili della sua infanzia. Su tutti i personaggi domina la figura minacciosa della nonna paterna, conservatrice e or-gogliosamente "ariana", che ha stretto un patto morbosamente scellerato con il figlio e che non perde occasione per denigrare la nuora e i consuoceri ebrei. Tra lieti pomeriggi all'isola Margherita e la minaccia delle persecuzioni, tra il cal-do lettuccio in cui si corica la sera e il nascondiglio buio in cui è costretto a ri-tirarsi con la famiglia, Andràs rielabora memorie e paure, con ordini di priorità spesso sorprendenti. I soldati russi e la fisarmonica di papà, le attività clande-stine della Resistenza e il nonno che fa indigestione di dolci avariati sono resti-tuiti il più possibile a una forma narrati-va che potrebbe uscire dalla bocca di un bambino di quattro anni. Solo a tratti i ricordi vengono inseriti in uno schema

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