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Volgere lo sguardo alle cose celesti di Fabrizio Vecoli

Marco Rizzi

C E S A R E E D I O POTERE SPIRITUALE E POTERE

SECOLARE IN OCCIDENTE

pp. 221, € 18, il Mulino, Bologna 2009

D

ue brevi passi del

Nuo-vo Testamento h a n n o ispirato in particolare il pen-siero politico della cristianità occidentale dall'antichità sino a oggi. La ricorrente lettura e la diversa comprensione di

uesti due enunciati hano in-uenzato la storia europea con una forza che certamente avreb-be sorpreso i loro autori. Si trat-ta del detto di Gesù contenuto nel Vangelo di Matteo (22, 21): "Rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio", e del passo tratto dal-la Lettera ai Romani (13, 1-7) di Paolo, che inizia così: "Chi si oppone all'autorità, si oppone all'ordine stabilito da Dio". Il rapporto tra potere secolare e potere spirituale si è, nel corso dei secoli, giocato sulla capacità dei soggetti politici - chiesa e impero prima, regni e stati na-zionali poi - di tirare dalla pro-pria parte queste parole. Per questa ragione, una raffinata storia dell'esegesi dei due

luo-ghi neotestamentari, come quel-la proposta da Marco Rizzi in questo volume, diviene inevita-bilmente, con lo scorrere delle pagine, per un lato ricostruzio-ne storica delle complesse oscil-lazioni della teologia politica dalla patristica sino alla Rifor-ma protestante, e per l'altro ri-flessione nell'oggi circa la scot-tante questione del rapporto tra cristianesimo e politica.

Sarebbe impossibile dare con-to in questa sede dell'articolazio-ne di questo ricco quanto denso saggio, ma vale la pena fornire alcune indicazioni fondamentali. Il principio paolino secondo cui ogni "potestas" (potere) viene da Dio sembra aver avuto un pe-so predominante rispetto a quel-lo evangelico della restituzione del suo a Cesare.

Q

uesto ha significato, in ter-mini che variano secondo i contesti storici, che in Occiden-te si è Occiden-teso riconoscere nelle strutture detentrici del potere politico la manifestazione di un ordine predisposto dall'alto e difficilmente discutibile. Ora, un fatto che Rizzi mette bene in luce è che sotto ogni interpreta-zione dell'autorità politica si cela una particolare concezione antropologica che ne costitui-sce il fondamento. Se il grande teologo orientale Origene di

Alessandria (185-254) può con-siderare come sostanzialmente neutro ciò che si colloca tra il negativamente mondano e il positivamente celeste (ad esem-pio, gli ordinamenti giuridico-politici cui fa riferimento Paolo) in virtù di una concezione -peraltro sostanzialmente positi-va - tripartita della persona umana (risalente alla Prima

Let-tera ai Tessalonicesi 5, 23:

spiri-to, anima e corpo), diversamente Agosti-no d'Ippona (354-430), che adotta una visione dell'individuo pessimistica e dicoto-micamente polarizza-ta tra anima e corpo, fa rientrare nella sfera di quest'ultimo il po-tere di questo mon-do, destinato certo a governare ancorché

in un orizzonte antropologico reso fosco dal peccato originale e dove solo la grazia può porta-re luce e salvezza.

Sia pure negativamente con-notato come realtà mondana, il potere politico impone sotto-missione ai figli dannati di Ada-mo: e poiché la grazia non si so-stanzia in una realtà visibile nel-la dimensione terrena, non rima-ne alternativa tranrima-ne chinare il capo alle autorità costituite, se non altro apportatrici di quel minimo di ordine in cui questa stessa grazia possa eventualmen-te manifestarsi. Rimanendo lega-to a tale schema duale agostinia-no (anima-corpo), il pontefice

romano Gelasio (sul finire del V secolo) precisa il carattere dupli-ce della "potestas" operante nel-la storia, dando l'avvio alle pre-tese medievali di superiorità del-la autorità spirituale rispetto a quella secolare. D'altra parte, lo stesso dualismo individuato da Gelasio apre inaspettatamente la porta alle pretese dell'autorità terrena, destinata per l'appunto a governare questo basso

mon-do, se è vero che il po-tere spirituale ha da volgere lo sguardo, per l'appunto, alle co-se celesti. Si accende un conflitto esegetico sulla questione delle due spade, che finirà con la pretesa del pa-pato di tenerle en-trambe, in virtù di quella che si chiamerà "plenitudo potestatis" (pienezza del potere).

L'agostinismo medievale, il passaggio da una concezione personale del potere a una più astratta (dal rex al regnum, per intenderci), la negazione di una fondazione trascendente dell'au-torità secolare (che deve stare dunque al traino di quella spiri-tuale) sono fattori che hanno operato - positivamente o nega-tivamente - nel processo di rico-noscimento della piena legitti-mazione degli stati moderni. Dal punto di vista dell'autore, questo processo è stato portato a com-pimento con la frantumazione dell'unità religiosa nel XVI seco-lo. Con l'avvio della Riforma protestante, il pontefice non può più rivendicare l'esercizio di una "plenitudo potestatis" universa-le: essa migra nella sovranità de-gli stati moderni.

Nulla di quanto accaduto, precisa Rizzi, era di per sé reso necessario dai testi neotesta-mentari di partenza, quasi che, come si dice talora, la secolariz-zazione fosse contenuta in ger-me nel dettato evangelico, ov-vero fosse parte del corredo ge-netico del cristianesimo. Essa è invece figlia della storia (spe-cialmente di quella del XVI se-colo) e, potremmo dire, della storia delle letture parziali, di-storte e interessate della Scrit-tura fatte in Occidente. Non a caso, l'Oriente di Origene e di Eusebio di Cesarea non ha per-corso i medesimi itinerari ese-getici e non è giunto alle stesse conclusioni in materia di teolo-gia politica (sia detto senza giu-dizi di valore, ché altri sono i problemi del mondo ortodos-so). Nel non pensare che tutto dovesse necessariamente essere così, ma nell'osservazione e nella riflessione sul passato in-tese come occasione di ripensa-mento e di rideclinazione del messaggio evangelico per il mondo odierno, si cela la possi-bilità di riavviare, magari "in direzioni in gran parte ancora inesplorate", il dialogo tra cri-stianesimo e politica.

Tuttavia, le conclusioni di Riz-zi rimangono in gran parte opa-che alla comprensione del letto-re, forse in ragione della com-plessità stessa della sua lettura o dell'eccesso di distinguo e di sfu-mature introdotti nel suo argo-mentare. Innanzi tutto, la scelta di fermarsi alla Riforma prote-stante, seppure spiegata nelle ul-time pagine del libro, solleva

qualche perplessità: diversamen-te da chi vede nascere gli stati na-zionali come effetto di una "auto-nomizzazione del politico" figlia della dottrina dualistica del pote-re (spirituale e secolapote-re, il secon-do dei quali acquisirebbe gra-dualmente autonomia a scapito del primo), Rizzi ritiene che l'in-terpretazione monistica della

"potestas" (donde la teologia del-la "plenitudo potestatis") costi-tuisse un ostacolo insormontabile al cambiamento; questo almeno sino alla sua radicale messa in di-scussione, provocata dalla frantu-mazione della cristianità occiden-tale nel XVI secolo. Ecco che - se si comprende bene - si ritorna al-la tradizionale lettura delal-la mo-dernità secolarizzata come figlia della Riforma, sia pure scevra di ogni giudizio di valore (almeno così pare). Di lì in avanti, alla chiesa romana rimane percorribi-le solamente l'opzione della "po-testas indirecta" teorizzata da Ro-berto Bellarmino: la storia è ora-mai avviata su altri binari e ci si può dunque fermare.

P

iù importante è che non si comprende bene quale sia la valutazione finale di questo stato di cose, un giudizio in qualche modo reso necessario dall'apertu-ra del libro. Se si inizia a esporre i termini della questione citando la lettera di un ufficiale delle SS, Kurt Gestein, che si interroga sul-la legittimità di un potere che opera per il male pur riconoscen-dogli quella obbedienza che si de-ve a ogni Cesare della storia, è evi-dente che il lettore si aspetterà al termine una valutazione chiara di tutta la faccenda. Vero è che si apre con Gestein ma si chiude con Dietrich Bonhoeffer, senza però che questo ci chiarisca quale sia il punto. Rizzi specifica che ne-cessità è di "non mettere tra pa-rentesi, neppure per mezzo di una sua riduttiva storicizzazione, la portata dell'enunciato paolino di Rml3 circa il dovere di sotto-missione". Nel senso dell'obbe-dienza del cristiano a una politica in cui non si riconosce, quand'an-che retta da meccanismi piena-mente democratici? o nel senso di una consacrazione cristiana dei poteri di questo mondo, com'è accaduto in certi regimi dittato-riali del Novecento?

Se si opta, come sembrerebbe il caso, per un'antropologia po-sitiva - non agostiniana, piutto-sto origeniana - si è portati a "un atteggiamento di maggiore relativizzazione della politica in quanto tale, senza però compor-tare alcuna dismissione di re-sponsabilità personale". E come si confronta la responsabilità del cristiano con una politica relati-vizzata, ma anche riconosciuta dal dettato paolino? Insomma, dice Rizzi, "la sottomissione alle potestates indicata da Paolo non esclude la possibilità di esprime-re un giudizio su di esse e agiesprime-re di conseguenza". Come fece Bonhoeffer: "La risposta a quale sia il tributo da versare a Cesare e a Dio attraversa necessaria-mente la coscienza di ciascun uomo e la sua libertà". Bene, ma si rimane, a dire il vero, un poco

disorientati. •

f abriziovecolifjtiscali. it

F. Vecoli è assegnista di ricerca instoria del cristianesimo e storia delie religioni

all'Università diTorino

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