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MIGRAZIONE, HOGAR E FAMIGLIA IN CHICLÍN SCENARI DIVERSI E ALTRI SIGNIFICAT

La migrazione, in questo progetto, funziona come una lente attraverso la quale osservare la relazione tra il movimento fisico ed esistenziale di alcuni, e le dinamiche ed i locali processi di cambiamento della famiglia, di alcune specifiche e concrete famiglie. Diventa quasi il pretesto o meglio la condizione che aiuta a capire, a centrare e a mettere in prospettiva l’esperienza e quindi le pratiche ed i significati di gruppi situati di persone tra loro legate da vincoli di parentela più o meno diretti o complessi; parentela di sangue, ascritta, o fittizia, secondo le espressioni care al gergo dell’antropologia. Parentela che è, specialmente, relazionale. Che specialmente in questa sede, in quanto prassi, ha a che fare non tanto o non solo con la nascita all’interno di un preciso nucleo o sistema familiare, ma con l’organizzazione di rapporti e discorsi che sono in un certo senso variabili, sui quali occorre che gli attori coinvolti lavorino; legami ed appartenenze la cui acquisizione ed il cui riconoscimento, cioè, vanno di volta in volta attivati e negoziati, e che sono continuamente interpretati ed agiti. Non si tratta, ovviamente, di considerazioni nuove all’antropologia.

Che la parentela, in altre parole, al di là delle spiegazioni e dei nessi biologici sia di natura essenzialmente sociale, è questione di vecchia data, che si fa strada nei moderni studi di settore grossomodo dalla seconda metà del Milleottocento (Parkin, Stone, 2004, 2). L’idea che essa sia poi meglio rappresentabile in termini di processo che di struttura di relazioni pressoché fissa, è parte di un visione più contemporanea. È parte di più recenti formulazioni teoriche che, riflettendo via via vocazioni e correnti antropologiche più ampie, ed il loro spostamento dalla struttura alla pratica, e dalla pratica al discorso, hanno assunto i concetti di simbolo e di significato, di dinamica socioculturale e di human agency quali nuove soluzioni e quali nuovi

strumenti di ripensamento critico e di analisi. Occorre però fare attenzione, e resistere alla tentazione che definizioni accattivanti, apparentemente chiarificatrici e risolutrici esercitano. Definizioni, vale a dire, che sembrano liberare il ricercatore dal peso di certe parole e della storia che quelle parole si portano dentro. Che sembrano cioè scioglierlo dalle implicazioni delle categorie e delle controversie di cui esse sono cariche, e facilitargli il lavoro. Si tratta di argomenti e termini che vanno, invece, indirizzati con cautela.

3. 1 Quadrare il campo (I). Questione di relazioni

Il riferimento di cui sopra è, tra le diverse proposte e suggestioni che la letteratura offre, all’alternativa che Janet Carsten (1995; 2000), in particolare, ci propone. Alle spalle la distinzione tra ‘biologico’ e ‘sociale’, tradizionalmente cruciale negli studi sulla parentela, l’esplorazione critica del vocabolario analitico dell’antropologia e l’indagine di una varietà di casi etnografici hanno portato l’autrice a dimettere la categoria di kinship a favore di quella più aperta e flessibile di relatedness. In questione è una parte non trascurabile della conoscenza, del sapere antropologico su ciò che è costitutivo della parentela, su ciò che sta alla base delle sue relazioni. «A central theme running through is the relationship between the ‘biological’ and the ‘social’» (2000, 3). La relatedness, come processo, grossomodo traducibile in modi, forme e prassi culturali di ‘relazionalità’ locali e circostanziate, bisticcia con le convenzionali visioni e comprensioni della parentela, non si accorda alle categorie date, ne oltrepassa le opposizioni ed i confini analitici; o forse meglio, li attenua quei confini, li sbiadisce e li confonde. La definizione che Carsten elabora appare ad ogni modo conveniente, sotto vari aspetti, e più avanti si tratterà di spiegare perché. Confacenti, per lo meno ai temi ed alla materia su cui qui si lavora, sono in sostanza la percezione della processualità in quanto qualità distintiva della parentela, così come l’interesse per le sue dimensioni ‘sperimentali’, per le sue configurazioni affettive ed emotive, per il potenziale creativo e dinamico che la caratterizza (ibid., 14). Convince insomma l’idea che questa ‘relazionalità’ significativa emerga nel tempo, nella

condivisione e mediante le pratiche, al di là del o in aggiunta al ‘sangue’ che di fatto circola tra le persone e ne determina e descrive il legame secondo codici propri.

Utile, per chi scrive, sarebbe appunto la possibilità di abbracciare relazioni e morfologie complesse cavandosela, per così dire, con un’unica nozione, funzionale e relativamente inedita e semplice. Ma è bene indugiare e riflettere sulle complicazioni ed i rischi che questo pensiero della parentela comporta; complicazioni e rischi che risultano piuttosto evidenti (cfr. Carsten 2000; Parkin, Stone, 2004) e lo sono, innanzitutto, all’autrice del termine in questione. Carsten, per prima, riconosce infatti che la sua proposta si definisce come uno spazio aperto all’incertezza e si presta dunque, per sua natura, ad un certo numero di critiche. Incertezza e critiche alle quali, per altro, ogni categoria di parentela potrebbe, e dovrebbe ragionevolmente essere sottoposta. «The obvious problem with relatedness», e dunque la vulnerabilità del concetto sta, tra le altre cose, nell’uso differente che se ne può fare: in senso stretto, per descrivere legami di tipo genealogico; in senso più largo o generico, per inquadrare altri esempi di relazioni sociali (Carsten 2000, 5). Da ciò, prevedibilmente, derivano il rischio maggiore e le maggiori preoccupazioni. Tendere i confini della nozione di parentela fino ad incorporarvi legami che normalmente sono stati altrimenti riconosciuti e denominati, e assegnati dunque ad ambiti distinti, se per certi versi può rivelarsi auspicabile e perfino salutare per tutto un ambito disciplinare, per altri però minaccia di far saltare appunto la parentela come dominio di studi specifico. Difficile ed imbarazzante diventerebbe in tali condizioni, cioè in circostanze di confusione disciplinare e di disordine analitico, distinguere «“kin” from neighbours, friends, co- workers, and so on» (Parkin, Stone, 2004, 251). È quindi necessario interrogarsi su cosa e in sostanza su chi si possa a buon diritto includere all’interno della rubrica della parentela. È necessario tornare a scegliere le parole, a controllarle una volta ancora, e di volta in volta, attraverso un confronto ed una verifica puntuali con i casi che ci si offrono, con gli individui e gli scenari specifici che essi animano, con le loro interpretazioni singolari e collettive e con le loro azioni concrete.

Ma, al di là delle antinomie insite nei significati di una certa terminologia e al cuore stesso della comprensione dei sistemi parentali, contraddittorie appaiono proprio le qualità delle relazioni e delle dinamiche che informano le famiglie in osservazione, le loro logiche

simboliche e le loro denominazioni. Con Good, non è fuori luogo affermare, non lo è specialmente per i contesti che qui interessano, che «kinship is not a clearly delimited ‘thing’ but an amorphous, polythetic concept» (1996, 311). Un concetto versatile, quindi, per le svariate possibilità che le sue declinazioni e realizzazioni storiche e socio-culturali contemplano. Come già considerato272, la parentela originata per vincoli di sangue, e per matrimoni, è la regola che di norma vale alla base dei discorsi familiari sui quali si lavora, che in primis ne articola e ne traccia i legami. Essa tuttavia non funziona come argomento scontato, come rappresentazione auto-evidente. Alcune storie, lo si vedrà, mostrano che anche questi legami dati o ‘legittimamente’, legalmente acquisiti possono essere, o possono diventare, in un certo senso, discutibili, temporanei, contingenti. Lo sono, se non altro, a livello dell’esperienza vissuta; quando cioè siano sospesi, quando non siano assicurati e nutriti nella pratica e con la pratica. E possono allora valere argomenti diversi; altre figure ed altri valori, altri simboli e significati assumono un proprio spessore ed un proprio peso, oltre a quelli del sangue, della paternità, della generazione, o del contratto. È appunto di siffatta varietà di manifestazioni e di operazioni, dei significati plurali e dei diversi livelli di espressione della parentela che, se adoperata con circospezione teorica e con una sorta di costante diffidenza metodologica, l’idea di relatedness – come prassi dunque, costruzione intellettuale, sociale e culturale di relazioni affettive, domestiche e familiari essenzialmente processuali – può aiutare, almeno in parte, a rendere ragione.

Sulle strategie, sui modi della parentela lavorano poi Deborah Bryceson e Ulla Vuorela (2002). Le due autrici guardano agli scenari familiari transnazionali, alle maniere di ricreare, nell’ambiente della migrazione, un sentimento di famigliarità, «namely ‘familyhood’» (3), e l’idea “di casa”. E guardano ai sistemi che si meditano per assicurare la famiglia nella distanza, per materializzarla a fronte della dispersione fisica dei suoi integranti273. Relativizing è la

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Si confronti il capitolo precedente, precisamente Cap. 2.1.

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Materializzarla, per Bryceson e Vuorela (2002), come “comunità immaginata”, date la separazione fisica, la dispersione delle relazioni e l’impossibilità di praticarle quotidianamente. Frontiering è una delle nozioni che le due autrici elaborano per indirizzare le strategie della parentela transnazionale, gli strumenti della sua continuità, della sua difesa attraverso le frontiere ed i confini geografici. Confini che dunque non delimitano, non localizzano, ma si costituiscono come spazi variamente attraversati o attraversabili dalle relazioni tra le famiglie, tra i diversi ‘pezzi’ di famiglia. Ma è proprio al di là di quella “immaginazione”, e delle distanze che normalmente informano

categoria che adoperano per esplorare la varietà delle soluzioni tramite cui gli individui mantengono e rinnovano, snelliscono o limitano, fino a troncarli, i rapporti con i parenti vicini e lontani. Il termine gioca con la ‘relatività’ di certe scelte ed operazioni ma suggerisce, in particolare, il senso della parentela, della sua relazionalità, «the sense of relativity, of being related» (14). Si riferisce quindi ai modi di formare selettivamente la famiglia, di plasmarla e ricomporla su geografie articolate e discontinue e sulla base di intenzioni e di affetti condivisi, di reciproci doveri ed aspettative. Allude alla promozione o alla negligenza dei legami di sangue e alla generazione di parentele fittizie. Si tratta soprattutto, qui come altrove, di considerazioni in merito ai «new settings» (Foner, 1997, 964); alle soluzioni originali o improvvisate che si escogitano nell’ambiente di ricezione per far fronte ad un nuovo ordine di bisogni274.

Ma date le modalità dei legami attraverso i quali le famiglie peruviane al centro di questo studio si strutturano e sopravvivono, diventa legittimo interrogarsi sulle possibilità locali, sul locale e comune ordine di bisogni, sui locali significati e termini della parentela. Posizionarsi dunque e situare la ricerca per rendersi conto che, anche e soprattutto stando da questo lato, ciascuno dei diversi membri (chi ci sta di casa, chi con maggiore o minore regolarità ci fa ritorno perché vi possiede una casa), è di volta in volta impegnato a negoziare le attenzioni e le complicità, a ricalcare o a ridisegnare dei confini, a lavorare alla propria nozione di famiglia, a figurarsi il senso della sua unità ed il modo della propria oltre che della altrui appartenenza. E sono eventi specifici, questi, che si possono osservare e comprendere non nella dimensione transnazionale o immaginata della dinamica familiare, ma sul versante concreto e circostanziato dell’esperienza, dove hanno luogo le riunioni, gli incontri effettivi; dove le relazioni realmente

gran parte della percezione e delle visioni del fenomeno, che questa etnografia vuole sforzarsi di inquadrare e di indagare gli spazi, i percorsi e gli intervalli familiari.

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In tal senso, riguardo alle famiglie dei migranti, e specificamente alla produzione delle parentele fittizie, Foner spiega appunto come, in certi casi, «the absence of immigrants’ close kin in the new setting creates the need to improvise new arrangements, a reason why “fictive kin” are common in immigrant communities. (…) They elevate distant kin to the position of closer relatives, place more importance than they used to on kinship ties forged by marriage, and redefined non-kin with whom they had close “kinship-like ties” as kin, using kinship terms to refer to the them and their relations» (1997, 964; 969). L’attenzione è precisamente alle modalità ed alle ragioni del cambiamento dei modelli o delle percezioni familiari e parentali nel processo della migrazione, cioè nei contesti della immigrazione.

prendono forma, e si incarnano nel confronto o nello scontro in atto tra le parti275. Anche qui dunque, oltre che nella distanza, si richiede un certo livello di razionalizzazione, di sperimentazione cosciente e di immaginazione, sul piano condiviso oltre che su quello personale. Anche qui funzionano certe strategie e si prendono certe misure; si distingue, si sceglie, si preferisce. Si ripensano, si giudicano e si ricodificano i legami emotivamente o convenientemente significativi riscrivendo, in qualche misura, la ‘geografia’, la storia e la vita familiare. Da questo, vale a dire dall’impoverimento o dall’isolamento dei contatti con alcuni congiunti e dall’apertura, dalla disponibilità verso quelle che potremmo definire ‘le varianti’ della parentela, sembra sorgere il bisogno di spiegare perché e come certi familiari e parenti sono parte della propria famiglia; come e perché certi altri lo sono tuttavia o, in un determinato senso e ad un determinato livello, non lo sono più.

La volontà, ora, non è quella di negare e rigettare queste – così come le altre – categorie che ci derivano dalla letteratura e dalle recenti interpretazioni della parentela e della migrazione (o della parentela nella migrazione), ma di tradurle rispetto al campo ed alla sua specificità. Cercando, ad esempio, di declinare le idee di frontiering e relativizing (cfr. Bryceson e Vuorela, 2002) non solo spazialmente ma temporalmente, nei termini e nei casi delle vicende e delle cronache familiari, e di localizzarle, pur sacrificando alcune prospettive, rispetto a geografie ridotte, più facilmente circoscrivibili e possibilmente controllabili. O ancora, di osservare come i confini tra i luoghi si facciano sì relativi e relativizzabili nell’esperienza familiare detta transnazionale, ma anche come siano le famiglie, sovente, a farsi, a diventare esse stesse – e sul posto, localmente – delle frontiere.

Quadrare il campo (II). Tra reti sociali e assetti familiari.

La famiglia, nei termini delle dialettiche e delle morfologie familiari che sono osservabili, localmente, attraverso il filtro della migrazione, ci consente pertanto di rivedere il paradigma ed il fenomeno del transnazionalismo e di avvalercene nella misura in cui esso serve a scoprire il

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Nella sezione etnografica di questo capitolo si cercherà di mostrare come, nella realtà, le famiglie con le quali si è lavorato si manifestino variabilmente; varie le gradazioni familiari, cioè, e le maniere di essere, da quelle chiamiamole più fraterne e collaborative, alle più antagoniste e conflittuali.

domestico e a riconfigurare la parentela non solo in quanto domini privati, delimitati, ma quali luoghi di attività ‘pubblica’ e di creatività, di politica e di diplomazia. Spazi di concertazione, di inclusione e di partecipazione negoziata; di selezione e quindi anche di esclusione, di sottrazione e di perdita. È proprio l’interesse per le conseguenze della mobilità geografica sui nessi familiari, sulla continuità o discontinuità di certi discorsi e di certi riferimenti e pratiche, a rendere sostanzialmente desueto e sterile un confronto con la famiglia che si limiti alla

household, all’hogar, ovvero alla composizione dell’unità domestico-parentale tradizionalmente

intesa. Da ciò deriva la necessità di ripensare piuttosto, la famiglia, come un sistema dinamico (cfr. Green, Canny, 2003), come una rete di relazioni mutevoli che si trasformano e si ridisegnano nel tempo e nello spazio attraverso le esperienze locali del coinvolgimento, a vario titolo, nel processo e nel progetto migratorio.

Anche il concetto di rete, dunque, – di reti migratorie transnazionali, reti sociali particolari, familiari e comunitarie276 – può in questa sede dimostrarsi uno strumento analitico utile all’indagine, a metterne a fuoco alcuni obiettivi, ad inquadrarne alcuni aspetti. Può, per lo meno, fino ad un certo punto e sotto certe condizioni. Come affermato da chi tra i primi scienziati sociali ha fatto uso del termine, la nozione di network «has been developed in anthropology to analyze and describe those social processes involving links across, rather than within, group and category limits» (Barnes, 1969, 54); ribandendo e parafrasando dunque, quei processi sociali che si sviluppano tra individui e gruppi determinati piuttosto che all’interno dei perimetri che ne racchiudono le vicende. Si distinguono così i modi della creazione e della riproduzione di relazioni informali, quotidiane; le forme di quel transnazionalismo dal basso generato dalle e nelle circostanze delle migrazioni contemporanee (cfr. Smith, Guarnizo, 1998). Si mettono a fuoco campi di vincoli interpersonali rispetto ai quali, per chi fa la ricerca, il margine di

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Le reti migratorie possono articolarsi attraverso i legami, le operazioni e gli sforzi familiari ed amicali, come attraverso una serie di pratiche comunitarie e sociali quali il contributo e la partecipazione alle ricorrenze ufficiali ed alle celebrazioni folcloriche e festive indigene; l’appartenenza ad associazioni locali o ai locali circuiti di promozione e appoggio alla migrazione, quali le agenzie formali o informali di viaggio e di intermediazione, di reclutamento di mano d’opera da esportare e di consulenza. Negli ultimi decenni, un’attenzione crescente è stata rivolta al funzionamento ed alle implicazioni dei «networks based on family, friendship and community ties» (Boyd, 1989, 639), intesi in termini più strettamente personali o privati, per distinguerli da quelli sociali più estesi ed organizzati a livello pubblico e comunitario. Ma, nota Boyd, in antropologia ed in sociologia, l’uso di social networks e di personal networks è piuttosto indifferenziato e i due termini, generalmente, sono pressoché intercambiabili (1989, 639).

astrazione è modesto mentre profonda dovrebbe esserne la conoscenza, soprattutto verso i contenuti ed i significati che i soggetti in studio attribuiscono a quei campi ed alle reti di vincoli che appunto li definiscono (cfr. Paerregaard, 2008). Si usa differenziare, all’interno della prospettiva in questione, tra reti strette e compatte come, almeno presumibilmente, quelle familiari alle quali qui specificamente si lavora, e reti fatte invece di relazioni più ampie o meglio forse allentate, rarefatte. Tra le effective networks e le extended networks, per intendersi, tra le quali distinse già Alan L. Epstein (1969), seppur riferendosi a contesti geografici e climi socio-culturali altri. E si è osservato, negli anni, uno spostamento d’attenzione dalle manifestazioni delle dinamiche migratorie interne, rurali-urbane, a quelle internazionali ed intercontinentali.

Al presente, quella dei social networks all’interno dei quadri migratori è una rappresentazione di una certa popolarità, essenzialmente centrata sui processi di costruzione di trame relazionali che dipendono e insieme rinforzano, nel tempo e nella distanza, il sistema delle connessioni e delle corrispondenze sociali tra migranti e non migranti (cfr. Jordan, Duvell, 2003; Ryan, 2004)277, incoraggiando in una certa misura le condizioni della migrazione e riducendone i costi. L’attenzione accademica, specialmente nel corso degli anni Ottanta del secolo scorso, si è per l’appunto rinnovata e consolidata attorno al ruolo e all’influenza determinanti che le reti appunto eserciterebbero sull’eziologia, sulla composizione, sulle rotte e sugli esiti dei flussi migratori e, quindi, sulle questioni dell’insediamento e dell’integrazione nei contesti di ricezione (cfr. Tilly, 1990). Esse sembrano funzionare, in termini più o meno accentuati, in maniera singolare o con modalità consuete a seconda dei casi, sin dagli esordi del corso migratorio. Funzionano nell’ordine locale ed internazionale del processo come canali informativi, come strutture di supporto economico, pratico e morale in cui si mescolano le logiche degli affetti e della generosità, dei favori e dell’assistenza, dell’obbligo e della

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L’argomento delle reti sociali, della loro estensione e del loro funzionamento nel processo e nei discorsi migratori non è certo nuovo agli studi sulle migrazioni internazionali. Risale grossomodo agli anni Sessanta e Settanta del secolo recentemente trascorso l’interesse per le catene migratorie ed il coinvolgimento di parenti e affini nel supportarle ed agevolarle materialmente ed emotivamente (cfr. Boyd, 1989; Ryan, 2004). Una più sistematica riflessione teorica sui social network ha condotto poi, nel corso degli anni Novanta, all’elaborazione dei concetti di comunità e di famiglia transnazionali, per rendere ragione delle diverse modalità attraverso le quali i migranti articolano e mantengono i propri vincoli e le proprie connessioni con le persone e/o le locali istituzioni nei contesti di provenienza.

reciprocità che si sviluppano tra familiari, amici e conoscenti dislocati tra le società di partenza e di approdo.

Così funziona nella e-migrazione peruviana contemporanea, rispetto alla quale le reti giocano, con Karsten Paeregaard, «a critical role»; reti che, come ancora tra gli altri l’antropologo danese documenta, sono basate «on family relations, ethnic affiliation, and regional origin», e che servono, oltre a favorire lo spostamento e l’assestamento degli individui che ne sono coinvolti, «as an efficient means to (…) maintain contact with relatives in migrants’home regions» (2008, 143). I network, in sostanza, collegano regioni geografiche e campi sociali, dispongono itinerari e persone; facilitano la mobilità e spesso la assicurano nel tempo, ne proteggono la continuità, possono garantirne la durata; rendono insomma percorribili e rinnovabili certi disegni individuali o comuni, familiari. Avendo individuato un posto proprio all’interno dell’analisi di

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