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LA TRACCCIA ED IL LAVORO DELLA PARENTELA GEOGRAFIA E PRATICA FAMILIAR

Una in particolare tra le domande poste in partenza, quando ancora si progettavano i contenuti ed il campo della ricerca, sembra funzionare rispetto alla terza ed ultima famiglia in studio, la famiglia Correa Mendez; la più dislocata e – riconciliandoci per un momento con il termine e volendo accordargli un certo margine – la più transnazionale. Quella, cioè, che entro e soprattutto oltre i confini del paese conta e tiene assieme il maggior numero di appartenenti allo stesso nucleo e hogar originario, fisicamente lontani da esso e tra di loro. Ci si chiedeva allora se e come si riesca a ‘fare’ e a difendere la famiglia nella distanza, come ed in che senso si continui ad essere famiglia; se le si riconosca una base, una persona o un luogo simbolico e materiale che si distinguano quale centro e riferimento comune ai suoi diversi membri. Ci si interrogava sul modo in cui il suo valore e la sua idea siano condivisi e distribuiti tra quegli stessi membri e quali siano i ruoli e le responsabilità, rispetto all’unità e al mantenimento del gruppo, che le distinte componenti derivano dal loro legame ad un ordine familiare per alcuni aspetti frammentato e variamente declinato. E ancora, su quale sia il ‘lavoro’ e quali dunque gli sforzi e le strategie della parentela; quale, in definitiva, l’impegno ed il contributo di ciascuno ad essa.

‘Fare’ famiglia, dunque, nel senso di un’azione e di un processo determinati, e determinanti;

come insieme di relazioni che si costruiscono storicamente, socialmente ed affettivamente accomodandosi alle pressioni ed alle variabili del contingente, aggiustandosi alle condizioni mutevoli del contesto. Non si tratta soltanto di immaginare una famiglia (la propria), di elaborarne cioè una nozione e darne una definizione adeguata ripensandone certe modalità e dinamiche, e riconfigurandone gli standard. Si tratta piuttosto, nella particolarità del caso che si

affronterà, di rimarcarne fisicamente le linee, di ridefinirne le appartenenze e gli assetti attraverso pratiche precise; di centrarla, di confermarla ed assicurarla, la famiglia geograficamente separata, mediante le forme specifiche di una cura e di un interessamento costanti e soprattutto mediante la presenza. Una presenza che, lo si vedrà, non è mai improvvisata ma di volta in volta garantita e riaffermata attraverso tempi e movimenti meditati. Qui le distanze ed i confini, in poche parole, concretizzandosi in un certo senso come linee e luoghi dell’indagine, assumono una loro consistenza e legittimità per l’analisi in quanto spazi regolarmente percorsi e visitati. Percorsi e visitati nella costanza e nel lavorio degli affetti, nel quotidiano articolarsi dei discorsi e delle identificazioni tra chi va e chi resta; ma anche, e più esattamente, nella prassi reale, nella continua produzione materiale dell’incontro e dell’esperienza familiare. In quanto scenari, quindi, in cui i ruoli si caratterizzano nettamente, in cui risaltano specialmente il concorso e l’apporto di alcuni rispetto agli altri tra i vari soggetti ai quali si rivolge l’attenzione.

4. 1 Il lavoro della parentela

La riflessione sui nessi tra fenomeno migratorio ed assetti familiari e l’esplorazione dei loro sviluppi a livello locale – che sono i motivi alla base dei processi in questione nello studio presente – ci convincono della scelta della parentela quale spazio di osservazione delle vicende della migrazione. Ci convincono insomma della convenienza della famiglia quale lente o quale luce su determinate dinamiche socioculturali e della sua centralità, da qualunque prospettiva si voglia guardarla e in qualunque tappa la si consideri, rispetto ad esse. I parenti, infatti, ci sono e funzionano con il loro peso specifico e con ruoli primari o secondari per tutto il corso migratorio e sulle sue diverse sponde: perché ascoltati oppure ignorati nelle decisioni riguardo alle partenze; perché investitori, finanziatori e sponsor delle stesse; come sostenitori ed ammortizzatori all’arrivo nel paese di destinazione o ancora come responsabili e custodi di chi e di quanto resta in quello di origine. E ci sono perché tra loro coltivano, riconfigurano o rigenerano i rapporti secondo varie ed opportune strategie: attraverso i sentimenti d’affetto e le

premure, attraverso le prove di altruismo e le reciprocità; oppure mediante le aspettative e le rivendicazioni; mediante i calcoli, gli interessi collettivi e quelli personali.

Le famiglie geograficamente sparse e le reti che si attivano al loro interno necessitano protezione, incoraggiamento, attenzione. Ripensando le nozioni più convenzionali in materia di migrazione, Peggy Levitt e Nina Glick Schiller hanno avvicinato il tema della vita familiare transnazionale nei termini di riproduzione sociale che prende forma attraverso luoghi distinti e attraverso le frontiere ed i confini nazionali (2004). Viene ripreso almeno in parte quanto detto da Deborah Bryceson e Ulla Vuorela in merito alla ‘familiarità’, al senso di interesse collettivo e di unità che si crea e tiene insieme quelle famiglie costrette a sperimentare la lontananza e la separazione per tempi che sono, di norma, lunghi e difficilmente prevedibili; famiglie che hanno a che fare con molteplici residenze e multiple identità e lealtà (2002), e che quindi non sono interpretabili né risolvibili come entità biologiche di per sé, ma piuttosto come costruzione, inventiva, immaginazione. Il punto, il presupposto o la coscienza di essere comunque famiglia seppur nella distanza; l’idea dell’appartenenza ad un insieme per nascita o per acquisizione; la percezione della propria posizione e delle reciproche relazioni all’interno di una data struttura parentale, generazionale e di genere però non bastano. La visione maturata dall’attenzione e dall’ascolto etnografici sembra invero suggerire che la “comunità immaginata”, come ancora Bryceson e Vuorela definiscono la famiglia transnazionale (2002, 7), appunto in quanto immaginata, regge fino ad un certo punto, tanto come discorso che come esperienza. Perché quelle relazioni vanno mantenute attive, cosa che di fatto richiede dedizione e lavoro, un lavoro di connessione e di comunicazione cosciente, paziente e regolare. E serve qualcuno che voglia assumersene l’incarico (ed al quale legittimamente si debba riconoscerlo); qualcuno che voglia prendere su di sé questa responsabilità e che, in un certo senso, dia delle direttive.

Occorre insomma lavorarci con concretezza, alla famiglia; ci vogliono un impegno tangibile, un’azione ed un progetto precisi. La letteratura che si centra sui quadri e sulle pratiche transnazionali, come si è ripetutamente sottolineato, tende a misurare e ad indicare gli sforzi e gli obblighi della conservazione da parte di chi si è allontanato, da parte di chi ha lasciato il paese, la casa, i suoi. Ma l’onere e la cura rispetto alla consistenza ed alla continuità dell’esperienza familiare sono condivisi tra i migranti e coloro che invece non migrano i quali,

seppur di abitudine trascurati o marginali nelle analisi, sono comunque attori, cioè pienamente coinvolti, partecipi ed attivi proprio in quel campo sociale di norma definito – per l’appunto – transnazionale (cfr. Van Hear, 2002; Carling, 2008).

Nel caso che si sta per commentare, ad esempio, si distinguono abilità peculiari e modalità effettive di praticare la famiglia, di dedicarsi ad essa ricalcandone i contorni e difendendone e consolidandone i vincoli. Contro ogni rappresentazione duale della dinamica migratoria in generale e della famiglia nella migrazione in particolare – rappresentazione che opponga cioè il movimento e l’attività di chi parte alla staticità o passività di chi rimane – qui la chiave sembra essere invece la mobilità, l’iniziativa e la circolazione di chi, sebbene dinamico e mobile per certi aspetti, è comunque incluso tra coloro che restano. Di chi dunque continua al suo posto, nello specifico ruolo che si è visto attribuire da altri o che da sé si è scelto ed assegnato; di chi per primo sembra intraprendere e coordinare, in altre parole, quel “lavoro della parentela” che serve a nutrire e a mantenere il senso ma soprattutto l’esercizio e la prassi familiare, sia internamente al nucleo fisicamente più prossimo che, e specialmente, «across households» (Di Leonardo, 1987, 443).

Quello di «lavoro della parentela», con cui qui si traducono work of kinship o kin work, è un concetto preso in prestito da Micaela di Leonardo (1987) che ci introduce alla complessità di quei compiti e di quelle operazioni individuali o collettive necessarie perché le famiglie resistano e sopravvivano, in cui esse si addestrano e si sforzano per durare, per continuare nel tempo.

«By kin work I refer to the conception, maintenance, and ritual celebration of cross- household kin ties, including visits, letters, telephone calls, presents, and cards to kin; the organization of holidays gatherings; the creation and maintenance of quasi-kin relations; decisions to neglect or to intensify particular ties; the mental work of reflection about all these activities; and the creation and communication of altering images of family and kin

«Embodying notions of both love and work and crossing the boundaries of households» (ibid., 452), esso comprende, nella sua ampiezza, le attività riproduttive, il carico e l’organizzazione della cura e dell’assistenza ai piccoli come agli adulti; il sostegno economico, i diversi contributi e le varie forme dell’agevolazione alla realizzazione dei disegni migratori familiari; la promozione delle corrispondenze ed il supporto strategico ai circuiti ed alle reti parentali che si estendono e si dipanano all’interno ed al di fuori del raggio locale e del territorio nazionale (cfr. Stack, Burton, 1993). Prendendo ancora in prestito parole altrui, «for families whose members live in different countries, kin work is crucial» (Carling, 208, 1485); in altri termini, per tenere in piedi tali legami sociali transnazionali, per non perderne le tracce sembra necessario quel «careful nurturing» di cui ci parla Linda Basch (2001, 126), che rende possibile la frequenza, l’alternanza e la reciprocità dei contatti e delle comunicazioni tramite, ad esempio, le telefonate, i regali, le rimesse, le visite. Un tipo di strategia familiare translocale, in sostanza, che necessariamente contempla perimetri ed itinerari articolati, e che si mostra consapevole e appunto cruciale per il funzionamento del sistema familiare. Un lavoro che pare poi derivare da norme e da condizioni familiari moralmente e culturalmente definite, nonché da precise situazioni ed esigenze materiali, economiche e sociali.

Se nelle analisi della dimensione e della dinamica domestiche il concetto può servire, nella sua definizione e nelle sue linee generali, ad indirizzare e ad isolare con relativa semplicità una varietà di pratiche familiari, altro invece è spiegare come tale lavoro si compia nella specificità delle circostanze che ora ci interessano. Altro, insomma, è specificarne la qualità ed interpretare come ed in che senso si declini nell’esperienza singolare questo lavoro della parentela, il lavoro pensato e fatto per la famiglia; per difenderla, per nutrirla e per conservarla. Mantenere quindi i contatti, il senso della famiglia e della sua compattezza, assicurarne la pratica attraverso le varie forme della presenza richiede tempo, intenzione ed abilità. Diventa pertanto legittimo chiedersi a chi, maggiormente, ciò stia a cuore. Chi insomma, tra coloro che sono andati e coloro che restano, se ne incarichi e se ne assuma, sopra ogni cosa, la responsabilità.

Un lavoro di donne

Come si dà dunque, e come si ripartisce questo lavoro ‘domestico’ o meglio inter-domestico

all’interno della rete familiare, tra i suoi diversi membri? Guardando ad una certa letteratura sulla parentela si incontrano alcune espressioni e metafore designate a cogliere i meccanismi ed i criteri secondo i quali si sviluppa il processo di assegnazione dei ruoli e delle parti. Ad esempio il modello teorico – the kinscripts framework – presentato da Carol Stack e da Linda Burton (1993), con cui si è cercato di coniugare tre domini culturalmente definiti della dinamica della famiglia, ovvero kin-work, kin-time e kin-scription, e spiegarne la costruzione ed il funzionamento articolando quelle attività o kin-tasks da compiere affinché la famiglia resista e duri. Articolando, in definitiva, l’ordine temporale e sequenziale delle transizioni familiari ed il processo dell’investitura dei compiti tra i componenti del gruppo parentale. Esplorando i nessi tra corso individuale e corso familiare, questa prospettiva invita a ragionare sul peso e sull’esito che i singoli all’interno della cerchia dei parenti possono avere sulla vita e sugli svolgimenti della stessa. Il riferimento allo script, nell’economia specifica di questo studio indirizzato a centrare i percorsi e gli eventi che si snodano su diversi fronti affettivi, morali e geografici, è fatto nei termini di ‘testo’ della famiglia. Di copione, cioè, costantemente riscritto e reinterpretato secondo linee guida riconoscibili e piuttosto precise, che aiutano a districarsi tra le persone, tra le loro posizioni e le loro scelte, e a distinguerne le imprese; quelle solo pensate, quelle realizzate, quelle avviate e poi interrotte.

Tra i responsabili del lavoro della parentela, le autrici sopra segnalate non privilegiano e non menzionano alcune figure rispetto ad altre, appunto, nella parentela. Qui, invece – nelle circostanze che ci interessano ed in accordo con una letteratura distinta centrata sui modi della strutturazione e della persistenza dei vincoli nei contesti familiari transnazionali, nonché sui

keen-keepers, quei personaggi ai quali riconoscerne il ruolo o il merito (cfr. Di Leonardo, 1987;

Ho, 1999; Plaza, 2000; Thompson, Bauer, 2000; Chamberlain, 1997, 2004) –, è bene evidenziare come sia il genere a determinare certe prestazioni e ad orientare certe funzioni, o comunque a riflettersi e ad esibirsi attraverso di esse. Prestando infatti fede ai dati ricavati dal contesto del terzo gruppo in osservazione, e facendo presa su quel preciso contesto, si può

affermare che la natura del lavoro della parentela è fortemente caratterizzata in senso femminile. Che sono soprattutto le donne quindi, e qualcuna tra loro in modo particolare, a promuovere e a mantenere attivi i circuiti e le connessioni familiari tra diversi territori; centrali, con le parole di Christine Ho, nel processo di «careful cultivation of kinship ties» (1999, 39). Sono loro le figure dinamiche, insomma, attorno alle quali sembra ruotare il sistema della famiglia (cfr. Thompson, Bauer, 2000) e funzionarne, almeno per molti aspetti, la meccanica, la logica. Viene in mente anche il contributo di Leith Mullings ad un celebre libro dove si afferma la capacità tutta femminile di svolgere, rispetto alla propria famiglia ed alla propria persona nella famiglia, un lavoro creativo. Un lavoro trasformativo, per l’esattezza: «in doing transformative work, – con le parole dell’autrice – women seek to construct a space in which they can ensure continuity for themselves and their family». Duplice sarebbe il senso di tale lavoro, comprendendo di fatto «efforts to sustain continuity under transformed circumstances and efforts to transform circumstances in order to maintain continuity» (1995, 133). Un’indicazione che, rafforzandosi con le altre cui ci si sta riferendo, mi pare prestarsi bene alla comprensione delle realtà laboriose, più o meno silenziose o eclatanti, sulle quali si ragiona in questa sede.

L’idea, quindi, che il mantenimento e l’incoraggiamento delle relazioni e delle pratiche familiari nella distanza e nella separazione siano performance per lo più di donne, o da donne, «the creation and the maintenance of kin and quasi-kin networks ... is work; and, moreover, it is largely women’s work» (Di Leonardo, 1987, 443), sebbene non necessariamente estendibile o generalizzabile, trova riscontro nella presente etnografia e supporto in quelle altrui. Sono diverse figure femminili, nella mappa e nella scrittura parentale dei Correa Mendez, a farsi carico degli oneri della parentela, sul piano emotivo o su quello materiale, a seconda delle attitudini, dei mezzi e delle disponibilità singolari. Quasi vi fosse a riguardo, nel processo di

kinscription, cioè nel riconoscimento e nella definizione delle attività e dei compiti a difesa del

senso e dell’esperienza familiare – una causa ad un tempo comune e privata –, un’aspettativa rivolta a certi individui piuttosto che ad altri. Ciò attraverso scelte condivise che possono essere diciamo scontate o obbligate ed apparire, in un certo senso, convenzionali; ma anche attraverso decisioni che si rivelano, almeno in parte, auto-determinate, personalmente specificate.

Nel caso in questione – come si vedrà quando si affronterà più in dettaglio il campo e se ne tratteranno i dati – il lavoro ed il tracciato della parentela, variamente distribuiti tra il Sudamerica e l’Europa, sembrano organizzarsi preferenzialmente attorno ad un legame, quello tra madre e figlia, o per meglio dire tra madre e figlie. Esso sembra essere il rapporto più significativo, e sembra ad un tempo implicarne e tenerne in piedi un altro, ugualmente importante, che è quello tra le sorelle. Questo lavoro femminile segna la storia familiare dei Correa, una storia di migrazioni e di partenze reiterate (specie quella degli ultimi venti anni), attraverso una serie di impegni reciprocamente presi, di autorizzazioni e di convenzioni più o meno tacite. È specialmente attraverso l’accordo ed il compromesso tra di loro, quindi, che le donne per prime sembrano assicurare lo stato e la salute del gruppo parentale, ripristinandone le relazioni e consentendo la continuità ed una certa stabilità ai progetti ed ai processi migratori in cui sono coinvolte sia come migranti che non. In un discorso di sostanziale femminizzazione della migrazione, così come delle trame e dei vincoli domestici transnazionali, Doña Ester e le sue figlie, le tre sorelle Correa Mendez, hanno modellato uno spazio familiare che invita al movimento; hanno cioè disegnato una geografia familiare che si presta ad essere percorsa misurando le possibilità ed i tempi della mobilità e della permanenza secondo ragioni e criteri determinati, ed in risposta a specifiche circostanze.

Qui, soprattutto, interessa quello che queste persone fanno e ciò che le orienta, ovvero le azioni ed il significato che esse attribuiscono alle loro pratiche. Soprattutto dalla madre si è ascoltata e si è osservata una certa maniera di contemplare l’identità e di ripercorrere le linee e la vita familiari. È lei in primis a seguire i fili conduttori della sua famiglia e a darle coerenza; è sempre lei a dimostrare uno speciale talento, a definirsi e comportarsi come asse degli equilibri parentali conferendo unità e senso all’insieme. Come Ester se la racconta e la racconta agli altri, dunque, i criteri attraverso i quali interpreta le proprie azioni e l’immagine generale che crea e di proietta, sono aspetti tutto sommato inediti nell’economia di questo studio, e particolarmente istruttivi.

4. 2 Storie di migrazione

La migrazione, oltre ad essere e proprio per essere incorporata nella cronaca e nella dinamica sociale del villaggio di Chiclín, lo è nella struttura e nella storia della famiglia Correa. Una storia che, seppur non esclusivamente femminile, di fatto sembra compiersi in linea con schemi migratori normalmente riconosciuti in Perù; che nel tempo ha cioè assunto, per molti aspetti, una forma ed una connotazione di genere e si presta con ragione ad essere descritta in tali termini. Diversi sono i momenti e le tappe della salida dei chiclinesi verso le città riconosciute quali mete tradizionali, tipiche della migrazione interna (Lima e Trujillo in primis) e, ma specialmente in un secondo tempo, al di fuori dei confini del paese375. È quello rivolto all’esterno il movimento che qui interessa maggiormente; un movimento che, come accennato sopra, si è in gran parte configurato conformemente alle contemporanee tendenze e direzioni osservabili sul piano nazionale, così come riscontrato e descritto da chi vi ha assistito, personalmente o indirettamente, e da un certo numero di autori (Cfr. Altamirano, 1990,1992,1996, 2006; Paerregaard, 2007,2010);

es a fines de los años Ochenta, 1988 - 1990, que empieza una migración internacional. En el 1990 se da la polítia neoliberal de Fujimori, con sus cambios empresariales (…) que nos afectó bastante. En ese entonces, 18 - 20 personas salieron como grupo a Argentina; fue el primerr grupo de chiclineses que se organizó para salir del pueblo y del país. (…) Argentina porque en ese entonces hubo un crecimiento económico y la moneda, el Peso, equivalía al Dollar americano. Ese grupo se instala en Argentina y desde aquella epoca empezaron a viajar otras peronas, pero ya no como grupo sino individualmente, jaladas por los que ya habían ido antes376.

375

In merito ai corsi della migrazione interna ed internazionale da Chiclín, si confrontino i dati riportati nel primo e nel terzo capitolo, precisamente Cap. 1.1 e Cap. 3. 1.

376

Conversazione con Percy Paredes Villareal, Chiclín, 3 marzo 2010. Trad.:«Ė alla fine degli anni Ottanta, 1998 - 1990, che comincia una migrazione internazionale. Nel 1990 si attua la politica neoliberale di Fujimori con i suoi cambi imprenditoriali che su noi pesarono molto. In quel periodo, 18 - 20 persone partirono in gruppo per l’Argentina; fu il primo gruppo di chiclinesi che si organizzò per uscire dal villaggio e dal paese. (…) L’Argentina perché in quell’epoca si ebbe una crescita economica e la moneta, il Peso, valeva come il Dollaro americano.

Per la crisi economica e politica che si diede in Perù a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta del secolo recentemente trascorso, l’emigrazione peruviana mutò forma e caratteri e

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