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LA MIGRAZIONE DALLA PARTE DI CHI RESTA PROBLEMI E PERCORS

L’idea su cui poggia l’impianto della ricerca è se e come possano funzionare una riflessione ed un discorso sulla migrazione centrati sull’esperienza non di chi va, ma di chi resta. L’oggetto dell’indagine prende corpo interrogando concretamente la parte di realtà che sembra sfuggire all’analisi antropologica e sociale dei fenomeni e dei circuiti migratori; agli approcci tradizionali e in parte anche ai tentativi più recenti. I richiami alle società di insediamento e ai modi dell’inclusione o dell’esclusione (ambito privilegiato dalla prospettiva classica degli studi sulla migrazione), così come i richiami a reti, morfologie e spazi sociali transnazionali che renderebbero la novità e l’attualità delle forme di vita e delle relazioni che si sviluppano tra individui e luoghi all’interno di complessi sistemi globali (cfr. Levitt, Glick Schiller, 2004), catturano di fatto solo una porzione delle storie di migrazione, delle storie familiari che rappresentano il campo su cui s’intende lavorare136. Le definizioni e le traiettorie analitiche appaiono sempre sbilanciate verso gli scenari che si configurano nei contesti di approdo, verso

los que se fueron (cfr. Ansion, Mujica, Villacorta, 2008), i componenti della famiglia che se ne

sono andati e vivono altrove. Coloro che rimangono servono solitamente a completare la visone di quelli, a renderne una rappresentazione più accurata e faticano, nelle indagini, ad assumere contorni nitidi, ad emergere quali soggetti legittimi ed autonomi.

Si vuole pertanto tentare un approccio in grado di tenere in conto in maniera più sistematica l’ambiente socioculturale d’origine di quanti sono partiti, se non altro le sue dimensioni private,

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Vari studiosi hanno suggerito l’impiego del termine spazio o campo sociale per indagare le forme e le pratiche del fenomeno migratorio transnazionale. Con Peggy Levitt e Nina Glick Schiller, «the concept of social field is a powerful tool for conceptualizing the potential array of social relations linking those who move and those who stay behind» (2004, 1009).

familiari; che prescinda, almeno in parte, dalle dirette connessioni di questi ultimi con esso. Filtrare la migrazione attraverso le vicende dei parenti che rimangono può dunque servire a considerare quale significato, o quali significati essa assuma nelle vite di persone autentiche. Persone prese in circostanze e corsi che le riguardano sia come membri di gruppi che singolarmente; progetti in cui alla permanenza, rispetto alla mobilità, è forse accordato un peso diverso ma non trascurabile. Ci si chiede quali siano gli effetti immediati e prolungati della migrazione di alcuni sulle strutture, sull’immaginario e sulle pratiche locali; quali i modi in cui chi sta si inquadra nei progetti di chi va; quali aspettative di volta in volta si creano, quali gli esiti, quale il grado di soddisfazione. Si tratta di pensare ai modi in cui quelli in Perù conducono la propria esistenza quotidiana, elaborano e gestiscono i movimenti degli altri; alle direttive che si danno e secondo le quali si riorganizzino; a come si rapportano alla fluidità delle relazioni; ai livelli di vita che si possono concedere. La volontà è di capire in che misura e in che senso determinati eventi vengano tradotti nella pratica e in contesti situati da coloro per i quali tali contesti sono ancora casa – hogar –, luogo abitato e vissuto. Declinare l’indagine in questi termini, centrarla cioè sulle dimensioni ‘domestiche’ dei fenomeni migratori, consente appunto di osservare la quotidiana costruzione dell’esperienza (locale e transnazionale, e su quest’ultima accezione si discute e si discuterà) in campi e in ambienti scarsamente esplorati, ma essenziali. Compito dell’antropologia è appunto individuare gli spazi e le fonti che consentano di ricostruire questi processi, e di rappresentarli.

2. 1 Quali famiglie

L’interesse qui è per ambiti relativamente ristretti e limitati in estensione e nel tempo; per storie singolari e collettive e per il modo in cui esse possono contribuire a ricostruire certe dinamiche migratorie, e a ri-teorizzarle. Rispetto a tali dinamiche, la famiglia gioca un ruolo molteplice perché ne rappresenta la misura, il campo e lo strumento d’indagine. Come istituzione e come processo, la famiglia è infatti il luogo di convergenza tra biografia personale e storia sociale (Jelin, 1998, 12), tra pubblico e privato. Da ciò deriva l’impossibilità di isolare

l’oggettività della conoscenza dalla soggettività dell’esperienza. Pare più ragionevole comportarsi nel senso opposto, incorporare cioè nel lavoro scientifico l’eterogeneità delle traiettorie comuni e individuali, la mutevolezza delle inclinazioni, il valore degli affetti. Come livello ‘meso’ dell’analisi, la famiglia consente di riscattare il ruolo degli attori sociali dal peso e dalla determinazione dei fenomeni strutturali più ampi. Situare l’analisi della migrazione a questo livello, quindi, può servire a catturare alcune delle complessità e delle ambiguità dell’esperienza migratoria (cfr. Levitt, 1999).

Ma la famiglia, come unità di analisi, pone una serie di problemi teorici ed operativi. Rende necessaria qualche riflessione preliminare su questioni formali e convenzionali, oltre che sulle procedure metodologiche ed interpretative. Pesa, su ogni altro aspetto, una difficoltà terminologica, un problema di definizione. La varietà delle tipologie, la variabilità delle strutture e dei contenuti familiari impongono di stare insistentemente sui propri dati e di ponderare i riferimenti a modelli classici e a diciture generiche e vaghe; costringono quindi ad un confronto puntuale e serrato con le realtà che si osservano, con individui concreti, con situazioni e condizioni specifiche.

Varianti transnazionali

Non serve, in questa sede, ripercorrere gli sviluppi dell’antropologia della famiglia e della parentela, né indicare le soluzioni, le tassonomie che la disciplina ha elaborato nel suo corso. Importa invece precisare quale posizione si intende assumere rispetto ad una delle denominazioni ‘in voga’ mostrandone l’interesse e i limiti. Il riferimento è in particolare alla “famiglia transnazionale”; a quegli studi sulla parentela che piuttosto di recente, grossomodo dall’ultimo decennio del Millenovecento, hanno aggiunto alle loro rubriche l’impatto della migrazione internazionale sui cambiamenti nell’istituto, nella conformazione, nella storia familiare. Già dagli anni Ottanta, ancora prima della svolta transnazionale, si presta attenzione al ruolo di istituzioni intermedie ed intermediarie nel processo e nel circuito migratorio; al ruolo, cioè, delle reti sociali e delle connessioni parentali funzionanti tra i contesti di origine e quelli di arrivo degli immigrati. Negli anni Novanta quindi, all’interno dei programmi

consolidati degli studi sulle migrazioni e degli studi sulla famiglia, trainati e rinnovati, per certi aspetti, da quelli di genere (cfr. Willis, Yeoh, 2000), si dà l’inclusione delle unità domestiche (delle household, degli hogares) non solo quali nuclei tematici ma quali prospettive analitiche dalle quali osservare i movimenti e le biografie di uomini e donne all’interno di traiettorie e strategie individuali e comunitarie. Unità domestiche che non si limitano a definirsi, secondo le visioni più tradizionali, come gruppi di persone che vivono e risiedono unitamente, ma vanno invece acquisendo una dimensione translocale, transnazionale (Oso Casas, 2008, 565)137.

In quest’ambito, ed in questi termini, si individuano e si teorizzano dunque le nuove forme che le famiglie ‘a distanza’ vanno assumendo. Famiglie la cui cifra non è tanto il movimento, quanto la dispersione attraverso i confini internazionali138. Dispersione delle persone e dei vincoli del nucleo parentale che non va però a scapito dei sentimenti di unità e di appartenenza, della corrispondenza e della partecipazione reciproca (cfr. Kavakli Birdal, 2005; Ugalde, Peláez, 2009); che non va, in altre parole, a detrimento di quella ‘familiarità’, di quel senso della famiglia che Bryceson e Vuorela (2002) chiamano ‘familyhood’139. Diversi gli autori ad essersi interrogati su cosa realmente comporti la dislocazione di quei legami familiari ed emotivi che usavano iscriversi in spazi concreti ed in tempi misurabili in base alla propria presenza. La

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Specialmente nella letteratura sulla migrazione, la questione della definizione di famiglia non sembra del tutto chiarita. Parafrasando Zlotnik (1995b), seppur si mantenga la famiglia nucleare come la misura rispetto alla quale procedere al confronto ed alla segnalazione di soluzioni familiari altre, non è certo fino a che punto sia legittimo considerare ‘unità’ le famiglie i cui membri vivono in paesi differenti, con progetti e realizzazioni familiari loro propri. Il termine household può contribuire a risolvere alcuni problemi. Usato in ambito migratorio, esso denota «the group of people that, although separated by migration, are nevertheless linked by direct economic ties, such as those associated with the flow of remittances». É implicito che i membri della household siano legati da vincoli parentali, «though that needs not be the case in all instances» (254), e sebbene tali vincoli possano variare, nei contenuti e nelle determinazioni.

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Diversi i tentativi di tracciare dei profili, di definire delle tipologie di transnational households – hogares transnacionales. Parreñas (2001, 2005) ne distingue tre tipi, in base a chi si trovi fuori; padre o madre, o entrambi, o un figlio adulto. Oso Casas (1998), centrandosi specificamente sulle donne emigrate che si fanno carico delle famiglie di provenienza, individua una serie di varianti, a seconda che si tratti di partenze singole o, invece, di migrazioni familiari. Donne sposate che mantengono mariti, figli e altri familiari rimasti al paese di origine; las solteras, le nubili con un certo numero di parenti a carico; donne a capo di hogares monoparentali (madri singole, separate, vedove), nel primo caso. Donne pioniere; coppie di coniugi uniti nel progetto e nella attuazione della migrazione; donne ricongiunte dal marito o da altri familiari, nel secondo caso. Difficile restare all’interno dei modelli proposti. Le famiglie peruviane con cui si lavora, ad esempio, offrono in verità prove diverse dell’intreccio tra le forme appena descritte; sconfinano rispetto agli schemi, combinano differenti soluzioni.

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«Families that live some or most of the time separated from each other, yet hold together and create something that can be seen as a feeling of collective welfare and unity, namely ‘familyhood’, even across national borders» (Bryceson e Vuorela, 2002, 3).

frammentazione dell’ordine e dei tradizionali rapporti produce necessariamente una serie di cambiamenti nella configurazione della famiglia com’era in partenza. Non sfugge tuttavia come la migrazione non distrugga i vecchi modelli, ma li modifichi e crei nuove basi per ristrutturare e mediare diversamente le interazioni tra le sue componenti.

Dove la distanza impedisce la prossimità fisica, l’assiduità delle relazioni e la quotidianità delle pratiche, queste non esitano a riprodursi sotto altre forme. In circostanze mutate, si tenta di veicolare altrimenti i significati, gli affetti, le attenzioni, i doveri. La migrazione pare insomma riconfigurare nel tempo gli assetti familiari ed offrire modi inediti di frequentare i propri ruoli. Formazioni inedite ed attuali, quindi, le famiglie transnazionali sono concepite quali sottoprodotti del capitalismo globale, reti sparse tra vari luoghi che devono la propria esistenza a condizioni storiche, politiche e socio-economiche specifiche e, grazie all’avanzamento e all’accessibilità delle tecnologie di comunicazione e di trasporto, ad una frequenza e ad una qualità di rapporti impensabili fino a qualche decennio fa (cfr. Kavakli Birdal, 2005, Tamagno, 2005; Sørensen 2006). A dispetto della lontananza, infatti, tali mezzi rafforzerebbero il legame tra gli appartenenti all’unità parentale e ne incoraggerebbero la presenza, la circolarità e le operazioni in uno spazio che è, appunto, transnazionale (cfr. Herrera 2001; Silver 2006; Ugalde, Peláez, 2009).

Conviene riflettere sull’utilità di questa terminologia, al di là della sua fortuna letteraria. Si è infatti ancora ad un tentativo di definizione. Il discorso relativo a queste modalità transnazionali e diasporiche di essere e di fare famiglia (cfr. Bryceson, Vuorela, 2002) permette in parte di avvicinare l’oggetto dello studio, ma non di catturarlo. Per farlo, si deve procedere per sottrazione e quasi in negativo rispetto alle indicazioni ed alle nozioni correntemente in uso. Queste, invero, spiegano soprattutto gli intrecci e lo snodo delle reti relazionali che si sviluppano attorno ai soggetti migranti, gli unici ad essere, come già s’è detto, realmente a fuoco, e si concentrano essenzialmente sul loro impegno a mantenere i contatti e a rinnovare la coesione con coloro che restano. Rispetto a questi ultimi, invece, è significativa la mancanza di un termine appropriato, di un termine che non li descriva in funzione esclusiva dei parenti che sono partiti: «non-migrants, stay behind, homeland kin, left-behind» (cfr. Herrera, 2001; Bryceson, Vuorela, 2002; Baldassar, Vellekoop Baldock, Wilding, 2007).

Chiamare transnazionali le famiglie peruviane delle quali si tratta vorrebbe dire inquadrarne l’indagine secondo le prospettive problematiche brevemente delineate sopra; significherebbe allinearsi a posizioni teoriche ed evocare configurazioni ed aspetti che non sempre sono pertinenti o riconducibili al carattere delle esperienze e dei casi che si osservano. Il rischio è di perdersi nel mezzo, che la ricerca stessa cioè tardi ad assumere concretezza e corpo e che l’oggetto, o meglio i soggetti dello studio si polverizzino tra le due dimensioni, entre acá y allá (cfr. Tamagno 2003), prima ancora che li si riesca a descrivere. Ma se è difficile, e forse non del tutto conveniente, liberarsi dei termini e dell’ottica transnazionali (cfr. Riccio, 2007), allora bisogna, proprio su questa scia, cercare di improntare analisi più elastiche, che si adattino ad un oggetto riformulato; trovare il modo o i modi di integrare in questa visione i ‘transnazionali locali’, quei «transnationals who are easily but mistakenly ignored»; le persone che non emigrano ma hanno parenti al di là dei confini del proprio paese e dunque pensano ed agiscono comunque in maniera transnazionale (Baldassar, Vellekoop Baldock, Wilding, 2007, 14).

L’esistenza di influenze e di meccanismi inquadrabili in una visione translocale non è affatto messa in discussione. È evidente che, da una parte come dall’altra, si producono sforzi per mantenere, riconfigurare e gestire i legami di parentela calibrando presenze e assenze, partenze e ritorni. Si creano specifici campi sociali tra chi va e chi resta che hanno riverberi complessi sulle persone, sulle loro storie. L’ipotesi qui, come si spiegherà e si cercherà di provare, è che la transnazionalità delle famiglie in studio, al di là delle pratiche di connessione che renderebbero appropriata tale definizione140, operi in una diversa accezione e con una diversa logica o,

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Transnazionalismo, «as long distance networks» (cfr. Vertovec, 1999, 447), come «the processes by which immigrants build social fields that link together their country of origin and their country of settlement» (cfr. Basch, Glick Schiller, Szanton-Blanc, 1994, 7), descrive un sistema di reti sociali e di pratiche relazionali che a dispetto di grandi distanze e di restrizioni geografiche e politiche, attraversa le frontiere tra gli stati nazionali (cfr. Riccio, 2007). Il concetto si applica a spazi e a morfologie sociali peculiari, ne qualifica le dinamiche, le forme di consapevolezza, le prassi. Il riferimento è a fenomeni che si differenziano per natura e per intensità. Il piano transnazionale che le indagini sociali privilegiano è quello “popolare”, quello delle iniziative generate dal basso, da privati che sostengono legami di tipo affettivo, sociale ed economico oltre-confine (cfr. Guarnizo e Smith 1998; Portes, 2003). Diversi i dubbi in merito alla capacità che il termine avrebbe di centrare il proprio oggetto. Sembra mancare un consenso generale attorno a certe idee ed a certi temi; sono varie le obiezioni alle definizioni più rigorose e ristrette, secondo le quali, seppur popolari ed eterogenee, le attività e le forme della transnazionalità dovrebbero essere di norma regolari e assidue. In questi termini, le pratiche relazionali e le comunicazioni più occasionali e sporadiche tra luogo di provenienza e luogo di destinazione, per quanto significative, andrebbero considerate altrimenti. Ciò vorrebbe dire, almeno in linea teorica, che soltanto alcuni migranti, ed alcune delle loro

addirittura, come una logica a sé stante. Che funzioni, in altre parole, come prospettiva, come narrativa e proiezione di certi discorsi individuali e collettivi. Più che la vita familiare in sé, dunque, empiricamente situata e precisamente contestualizzata, transnazionali sembrano essere alcuni riferimenti, alcuni scorci ed alcune possibilità della famiglia, così come dei singoli al suo interno. Transnazionale, come si spiegherà meglio in seguito, è in un certo senso l’impronta, la qualità di una sorta di ‘cultura della migrazione’ che mano a mano si scopre sul campo della ricerca. Una ‘cultura’ che, da un lato, viene sviluppata e condivisa tra quanti sono fuori e quanti sono in Perù; che dall’altro, invece, assume proprio tra questi ultimi la natura di un codice, di un linguaggio e di un ragionamento su di sé, su come si è, su come, in alternativa, si potrebbe essere (cfr. Cap. 5).

Al ricercatore, i discorsi della migrazione e la prospettiva transnazionale declinata come sopra appaiono assai eloquenti; a chi osservi ed ascolti, infatti, insegnano le collocazioni e le facoltà delle diverse persone della famiglia, ne mettono in luce i compimenti e le rinunce. Possono spiegare, del sistema familiare, aspetti cruciali come le strutture e i dispositivi generazionali, le regole e le dinamiche del genere, i meccanismi dell’autorità e del potere. Offrono un accesso alle sue ideologie, aiutano a percepirne le frontiere, i confini.

Famiglie e hogares

Tre sono, in questa occasione, le famiglie con cui si lavora, ciascuna con un carattere, uno

stile ed una maniera propri di organizzarsi, di tracciare e di orientare le relazioni al suo interno. Come già in parte discusso, la materia stessa pone seri problemi nel momento di stabilire i principi validi per la raccolta e per l’analisi dei dati. Spiegare con quali realtà si abbia a che fare, tentare di delimitarne e designarne il campo è doveroso e primario se si vuole proseguire ragionando e parlando opportunamente di famiglia, di famiglie. Le loro forme e funzioni, infatti, variano tanto da costringere a verificarne i significati di volta in volta, per ogni caso specifico.

famiglie, sono propriamente inquadrabili in questo paradigma (cfr. Portes, Guarnizo, Landolt, 1999). Per considerazioni sulla questione nei suoi aspetti relativi al campo, si confronti il Cap. 5.

Se precisato, quello di hogar141 può valere come «concepto adicional» (Ponce, Francke, 1985, 12), come criterio per procedere ad una definizione utile ed operativa di famiglia. Inteso nei termini di «hogar-vivienda» denota la dimora, l’unità costituita dal gruppo di individui che di norma abitano sotto lo stesso tetto, tra le stesse mura, siano questi imparentati o no tra di loro. Una accezione meno generica, quella di hogar come «unidad domestica»142, precisa e richiede che le persone che lo conformano occupino la totalità o parte della casa, che condividano i pasti principali e insieme soddisfino le necessità basiche comuni (ibid.). La convivenza, quindi; ma anche un’economia, un bilancio complessivi; una ‘domesticità’ collettiva; la quotidianità, l’insieme delle attività finalizzate alla riproduzione quotidiana (cfr. Jelin, 1998; Arriagada, 2005). Ecco, sulla carta, gli indicatori che dovrebbero orientare, che dovrebbero segnalare e circoscrivere le sezioni della realtà e degli ambienti sociali che ospitano questa ricerca. Sulla carta, si diceva. Le dinamiche delle famiglie in questione, di fatto, si spiegano e interessano al di là dei dati e delle istruzioni dei censimenti.

Sono famiglie allargate, quelle con cui si lavora, perché allargato, esteso è lo spazio delle funzioni e delle pratiche di ciascuna; uno spazio di interconnessione e di dialogo continui, di frequentazioni, di corrispondenze e di condivisioni intense. Sono gli stessi informatori, gli interlocutori, i membri di ogni gruppo a parlare abitualmente di famiglia, di la familia, di mi

familia. Loro, per primi, ad esprimersi in termini di collettivo, a narrare e a spiegarsi in termini

comprensivi. I riferimenti individuali, pertanto, quando non si adeguino, quando non si accordino all’insieme, assumono un peso particolare. Significano cioè precise prese di posizione, o di distanza; possono annunciare un desiderio di centrarsi, di concentrarsi su di sé; una volontà di affermazione fuori dal contesto, la scelta, seppur temporanea e revocabile, di intraprendere percorsi autonomi e di predisporre iniziative e strategie personali.

Non si sbaglia se s’afferma che il criterio basico per la formazione e per la definizione dei tre gruppi è la parentela, originata per vincoli di sangue e per matrimoni. Le relazioni parentali, però, al di là della loro “naturalità”, si fanno idioma sociale e parlano di stili e di andamenti

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Hogar, come viene utilizzato nei discorsi comuni così come in quelli istituzionali, è la casa, il luogo in cui si abita, il focolare domestico; home, in inglese. Indica l’unità domestica ed abitativa nei documenti censimentali.

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Quest’ultima è la definizione di hogar utilizzata nei censimenti, el Hogar Censal, secondo quanto riportano ad esempio Ponce e Francke (1985), autori di uno studio socio-demografico appunto su famiglia e hogar in Perù.

complessi; incorporano ed articolano legami multipli che la biologia non risolve e non spiega. Ma neanche la convivenza tra le persone, che insieme alla sessualità (ai modi di organizzarla) ed alla filiazione serve di norma alla determinazione della famiglia (cfr. Jelin, 1998), è sempre di aiuto nei contesti in studio; occorre riconsiderarla, pensarla in termini meno convenzionali.

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